China Clipper, il nome del sogno

Minuscola ma deliziosa, quasi una miniatura. Clipper che passa sopra la baia di Hong Kong

In cui si racconta la vicenda con la quale un pugno di idrovolanti trasforma per sempre la nostra idea di viaggio e di esotismo, e ci si prepara a uno straordinario viaggio destinato a restare nella memoria di pochi che poi però lo racconteranno a tutti gli altri e magari un domani qualcuno ci farà anche un film.

(Qui c’è la prima parte).

Siamo portati a pensare che ci sia una certa continuità nel tempo. Ma non è vero. Le fratture, i cleavages, esistono. Ci sono momenti in cui si “salta”. Ad esempio, nella nostra storia dedicata alle barche volanti, dopo la seconda guerra mondiale cambia tutto. C’è il salto tecnologico frutto dell’accelerazione bellica. C’è l’abbondante capacità di produzione di aerei che rimane in sospeso e ha bisogno di nuovi sfoghi nel settore commerciale. E c’è poi l’ampio numero di piloti ex militari in cerca di lavoro. In un attimo cambia tutto.

Dopo la guerra ci sono infatti le premesse per l’esplosione di un’America proiettata per la prima volta come non mai verso il resto del mondo: un impero commerciale oliato dal piano Marshall che genera business dal business e fa correre decine di compagnie aeree intercontinentali, spostando businessman in tutto il pianeta e preparandosi all’ondata di famigliole delle nuove classi medie in cerca di luoghi ameni di villeggiatura.

Ma prima di tutto questo c’era praticamente la sola Pan Am e c’erano solo i suoi clipper.

Uno pensa: un intero mondo di aeroplani. Nient’affatto: erano pochi, molto pochi. Tre Sikorsky S-40, dieci Sikorsky S-42, tre Martin M-130 e dodici Boeing M314, di cui tre vennero venduti alla Boac. Stiamo cioè parlando di 25 aerei in tutto. Che però fecero un’epoca.

Ecco a voi l'aeroporto di Miami, signore e signori. Per realizzarlo, bastano un pontile, una palazzina di legno e uno specchio d'acqua

Il buon Trippe aveva intuito che nel mondo c’era più specchi d’acqua che non aviosuperfici, più mari e fiumi che non piste di cemento o terra battuta. L’idea era quella di portare i suoi passeggeri con gli idrovolanti, perché aprire una nuova base all’estero, dall’America Latina sino all’Asia, richiedeva un investimento infrastrutturale minore. Faceva la differenza tra poter arrivare, con tante tappe intermedie, dall’altra parte del mondo oppure no. E poi c’era una continuità: le nuove strutture per il viaggio aereo di merci e passeggeri nascevano accanto ad hub riconosciuti come i grandi porti merci e passeggeri. San Francisco in questo era perfetta come base, anche Miami e altri porti americani avevano un potenziale enorme.

L’idea del viaggio a bordo delle “navi volanti” era diversa da come lo intendiamo adesso. I lunghi voli richiedevano uno sforzo mentale e fisico non irrilevante per le persone, oltre che una spesa notevole: la concezione del prodotto e dell’esperienza doveva essere all’altezza. Il posizionamento della Pan Am era quindi nel settore del lusso, per una fascia ristretta di ricchi e avventurieri, ereditiere e mogli di capitani d’industria che si potevano permettere il prezzo salatissimo dei biglietti. Era inimmaginabile che questi ricconi volassero su aerei con personale in tuta da lavoro marrone e con il giubbotto di pelle per ripararsi dal freddo della troposfera: tra l’altro negli aerei non pressurizzati con motori a pistoni ed eliche le quote erano decisamente basse ma ti potevi congelare lo stesso al vento gelido in quota.

La massima comodità, mentre si sale a bordo di questo Sikorsky S40 (che era anfibio, dotato di ruote retrattili, e che quindi poteva essere caricato anche da terra) è la praticità dell'entrata.

Per questo lo sforzo fu quello di realizzare aerei più confortevoli, ben riscaldati, con tutte le amenità che si potevano immaginare. L’esempio erano le navi da crociera: personale in divise simili, con bianco e blu, servizio di catering spettacolare, poltrone disposte “a salottino” e non in file parallele come oggi sui voli di linea. Considerate che i voli duravano diversi giorni, con varie tappe: a bordo era impensabile di stare legati su una seggiola per quanto comoda per 20-30 ore consecutive per più giorni di fila. Invece, si circolava, si sedeva e si conversava, si sedeva nella saletta da pranzo dove si poteva mangiare su tre turni cucina alla carta realizzata dallo chef di bordo. Mancava solo la sala da ballo e sarebbe stato un perfetto transatlantico.

Il legame tra l’acqua del passato e la jet-age del futuro era sottolineato ancora di più dalla natura ibrida delle navi volanti. Serviva anche a professionalizzare l’esperienza di volo: il costante riferimento a una serie di nomi e tecnologie marinaresche, legate a una tradizione secolare e che richiedeva una preparazione e uno studio piuttosto complesso per gli ufficiali di bordo, dava profondità e sicurezza all’esperienza del volo.

