C’è terra per tutti

Ciao, presentati?
Lorenzo Tosi, bolognese, una famiglia di artisti e stilisti alle spalle, ho scelto la laurea in scienze agrarie per avere i piedi per terra.

Scelta saggia?
Sono anche ex cuoco, ex repressore delle frodi agroalimentari, ora un giornalista che si occupa di agricoltura e di vitivinicoltura. Vuoi sapere il paradosso?

Certo che sì.
Ho lasciato la cucina per il giornalismo per l’ansia di comunicare le mie idee. Per poi scoprire che i veri opinion leader oggi sono diventati proprio gli chef.

Lasciamo stare dai, senti, facciamo un gioco, tipo test di Rorschach…se ti dico agricoltura italiana, cosa ti viene in mente
L’agricoltura italiana è quel peculiare settore economico popolato da imprenditori che si sentono santi, eroi, poeti, alcuni navigatori, tanti inventori.

Allora spiega, santi perché?
Santi perché da noi la condizione di agricoltore non ha mai avuto una connotazione positiva. “Contadino” è spesso abbinato a concetti di ignoranza, rozzezza, povertà e ha un’accezione di sottomissione perché significa abitante del contado, il feudo di un conte. Un termine ben lontano dalla nobiltà del francese paysan o dalla professionalità del farmer inglese o del granjero spagnolo. Il contadino italiano è invece quel martire consapevole che rimane in campo a spaccare sassi mentre i cittadini sono in spiaggia sotto all’ombrellone.

Eroi?
Eroi perché devono affrontare a mani nude la straripante burocrazia della Pac, politica agricola comunitaria (che solo in Italia, a dire il vero, riesce ad arrivare a iter amministrativi così aggrovigliati).

Quindi non resta che essere poeti?
Poeti perché pretendono di comunicare in prima persona le virtù di quel che producono e spesso sono i migliori a farlo.

Navigatori? Sulla terra non si naviga
Navigatori perché alcuni imprenditori agricoli, i più illuminati, hanno ormai delegato ad altri professionisti l’uso del trattore (spesso dotato di sensori digitali e guida assistita da gps) per raggiungere i mercati internazionali e vendere in prima persona i loro prodotti.

Poi?
Inventori perché i piatti più importanti della nostra cucina, che raccoglie tante medaglie all’estero, non nascono in realtà nelle cucine dei grandi chef ma direttamente nei campi degli agricoltori.

Ti sento un po’ autarchico, ma spiega.
Basti pensare che la passata è un’invenzione tutta italiana, sviluppata grazie all’impegno di tanti sconosciuti agricoltori italiani che hanno preso un frutto di origine americana piccolo, giallo e acidulo ricavandone tutta le varietà che oggi conosciamo di pomodori territoriali, soprattutto rossi, che oggi troviamo (migliorate) su tutte le tavole del mondo, tra cui il tondo e il san Marzano che hanno dato origine al settore conserviero.

Collaborazione dal basso, quindi.
Sì, prendi i vini. I nostri grandi vini derivano dalla selezione (e dall’assemblaggio, vedi Chianti) dei numerosi vitigni locali sviluppati da generazioni di viticoltori. Ma non solo, settori come quello delle verdure di quarta gamma devono pagare pegno a generazioni di orticoltori che hanno selezionato e coltivato “erbette” come la rucola solo per dare un sapore originale a insalate e pietanze.

Quindi torniamo alla definizione di cui sopra, i contadini sono degli inventori che non sanno di esserlo.
Certo, agricoltori che non hanno mai smesso di inventare, di adattare tecniche di allevamento e di coltivazione per sviluppare colture alternative prese da ogni angolo del mondo (la tipicità ha sempre radici global), oggi persino la frutta tropicale, cercando così di rispondere agli effetti del climate change. Capisci che minimizzare questa inventiva, vincolare tutto il settore primario al rispetto di una presunta tradizione contadina, è il maggiore torto che si può fare all’ agricoltura italiana.

Dici che i pregiudizi sono una schiavitù?
Dico che paghiamo pegno rispetto a questi ed altri pregiudizi perché la condizione di isolamento e di discriminazione non ha finora stimolato la propensione all’aggregazione e alla collaborazione con altri settori, ad esempio con il mondo della ricerca.

Ok, novità in campo?
Qualcosa sta cambiando, sì: la digitalizzazione dell’agricoltura consente di superare l’isolamento e sta portando in campo una nuova generazione di imprenditori agricoli più consapevole e più aperta. Pronta a collaborare con i maggiori centri di ricerca e persino con le multinazionali del settore, per mettere a punto tecnologie e metodi di coltivazione 4.0, magari adatti per l’agricoltura biologica. O contribuendo a sviluppare nuove varietà, magari ottenute con nuovi metodi di miglioramento genetico.

Mi fai degli esempi?
La codifica del genoma della vite, 15 anni fa è stato un successo tutto italiano a cui hanno contribuito anche alcune importanti cantine. La codifica del genoma di Leccino, una delle più importanti varietà di olivo, caratterizzare da tolleranza alla Xylella, è un altro recentissimo successo tutto italiano che grazie alla collaborazione dei produttori può essere il preludio per risolvere i problemi cronici che stanno pesantemente condizionando la produzione nazionale di olio extravergine.

