Una campagna in fumo

Oggi è la «Giornata mondiale senza tabacco» e si celebra una campagna proibizionista che si è rivelata fallimentare in Italia e all’estero, e che promette di peggiorare con nuovi divieti che sfiorano il comico. Premetto che sono un fumatore e che ho avuto una famiglia di fumatori decimata dai tumori (anche ai polmoni) sicché non ho nessuna voglia di scherzare sull’argomento.
Il primo fallimento riguarda la famosa Legge Sirchia varata nel 2005, in teoria la più severa d’Europa. Al tempo i fumatori erano il 25,6 della popolazione, oggi sono al 22,3 (12 milioni di italiani, dati Istat) e il calo, trascurabile, è inferiore a quello di altri paesi assai meno proibizionisti. I dati oltretutto sono fondati sulla vendita legale di sigarette e non considerano il contrabbando (che è tornato a prosperare per via dei continui aumenti) e non considerano neppure il grande aumento delle vendite di cartine e tabacco sfuso. Ma il disastro è che il fumo è in assoluta ascesa tra i giovani e le donne, il che dimostra che le sigarette riguadagnano appeal proprio in virtù dei divieti: nei giovani tra i 24 e i 34 anni (dati Doxa) fuma il 38,9 per cento dei maschi e il 22,4 per cento delle femmine, con in più il particolare che il 78,2 per cento di essi «a smettere non ci pensa nemmeno».
La Legge Sirchia, in pratica, ha significato il divieto di fumare nella maggioranza dei ristoranti (le salette con gli impianti di areazione sono molto costose, anche se negli ultimi anni sono in rapido aumento) e c’è più attenzione in mezzi pubblici, scuole, ospedali, uffici e aziende: ma tutto ciò in teoria era già previsto nella legge amministrativa del 1975. In questo senso, civicamente, la legge è servita a ridonarci l’educazione e la civiltà necessarie per non fumare laddove già era vietato. Ma la vera rivoluzione della Legge Sirchia doveva riguardare i famosi «sceriffi antifumo» (che non esistono più per una sentenza del Tar) e riguardare in particolare tutti i cosiddetti «luoghi aperti a utenti», cioè studi professionali, condomini, stazioni, circoli, club, feste private e pure il Parlamento italiano: ma in tutti i casi c’è stato un accomodamento all’italiana e in pratica si continua elasticamente a fumare come prima, o come si fa nella maggioranza dei paesi civili. Il fatto che a un anno dall’applicazione della Legge ci fossero state solo 327 infrazioni accertate (perlopiù per l’irregolarità dei cartelli, perché i fumatori beccati in flagrante furono 112) è stato un viatico per la situazione attuale: le multe sono una rarità assoluta. Una sentenza del Consiglio di Stato del 2009, non bastasse, ha annullato ogni sanzione ai proprietari di locali che non segnalino i fumatori in contravvenzione: tanto che gli strappi alla regola, se nessuno protesta, ormai non si contano. L’importante è non esibire posacenere, perché dimostrerebbero una complicità.
Ma passiamo all’Europa, che non ha una legislazione unica ma porta avanti una politica ridicola. L’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2003 ha siglato il Framework Convention on Tobacco Control (Fctc) secondo il quale i governi non devono neppure parlare o avere contatti con le industrie del tabacco: nulla impedisce tuttavia che ne incassino le copiosissime imposte, in sostanza i soldi che l’industria fa incassare loro. Solo in Italia, nel 2011, il settore del tabacco ha portato allo Stato un gettito di 14 miliardi di euro a titolo di IVA e accisa. Ipocrisie a parte, è comunque in arrivo una Direttiva europea sul tabacco che è una comica assoluta.

Prevede tre cose. La prima è l’introduzione del pacchetto generico (plain packaging) che sia uniforme per tutti i marchi e che renda quasi indistinguibili le singole marche: verrebbe stampato, cioè, solo il nome del marchio con caratteri e colore uniformi per tutti, e per il resto grande spazio per le cosiddette «immagini shock» di dimensioni sproporzionate. Non solo le scritte iettatorie sui pacchetti, quindi, ma direttamente delle foto con polmoni incatramati e bambini morti. Parentesi: si potrebbe metterle anche sulle automobili, che ammazzano anche di più, o ripristinare le terrificanti scritte che troneggiavano su certe chiese rinascimentali: «Ricordati che devi morire». Il secondo divieto previsto dalla prossima direttiva europea è quello di esposizione: i pacchetti, cioè, andrebbero stoccati sotto il banco. Ci sono 56.000 tabaccai italiani che dovrebbero rivoluzionare il negozio. E ci sono Paesi in cui questo divieto è in vigore da tempo (Inghilterra e Irlanda, per esempio) senza che sia calata la percentuale dei fumatori. Parentesi: considerando che è anche vietata ogni forma di pubblicità, senza esposizione non si capisce come un cliente possa venire a sapere che un prodotto (nuovo, ma anche vecchio) sia in vendita. Se vendessero un nuovo tipo di sigarette, per dire, sarebbe un segreto da passaparola.
L’ultimo punto della direttiva europea riguarda il divieto di utilizzo degli «ingredienti», cioè sostanze per condizionare il sapore del tabacco: sono sostanze comunemente utilizzate nell’industria alimentare (di norma le mangiamo, cioè) e riguardano soprattutto il tabacco cosiddetto Burley, usatissimo in Europa e prodotto soprattutto dove? In Italia, dove 60mila persone ci lavorano in Campania, Umbria, Veneto, Lazio e Toscana. Si è ipotizzato che questi «ingredienti» possano portare ad assuefazione, ma prove scientifiche serie – rilevate molti anni fa per altre sostanze, poi proibite – non ce ne sono, come gli stessi organi europei hanno dovuto riconoscere. Ma fa niente.
E mentre in Inghilterra si parla di negare la mutua agli obesi (e di preparare etichette per cibi e vini come quelle dei pacchetti di sigarette) i nostri parlamentari ci mettono del loro. L’ex sottosegretario all’Economia Alberto Giorgetti (Lega) ha proposto di vietare le sigarette ai minorenni in convergenza con la diessina Livia Turco: ignorano che ad aver clamorosamente favorito il fumo dei minori e delle donne, in tutto il mondo, sono proprio i divieti. E pensare che gli antifumo avevano la vittoria in mano, qualche anno fa: le sigarette andavano sparendo proprio perché non avevano più appeal né status, facevano socialmente arretrato. Ora è ridiventato chic e le imprese (come dimostra uno studio di Euromonitor) se ne sono pure accorte, e infatti molti locali antifumo stanno facendo marcia indietro in tutto il Continente. Allo stadio Meazza, in compenso, il sindaco Giuliano Pisapia vuole imporre una politica no-smoking anche tra le tribune. E qui lo capisco, ha ragione: l’ultima volta che ci sono stato, durante il secondo tempo, il fumo si accumulava al punto da oscurare la visuale. Erano i fumogeni dei tifosi del Milan: quelli non li hanno ancora proibiti, pare.

(da Libero)

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera