Il paradosso della scomodità

Un’immagine bucolica della capitale cinese all’inizio del Novecento. Esotismo alla sua massima espressione. Con uno di quei temerari sul suo velocipede, che tocca folli velocità.

Ti promettono un’esperienza unica, un lusso stile anni Sessanta, una vita da George Clooney. E poi scopri che non hai neanche lo spazio per accavallare le gambe. Il paradosso del volo civile di oggi è tutto qui: le meraviglie di una vita a diecimila metri di quota (non a caso è stato chiamato jet-set) e la scoperta che invece ci possiamo permettere solo le low cost più “tirate”, e magari qualche charter malfidato per le vacanze in località esotiche. Anche qui: aerei che poi ci si lamenta tutti che se bisognava viaggiare come su un traghetto Tirrenia, tanto valeva andarsene in Sardegna che è pure più bella. Ah, signora mia, le spiagge come la Sardegna non ce l’hanno neanche ai Caraibi.

L’essenza del volo, il distillato dell’avventura, l’esperienza fondante del distacco dal suolo: chiamatela come volete ma dovrebbe essere un mix di stile e di appetito per la vita. Si viaggia in aereo perché non si teme la velocità o l’altezza, si viene invece bruciati dalla febbre di arrivare, dal desiderio di scaldarsi per qualche ora con il sole che si trova solo al di sopra le nuvole, dalla necessità di traversare la notte e arrivare in posti dove i nostro nonni migravano su bastimenti con viaggi che duravano settimane se non di mesi.

Un po’ di tempo fa è morto un mio vicino di casa. Un altro triste caso di vecchio saggio che, quando muore, è come se morisse una biblioteca. Era un signore cinese molto anziano e dai modi squisiti, la memoria storia del quartiere dove abito a Milano. Negli anni passati mi aveva raccontato di quando era venuto in Italia giovanissimo a cavallo tra gli anni Venti e gli anni Trenta: il viaggio aveva richiesto sei mesi e corposi zig-zag tra confini, etnie e stati (anzi, in un paio di casi anche imperi) prima di toccare il suolo italico in quel di Venezia. Nella capitale del tardo Impero cinese, Pechino, con i suoi misteri e le storie raccontate da Luigi Barzini senior alla fine dell’Ottocento, erano cambiate molte cose ma non il senso profondo dell’esotismo, la passione per l’avventura. Pechino e Venezia erano come due pianeti di sistemi solari diversi, popolati da essere completamente differenti.

Invece, il ricordo che ho della mia prima visita a Pechino è di un volo medio-lungo da Malpensa (con scalo intermedio a Fiumicino) a bordo di un B747-400 Combi un po’ scalcagnato di Air China (CA, fondata nel 1988 con il nome completo di China International Airlines Company). Ero seduto nell’ultimissima fila: dietro di me i pannelli divisori un po’ scombinati dell’area cargo posteriore (si chiama Combi per questo) da cui si intravedevano i pallet legati da reti marroni; attorno a me, il solito giro di ragazzi e ragazze cinesi che si vede tutti i giorni nel mio quartiere. Nell’aria la prevalenza di variazioni di tono caratteristiche dell’hanyu e poco o niente italiano; felpe, magliette firmate, jeans alla moda, le ragazze con le borse Louis Vuitton, i ragazzi con i capelli neri tagliati corti e gellati pesantemente. Tutto regolare, insomma, con l’unica spiacevolezza che il tizio seduto accanto a me ha passato tutto il viaggio a sputare dentro la busta del maldaria. Va bene lo ying e lo yang, la cultura millenaria e la volontà di espellere il malessere da dentro di noi, però anche uno schifo unico.

Volereste in un aereo così? Certo che sì. Soprattutto se avete un tasso ormonale da adolescente. Prima però dovete farvi adottare da un emiro, altrimenti temo non vi possiate permettere il biglietto.

Quando presentano un aereo nuovo (fateci caso, succede ogni cinque anni di solito) per un bel po’ si continuano a vedere foto sui giornali e su Internet in cui viene mostrato un mondo ideale e idilliaco ad alta quota. Come in quei film di fantascienza che fanno finta non sia mai esistito Blade Runner. Quelli in cui tutto è bello pulito e colorato. Le ragazze sono tutte uscite dal parrucchiere dieci minuti fa e stanno mollemente adagiate su un’ottomana a passare il tempo in attesa dell’arrivo, sfogliando un libro e bevendo champagne. La cabina è ampia e luminosa. Si riesce persino a immaginare il buon profumo che deve emanare dagli umidificatori. Sicuramente la temperatura è stabile, ideale.

Purtroppo, per chi fa voli sul lungo raggio, non c’è niente di più distante dalla realtà di una rappresentazione del genere: le folle di persone pigiate come sardine, un pessimo pranzo, i film pesantemente tagliati e con un audio da omicidio (colpa del rumore di fondo nell’aereo, ma anche delle cuffiette da quattro soldi), mentre i nostri colleghi jetsetter sono tutti stravaccati nel peggior stile villaggio turistico alla Vanzina, con mascherine, reggicollo, copertine che non coprono, gli abbigliamenti più raffazzonati che dovrebbero rappresentare l’immaginario del viaggiatore “comodo” e smart ma che falliscono miseramente.

Tutti insieme appassionatamente. Il bello del volo, oggigiorno, è che ci si sente parte di un grande gruppo. Praticamente un branco. Tra l’altro, uno sospetta che l’aria condizionata sia sempre così gelata solo per darci una opportunità in più di stringerci stretti stretti per scaldarci.

Il punto che rovina la giornata a tutti quanti, soprattutto a quelli alti o a quelli un po’ sovrappeso, è la sensazione che le poltrone in economica (“coach-class”, come dicono gli americani in modo informale, sennò “main cabin” per giocare sull’ambiguità del termine “principale” e farti sentire più figo) siano dannatamente piccole. Soprattutto strette. Degli strumenti di tortura. Probabilmente progettate per trasportare i terroristi a Guantanamo e solo per errore finite nei normali voli di linea. Possibile che non ci si riesca a stare seduti dentro? Eppure gli americani sono notoriamente dei “ragazzoni”, per non dire delle balene obese. Come diavolo fa a entrarci uno alto un metro e novanta che pesa 110 chili in quei posti scomodi anche per un nano?

La risposta è semplice: sono state progettate negli anni Sessanta, quando gli uomini negli Usa pesavano in media 77 chili ed erano più bassi di quasi dieci centimetri. Oggi pesano invece 88 chilogrammi e sono più alti. Con il risultato che non solo le poltroncine da viaggio sono scomode, ma in teoria anche pericolose. Non nel senso che si muore di paresi fulminante (anche se spesso questa è la sensazione) ma che, in caso di incidente, la poltrona è probabile che non si comporterà come dovrebbe. È stata progettata per resistere a sollecitazioni fino a un certo peso, e per cercare di tenere assieme corpi con un determinato volume. Se la media è aumentata, vuol dire che è aumentata anche la possibilità che si siedano passeggeri troppo pesanti o troppo grossi per essere “contenuti” in maniera efficiente e sicura. E il parametro chiave non è tanto lo spazio per le gambe, quanto la larghezza, cioè lo spazio per i fianchi. Oggi troppo limitato, costringe i passeggeri in posizioni rigide e a gambe dritte, anziché permettersi di accomodare un po’ storti, bilanciando e alternando il peso prima su un lato e poi sull’altro.