Insomma, viva la squadra.
Viva le sinergie strategiche, importanti per salvaguardare la nostra visione di agricoltura. Perché da noi il cibo non è mai stato solo alimentazione, ma soprattutto convivialità.

Aspetta, per non buttarla lì come se fosse il solito slogan, parliamone un po’.
L’agricoltura italiana è spiazzata in mezzo al dualismo tra globalizzazione e ambientalismo. Da una parte chi pretende di produrre di più (più amidi, proteine, oli per cibi densi ricostituiti), ma con meno per sfamare il mondo (l’agricoltura però è un settore economico e come tale si basa sui nostri bisogni. Estremizzando: l’agricoltura campa sulla fame, e la fame nel mondo è più un problema di carenza di reddito piuttosto che di non accesso alle risorse alimentari). Dall’altra chi si illude di rendere l’agricoltura europea un giardino ad emissioni zero.

Questo per grandi temi, nello specifico?
In mezzo c’è il nostro modo di concepire la produzione alimentare, che tra l’altro attrae consenso tra i consumatori di ogni angolo del mondo.  In Italia si mangia per esprimere la propria identità, e gli imprenditori sanno che l’obiettivo della nostra agricoltura non è (solo) quello di produrre quantità, ma soprattutto più qualità, tipicità, sostenibilità, magari persino inclusività e equità sociale.

Senti Lorenzo, qui in genere, c’è un equivoco, fammi capire come la pensi, se dici tipicità, almeno a leggere i disciplinari di produzione, dici immobilità. Eppure, per tornare ai contadini di cui sopra, un motto atavico, che al sud ho sentito pronunciare spesso era: stiamo sotto al cielo. Che ha un sapore di fatalismo, e tuttavia identifica anche un sistema dinamico, cambia l’ambiente cambiano le colture, cambiano gli strumenti cambiano i geni selezionati e così via. Quasi impossibile essere fermi in campo. Quindi, nella sostanza, una innovazione può garantire la tipicità?
Sicuramente sì: puntare sull’innovazione tecnologica è il modo migliore per risolvere tutti questi problemi: non è un’idea balzana pensare che il genome editing, appena sarà sdoganato in Europa, possa aiutarci a proteggere il nostro patrimonio di varietà locali magari caratterizzandole e tutelandole con geni di resistenza a malattie e parassiti. E non lo è nemmeno pensare che la digitalizzazione e la sensoristica, l’evoluzione dell’agricoltura 4.0, comporteranno un necessario balzo di competenze e di valorizzazione del lavoro nei campi. Internet of thing e blockchain potrebbero diventare così l’antidoto al caporalato e al lavoro nero, l’altra faccia della medaglia, il vizio maggiore che oggi compromette l’immagine dell’agricoltura italiana nel mondo.

Mi fai degli esempi concreti? Cose, diciamo così, che hai saggiato con mano, innovazioni che stanno portando concreti benefici.
Parto dai Piwi, acronimo di Pilwilderstandfähig, parola tedesca che indica i vitigni resistenti alle patologie fungine come peronospora e oidio: sono la risposta oggi più convincente al problema della sostenibilità ambientale della viticoltura (almeno fino a quando in Europa non saranno sdoganate le Nbt, le nuove biotecnologie di precisione come il genome editing, potenzialmente capaci di “donare” geni di resistenza non ai vitigni figli, ma direttamente ai padri, poi vedremo). La loro coltivazione consente infatti di ridurre fortemente il numero dei trattamenti antifungini (a spanne: da 20-25 a 4-5, per evitare che patologie fungine secondarie prendano il sopravvento).

Vitigni tedeschi?
La sigla è tedesca perché i primi sono stati sviluppati a Friburgo, ma oggi possiamo contare anche su una ventina di vitigni resistenti realizzati in Italia, figli di molti nostri vitigni autoctoni e il loro numero è destinato a crescere. Sono frutto di incroci tradizionali, assistiti però da marker, che consentono di riunire in un’unica varietà i caratteri di qualità enologica e di resistenza. Daniele Piccinin dell’azienda vinicola Le Carline, pioniere del biologico, nell’area della Lison Pramaggiore Doc, dice che oggi bisogna andare oltre al bio e pensa che questi vitigni fungano da innesco per la viticoltura del futuro.

Come si fa?
Ha creato un vigneto collezione dove mette a confronto più di trenta vitigni resistenti frutto del miglioramento genetico tedesco, ungherese e italiano per studiarne il comportamento agronomico ed enologico e ha creato una linea di vini dedicata (Resiliens).

Ok, poi?
Bioagrofarmaci e biostimolanti, nuovi prodotti alternativi, frutto spesso della ricerca italiana, sono le contromisure che si stanno dimostrando più efficaci per aumentare la sostenibilità delle pratiche della difesa e della concimazione e per tentare di rispondere agli effetti dei cambiamenti climatici, con effetti anche sulla qualità delle produzioni.