Qui si costruisce la fama dei piloti e degli equipaggi Pan Am di essere più preparati e “completi” che non i semplici “manovratori” del cielo delle altre compagnie aeree. Anche perché la navigazione aerea su lunghe distanze dell’epoca richiedeva competenze specifiche più simili alla navigazione marittima: bisognava salire in calotta e fare il punto nave, stabilire la posizione in mezzo all’oceano senza altri punti di riferimento se non le stelle o la posizione del Sole. E spesso, se il tempo era coperto, utilizzando tecniche artigianali ma tutt’altro che casuali per calcolare la possibile deriva laterale introdotta dal vento al volo lineare.

È il momento di mettere un po' di ordine prima del decollo. Ancora una volta un B314.

Ciascuna nave volante era battezzata con un nome: la pratica è seguita ancora oggi da molte compagnie aeree ma in realtà la quasi totalità dei passeggeri – e spesso anche degli equipaggi – ignora il nome del velivolo ma ne conosce solo il tipo. Ad esempio pochi giorni fa sono stato ad Amsterdam con un A321 di Alitalia del quale mi sono scritto come d’abitudine il numero di registrazione. Era lo EI-IXZ, ex I-BIXZ (Alitalia lo ha ceduto ad APC che lo ha immediatamente reimmatricolato per motivi fiscali in Irlanda e glielo ha subito ridato in leasing), battezzato il 27 luglio 1998 “Piazzale del Duomo, Orvieto”.
Ora, il nome è particolarmente poco elegante, ma è giustificato dal fatto che Alitalia ha diviso in classi di nomi i diversi tipi di aeromobili e ha programmato di dargli il nome di città italiane, o pittori italiani o altro per gestire una flotta complessivamente numerosa. Tuttavia, ve l’immaginate un transatlantico che si chiama “Piazzale del Duomo, Orvieto”? Senza offesa, ma che nome è?

Quelli di Pan Am avevano deciso che tutti i loro aerei sarebbero stati dei clipper, cioè delle navi particolarmente veloci, e che ciascuna di esse avrebbe avuto un suo nome. Il primo di tutti fu un Sikorsky S-40. Era stato progettato nel 1928, realizzato a metà del 1931 e venne consegnato a ottobre dello stesso anno. La First lady dell’epoca, Lou Hoover, moglie del presidente Herbert Hoover, lo battezzò “American Clipper” con una bottigliata di acqua dei Caraibi, perché durante il proibizionismo era vietato usare alcol nel territorio degli Stati Uniti anche solo per versarlo sulla prua di un aereo o di una nave.

È ora di cena a bordo del B-314 che sta traversando l'Oceano. A colori rende ancora di più l'idea. Altro che le nostre business da mezzi uomini.

Tanto per essere chiari, da questo momento per me i Clipper sono tutti con la “C” maiuscola, mentre per le navi, siccome è la categoria dei clipper, la “c” è minuscola.
Il primo volo fu in direzione Panama, all’epoca (come oggi) area strategica per gli Stati Uniti, sotto il comando di Charles Lindbergh, che era consigliere tecnico e amico intimo di Trippe (uno dei pochi). In pochi anni Trippe capisce che si stanno aprendo nuove strade e che è possibile investire sempre di più nel volo transatlantico sia verso sud (America Latina) che verso est (Europa) e ovest (Hawaii e Cina).

Per aprire le tratte occorreva prima avere le necessarie autorizzazioni, comprare i diritti dai singoli stati (in maniera analoga a quanto si faceva con le navi e a quanto accade ancora oggi) e poi mandare avanti una nave carica di tutta la roba necessaria ad aprire una base. E non mi riferisco tanto alla parte degli uffici, quanto alla parte meccanica: le navi volanti costruite per Pan Am erano uniche, utilizzate solo dalla compagnia e con pochissimi pezzi di ricambio. Difficilmente un pistone rotto a Hong Kong poteva essere sostituito “per caso” trovando un pezzo equivalente da quelle parti: occorreva avere una scorta preparata prima. E una nave volante era suscettibile di molti possibili acciacchi durante i suoi lunghi voli, come vedremo.

A prezzi stellari (un San Francisco – Hong Kong nella versione “base” costava alla fine degli anni Trenta circa 950 dollari, pari a circa 16mila dollari di oggi) il volo richiedeva una settimana.

C'è ovviamente la signora che voluttuosamente si pettina nella sua stanzetta riparata in coda, mentre i gagliardi piloti fanno prua con i loro petti e i gentlement si rilassano nel confortevole salotto. La vita a bordo è completa...

Il volo del 22 novembre 1935, un volo “express”, cioè solo merci e posta, tra Alameda e Manila ci mise infatti una settimana all’andata e altrettanto al ritorno, e ridusse i tempi di percorrenza tra le due città di due settimane all’andata e altre due al ritorno. A fare il volo, che nel 1937 arrivava ad Hong Kong, era un Martin M-130 battezzato China Clipper. Si trattava di un bestione – rispetto ai Sikorsky – capace di portare 46 passeggeri in configurazione diurna o 30 per la notte (con le seggiole che si allungavano in comode cuccette). Aveva tre compartimenti passeggeri, uno anteriore, seguito da una lounge-sala per la cena da 16 posti, e altri due compartimenti passeggeri posteriori. La composizione degli spazi era più simile a quella di una nave di lusso o al limite dell’Orient Express.

L’unica variabile che per noi contemporanei sarebbe stata singolare, a parte il tipo di vestiti indossato dai viaggiatori (avete presente i club per gentiluomini o i cocktail per signore? Quelli dove la gente ha la giacca da casa e comunque si cambia per cena?), era la stabilità degli aeromobili. Veleggiare a poco meno di tremila metri sopra l’Atlantico o il Pacifico può essere un’esperienza turbolenta. Il soffitto è fatto di nubi e i venti giocano come cavalli del Palio. Oggi, per molto meno di quello che doveva essere il volo stabile in crociera, c’è gente che si mette a pregare e magari si converte anche. All’epoca la gente aveva le stesse aspettative di arrivare a destinazione che abbiamo oggi, ma un po’ meno di paura.

La tranquilla vita in quota a bordo di un Sikorsky S-42. Come sull'Orient Express, praticamente.

Gli alti prezzi e la particolarità del servizio si giustificavano non solo con l’invenzione del volo intercontinentale, ma anche con un mercato minuscolo, poche decine di migliaia di persone all’anno: eravamo molto lontani dal turismo di massa, dai voli charter “formato famiglia”, dal bisogno di vagare per il mondo con una routard nello zainetto. Non esisteva neanche la classe economica: si volava solo in Prima, super-lusso per ricchi-ricchi. Poca gente ma molto ben messa. Ci sono film degli anni Quaranta (come “Foreign Correspondent”, da noi “Il prigioniero di Amsterdam” di Alfred Hitchcock, del 1940) che raccontano uno spaccato dell’epopea di questi mezzi avveniristici e un po’ pericolosi. Queste gigantesche barche volanti. Queste futuribili creature metà uccelli e metà pesci che da noi andavano sotto il nome piuttosto buffo di “idrovolanti”. Pensateci: “idro-volanti”. C’è lo zampino di quello straordinario copy che era Gabriele D’Annunzio.

Il Martin M-130 è stato uno dei due giganti dell’aria, assieme al Boeing 314, della Pan Am. Insieme sposavano alcune soluzioni ingegneristiche di tutto rilievo. Alcune davvero innovative.

Ad esempio, non avevano i galleggianti che sporgevano da sotto le ali, (le gondole dei quattro motori erano integrate nell’ala), come i Sikorsky. Avevano invece due corte e basse sporgenze, due alette tronche chiamate in inglese “sponson” e inventate durante la prima guerra mondiale dal tedesco Dornier, che fungevano da stabilizzatori in mare, da para-spruzzi durante decolli ed atterraggi, da contenitori per il carburante supplementare e pure da comodo mezzo-pontile per i passeggeri durante il carico-scarico. Erano una specie di abbozzo di secondo piano d’ala, un’evoluzione dei biplani.

Effettivamente il B-314, il gigante di Boeing, era davvero un bel bestiolone. Ci stava un sacco di gente, forse più che "nave volante" l'avrebbero dovuto chiamare "condominio volante".

La carlinga era tutta di metallo, i quattro motori erano radiali a doppia stella, con 14 cilindri ciascuno e un sistema di compressione meccanica piuttosto complesso, erano realizzati da Pratt & Whitney e avevano una potenza di più di 800 cavalli, che arrivarono a quasi mille con i successivi potenziamenti. L’impennaggio del timone era unico, cosa che distingue la silhouette del Martin da quella successiva del Boeing 314.

È il nome “China Clipper” ad essere entrato nella leggenda oltre che nella storia, anche se gli equipaggi lo chiamavano “Sweet sixteen” per la parte finale della matricola NC14716. Ma il China Clipper ha incarnato l’idea di viaggio verso l’esotico: prima le “navi volanti” versione Sikorsky S-40 erano chiamate Pan Am Clipper. Dopo, con il Martin, divennero China Clipper anche i successivi Boeing 314. Superate le mete del Sudamerica (Rio de Janeiro, Bogota, Buenos Aires, Santiago, L’Avana e Lima), adesso l’orizzonte era quello di Honolulu, di Guam, di Manila, di Hong Kong, di Shanghai. Un viaggio che vi racconto nel dettaglio la prossima settimana un po’ più avanti con una strana, particolare e direi estrema storia.

Antonio Dini

Giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Scrive di tecnologia e ama volare, se deve anche in economica. Ha un blog dal 2002: Il Posto di Antonio