Si potrebbe risolvere il tutto facendo poltrone un po’ più larghe, no? No. Non si può. Servirebbe uno scarto della fantasia che l’industria moderna non si vuole permettere (o non può).  Il limite raggiunto è qualcosa di più che un semplice problema di larghezza della poltrona. È la larghezza dell’aereo a entrare in gioco. La progettazione degli aeroplani attualmente in commercio è legata a parametri che si sono consolidati negli anni Sessanta, durante l’epoca d’oro dei motori a getto. Il jet-set. I parametri fondamentali che un progettista doveva seguire all’epoca come oggi erano sia tecnologici che economici. E cioè parametri in base ai quali nella fusoliera dell’aereo dovevano entrarci un certo numero di poltrone più il corridoio (che da singolo diventa doppio con gli aerei “wide-body”). E quel numero di poltrone devono riuscire a entrarci dentro alla fusoliera dell’aereo perché questi abbia economicamente senso. Non è solo questione di lunghezza, che non può crescere all’infinito, ma anche di larghezza. Pensatela come una misura aurea: un aereo deve avere certe proporzioni altrimenti non è economicamente efficiente come strumento di trasporto. Se facciamo la fusoliera relativamente piccola, dobbiamo fare piccole anche le poltrone al suo interno.

Gli anni Sessanta: altro che Mad Men e Pan Am. Era un mondo di magrolini. Un mondo dove Frank Sinatra passava per essere uno “grosso”. Cose da matti.

La conclusione è semplice: negli anni Sessanta andava bene così. Oggi, se volete fare un aereo con tre più tre posti per fila, siete di fronte a un bivio: o vi tenete le vecchie poltrone pensate per un popolo di “bassotti magrolini”, oppure allargate l’aereo e ci mettete poltrone più grandi. Invece, i grandi produttori hanno mantenuto dimensioni di fusoliera pensate per essere “retrocompatibili” con una serie di strumenti e tecnologie più antiche. Ovvero, più semplicemente, non sono riusciti uscire dai parametri del manuale dell’ingegnere che progetta gli aerei imposti cinquant’anni fa. Con effetti sulla comodità e la sicurezza che stanno venendo fuori solo adesso. Ad esempio: il fatto che un terzo della popolazione americana sia clinicamente obesa. Mentre i dummy, i manichini utilizzati per testare l’effetto di un incidente sui passeggeri (ad esempio un brusco atterraggio, magari una “spanciata”) sono bassi e magri, completamente diversi fisicamente dal tipo medio che sale a bordo del velivolo ogni giorno.

È un problema comune anche all’industria automobilistica, che fa macchine più “capienti” dei seggiolini di economica degli aerei ma ha sistemi di sicurezza tarati per altezze e pesi oramai diversi da quelli della maggior parte della popolazione. In caso di incidente è l’accelerazione quella che conta ed è straordinario l’effetto che hanno peso e soprattutto massa di un corpo. Se la cintura, i fermi e (nel caso delle auto) l’airbag sono calibrati per esseri umani di forma diversa da quelli reali, sono problemi. È la dura verità: non siamo sempre uguali e addirittura non siamo tutti uguali. Le taglie dei vestiti confezionati e, cosa più shoccante, le proporzioni, cambiano radicalmente se comprate ad esempio una giacca da uomo di taglio classico analogo in Europa, negli Stati Uniti o in Cina. Chiedetelo ai nostri distretti dell’abbigliamento, che riadattano le linee a seconda dei mercati dove devono esportarle.

Però, quando arriva il momento di lanciare un nuovo aereo, come il Boeing 787, l’Airbus A380 e il prossimo A350, sembra sempre che il problema dei seggiolini scomodi sia stato risolto. Finalmente le proporzioni sono quelle giuste, su questo nuovo prodigio della tecnologia volante si starà infine comodi. Le consuete poltrone degne di Torquemada diventano accoglienti divani Frau, ambienti claustrofobici e rumorosi sembrano eremi in campagna durante l’estate delle cicale che friniscono o accoglienti baite per dormire sogni incantati al rumore di grilli lontani. Ecco, ricordatevelo per la prossima volta: le cose non stanno esattamente così.

Antonio Dini

Giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Scrive di tecnologia e ama volare, se deve anche in economica. Ha un blog dal 2002: Il Posto di Antonio