Trump visto dal Messico

Trump visto dal Messico è un’altra storia. Soprattutto dalla frontiera al sud da cui arrivano i migranti da Salvador, Honduras e Guatemala. Dove non esiste frontiera. O meglio esiste perché c’è un fiume.
Mi trovo in Messico e ieri ho visto guardie di frontiera guardare dall’altra parte, dall’alto di un ponte, mentre a decine, centinaia attraversavano il fiume su zattere. Non sono tutti migranti. Passano trafficanti di piccolo e basso taglio. O semplicemente famiglie che fanno una spesa. Come una volta si faceva a Chiasso, al confine con la Svizzera. Solo con meno controlli.

La televisione in Messico rimbalza indignazione, rabbia, incredulità. Lo stesso presidente Enrique Peña Nieto, in caduta libera nei sondaggi, ha dovuto affacciarsi allo schermo per mettere in dubbio un incontro con Trump già fissato. Le opposizioni lo hanno messo al muro, tanto per usare una parola che centra il problema. Ci manca che il Messico chieda indietro il Texas agli Stati Uniti, in un crescendo di orgoglio nazionale. In televisione passano le cifre iperboliche delle rimesse dei messicani d’America, degli accordi commerciali da rifare, delle manifatture che producono per le corporazioni degli Stati Uniti. Per finire con gli inviti minacciosi a Trump (vox populi) di pagarsi un “muretto” davanti alla sua Tower di New York.

Quello che importa, nel giorno del via “ufficiale” al muro, è dire della sua inutilità, della impossibilità materiale dei mattoncini di arrestare le centinaia di migliaia di richiedenti asilo che premono alle porte degli Stati Uniti, come a quelle dell’Europa. In 450.000 sono entrati in Messico lo scorso anno e 180.000 sono stati deportati dallo stesso stato messicano, che ha alzato una rete di controlli più a nord della frontiera con il Guatemala, che non si capisce perché rimanga un formaggio a buchi. Nulla al confronto dei due milioni e mezzo deportati da Obama nei suoi otto anni (quello che secondo Trump ha aperto le frontiere americane agli “stupratori messicani”). E ancora nulla in rapporto al miliardo di migranti che si calcola siano in movimento o in procinto di muoversi in questo secolo, il secolo del migrante. La figura del migrante trasforma le società che attraversa, sposta confini non solo territoriali, riscrive i canoni della lotta politica, spostandola fuori dai bisogni reali, per farla entrare in una dimensione che è al tempo stesso globale e dentro la nostra coscienza. E anche ideologica, roba che si pensava sepolta.

Perfino le cifre ufficiali che ci danno i benemeriti dell’UNHCR sui rifugiati nel mondo sono poca cosa perché il terrore assume non solo la forma dell’intolleranza religiosa ma più spesso quella criminale della violenza che si esprime in piccole aree, in quartieri che sono come staterelli che non hanno bisogno di muri per definirsi. Basta vedere il controllo territoriale esercitato dalle gangs nel Salvador e in Honduras, che si estende a macchia d’olio oltre il Centro America.

Il deportato stesso è una nuova figura sociale che andrebbe studiata come il proletario marxiano.
Ho incontrato migranti che ci provano più volte, correndo il rischio di finire in galera negli Stati Uniti per molti anni. E il deportato va a formare un nuovo tipo di forza lavoro quando torna dove era partito. Un bel pezzo recente del New Yorker ci ha raccontato dei call centers aperti nel Salvador dalle multinazionali americane grazie ai rimpatriati dagli Stati Uniti. Si è creata un’industria a basso costo con questi moderni schiavi, che dal loro sogno americano sono tornati indietro con il solo uso della lingua.

I confini sono mobili, come ha scritto in un bel libro che ho appena letto Thomas Nail (Theory of the border). Ma Trump non lo sa. In Messico forse lo sanno però a vedere la frontiera appena segnata dal Rio Suchiate a sud. Ora si annuncia una nuova guerra, dopo quella della metà del 1800. Ma non solo con il Messico. E non è detto che la vincerà il nuovo inquilino della Casa Bianca. Perché uno che chiude gli Stati Uniti d’America ai rifugiati appartiene al secolo scorso e una volta si diceva che quelli così li spazza via la storia.

Andrea Salvadore

Vive a New York e fa il regista. Ha un blog, Americana Tv