Fammi esempi, dai.
Il nostro Paese è leader nella produzione ed esportazione di mele. Alcuni produttori illuminati del Trentino hanno pensato di sostituire, qualche anno fa, i promotori di crescita sintetici con biostimolanti naturali ottenuti da borlande ed estratti di alghe sviluppati in Italia ottenendo risultati migliori in termini di uniformità della pezzatura, qualità organolettica e serbevolezza con il vantaggio ulteriore di non avere problemi di residui. Ora questi prodotti sono entrati nei disciplinari di produzione dei marchi che fanno grande il settore melicolo di questa Provincia.

Senti, e per quanto riguarda l’agricoltura di precisione?
Ecco, parliamo dei satelliti della famiglia Sentinel, sviluppati da Esa (agenzia spaziale europea), sono ormai diventati strumenti agricoli al pari del trattore e dell’aratro. I produttori soci di Conserve Italia, una delle maggiori cooperative italiane nel settore dell’ortofrutta trasformata, li utilizzano per realizzare la piena integrazione di filiera.

Che fanno i satelliti?
L’occhio di Sentinel consente il telerilevamento in tempo reale del vigore di colture come pomodoro e pisello da industria, un dato decisivo per razionalizzare la gestione degli input e delle risorse idriche, ma anche per prevedere in maniera tempestiva la presunta data di raccolta. Un’informazione che consente di programmare in maniera razionale tutta la fase di trasformazione del prodotto ottenuto su oltre 7mila ettari tra Emilia Romagna e Lombardia.  Una soluzione tecnologica che, se fosse applicata su ambiti territoriali più estesi, potrebbe rivelarsi decisiva anche per portare più informazione e servizio nella fase di raccolta manuale, diventando l’ingrediente decisivo per lo sviluppo di filiere “etiche” senza sfruttamento della manodopera agricola. Questa però è solo una delle possibilità, una singola pagina del capitolo dell’evoluzione digitale delle nostre campagne.

A proposito di evoluzione digitale che cosa buona e giusta ma nelle nostre campagne spesso nemmeno arriva la rete, mi chiedevo riusciamo a comunicare i vantaggi e le novità ai cittadini, spesso ci limitiamo ad annunciare progetti e piani di sviluppo con delle sigle.
Sì, l’agricoltura oggi sembra dare i numeri. È vero rincorre le sigle ma c’è una parolina magica, formata da tre lettere: DSS, che sta consentendo di fare il balzo evolutivo passando dall’agricoltura 2.0, quella scaturita dalla rivoluzione verde degli anni ’50, con il boom delle rese innescato da miglioramento genetico e mezzi tecnici, a quella 3.0 (precision farming), 4.0 (l’era della digitalizzazione), fino alla 5.0 (robotizzazione).

Aspetta che ho un problema con le sigle DSS…
I DSS, Decision support systems, sistemi di supporto alle decisioni, sono della app diventate indispensabili per analizzare e mettere in relazione questa mole di informazioni per ricavare indicazioni utili che raggiungono gli imprenditori agricoli attraverso smartphone o tablet, consentendo loro di decidere in tempo reale come e quando intervenire con i trattamenti, le concimazioni, le irrigazioni. Uno dei primi sistemi italiani di questo tipo è stato sviluppato una decina di anni fa in Umbria. Un’iniziativa a cui ha dato un impulso decisivo Giampaolo Bea, produttore umbro di vini naturali, per posizionare al meglio i trattamenti con sali rameici e limitarne il più possibile l’utilizzo: viviamo una fase storica in cui tutti questi modelli produttivi sono contemporaneamente presenti in campo (o in stalla), alla faccia di chi pensa che il settore primario sia immutabile nel tempo.

È un settore in grande mutamento e per tornare al discorso di cui sopra, non si riesce a pensare al contadino come un cittadino in movimento…però riguardo l’agricoltura di precisione il problema esiste: questi dati, questi numeri, sono facili da gestire?
Per essere “precisi” occorre fare la cosa giusta, al momento giusto e all’intensità giusta. Una pignoleria che richiede la capacità di raccogliere una marea di dati. I rilievi dei satelliti, come abbiamo visto, ma anche i dati geolocalizzati di monitoraggio di migliaia di sensori wireless e di stazioni meteo diffuse posizionate tra i campi e collegati attraverso l’Internet of things.

Come finiamo questa chiacchierata?
In Italia c’è terra per tutti. Anche se le aree interne della penisola si stanno svuotando, l’area coltivata è drammaticamente calata nell’ultimo mezzo secolo. Allora concentriamoci sull’innovazione tecnica, che abbinata alla competenza e all’inventiva, produce vantaggi trasversali che superano le barriere ideologiche che contrappongono oggi i diversi metodi di produzione in agricoltura.

C’è terra per tutti
Sì per i giovani agricoltori che puntano sul bio, per quelli che credono nella produzione integrata. Per i fan del digitale e per i tecnici che hanno studiato le biotecnologie sostenibili, tutti abbiamo un solo obiettivo.

Quale?
L’obiettivo comune è la sostenibilità e la tutela della biodiversità, prima di tutto delle idee.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.