Leggendo Weber tra i quarantenni del PD

Riflettendo sulla cultura politica europea a cavallo tra Ottocento e Novecento, Weber aveva brillantemente messo a fuoco una frustrazione del suo tempo. Quella che derivava dal non aver preso parte alla creazione della nuova Europa che qualche decennio prima era stata promossa e gestita dalla generazione dei Bismarck, dei Cavour, dei Gladstone. Nel 1895 codificò quel turbamento parlando di un “destino da epigoni” per coloro che ne soffrivano. E non aveva tutti i torti. Questa dotta citazione potrebbe essere adattata al dibattito, poco appassionante persino per i malati di post-comunismo come chi scrive, che vediamo svolgersi in questi giorni tra post-dalemiani e post-veltroniani.

I primi intenti a traghettare quel che resta di un’eredità verso un approdo funzionale ai micro-schieramenti interni al partito, per intanto mutuando da quell’eredità posture e linguaggi (straordinario l’incipit del documento dei Giovani Turchi, con l’inquadramento di Caliendo – ma qualcuno si ricorda chi era? – sulla scena della crisi finanziaria mondiale: “Il 4 agosto 2010, con la spaccatura della maggioranza sulla mozione di sfiducia al sottosegretario Caliendo, non si è aperta una crisi di governo, ma una crisi di sistema. Una crisi che sta alla politica italiana come la crisi economico-finanziaria del 2008 sta all’economia mondiale: un evento che costringe a riconsiderare un’intera visione del mondo”.).

I secondi, post-veltroniani loro malgrado, che demoliscono il demolibile e rottamano il rottamabile. È per entrambi un destino da epigoni quello che si va a preparare, per l’incapacità delle due squadre di concepire un proprio ruolo fondativo che non sia solo quello di ereditare le spoglie dei morti per chiudere una fase ma anche quella di aprirne un’altra dimostrandosi vivi e progettuali. Anche qui Max Weber, che sulla standardizzazione del carisma politico ha detto qualcosa di non secondario. In particolare guardando al ruolo di razionalizzazione e sistematizzazione che le nuove leadership devono dimostrare di possedere se vogliono affermarsi nelle fasi di passaggio. È quanto avvenne nell’ultimo momento fondativo attraversato dalla sinistra italiana, nei primi anni Novanta, quando le leadership che ancora oggi ci affliggono traghettarono quanto dovevano traghettare ma fecero anche qualcosa in più. Si inventarono una direzione di marcia. Che poi avrebbe prodotto risultati modesti (se non un ventennio di berlusconismo, ma questo è un altro discorso) ma che pure non è mai stata scalzata da niente di competitivo.

E allora? D’accordo compagni, lo so anch’io che Max Weber è noioso. Volevo solo darmi un tono. Per dire una cosa semplice semplice. I quarantenni del PD possono agitarsi quanto vogliono, loro che pure sono i migliori della nidiata pur soffrendo vistosamente della frustrazione che viene dal vivere un destino da epigoni. Ma non verrà fuori niente (se non un buon posto in lista, che pure non è poca cosa) se tutto finisce come sta finendo. Rottamando questo o quello per prendersi l’eredità di quello e questo. Serve anche che ci dicano cosa ne farebbero di questo residuo capitale di consensi e visioni che i rottamandi ci hanno lasciato. Perché quei vecchi signori lo fecero, a suo tempo. Per poi viverci di rendita per un ventennio.

Andrea Romano

Andrea Romano, nato a Livorno nel 1967, insegna Storia contemporanea a Roma Tor Vergata e cura la saggistica della Marsilio editori. Nel 2013 è stato eletto alla Camera dei Deputati per Scelta Civica. Twitter: @andrearomano9