Tutte le paure sul presidente

Da due anni insisto in questo blog a favore del semipresidenzialismo. A dire la verità ne ho parlato in tutte le salse: definendolo riforma off topic quando non ne parlava nessuno, evocando Happy days e il jumping the shark di Fonzarelli, ho fatto il verso a Obama avendo in realtà di mira Sarkozy e Hollande. Ora sembra un’opzione possibile.
Le obiezioni che vengono fatte alla proposta, quando se ne parla qui o altrove, sono paure e fraintendimenti che – ne sono certo – ricorreranno anche nel dibattito che si sta aprendo, tra cittadini, movimenti, al bar.
Mi sembra utile raggrupparle, per come le ho intese, e commentarle.

Ma così c’è meno democrazia. No, è vero il contrario. Noi attualmente votiamo solo il parlamento, non votiamo il presidente, non votiamo l’esecutivo. Continueremmo a votare il parlamento, ma anche il presidente, che a sua volta decide il primo ministro e indirizza l’esecutivo. C’è più democrazia anche perché in questo modo il parlamento è più libero di fare bene quello che deve fare, cioè le leggi. Non è ostaggio del governo, non è blindato. Nessuno potrebbe dire: se passa questa o quell’altra legge cade l’esecutivo, come abbiamo sentito in queste settimane. Non solo, ma lo stesso esecutivo non sarebbe più ostaggio del voto di uno o due parlamentari, di un gruppetto o dell’altro. In breve: il sistema è più stabile, la filiera delle decisioni e dei compiti più chiara. Quindi c’è più democrazia, non meno.

Non siamo pronti, non è nella nostra cultura. Pensiamoci un attimo: i comuni e le regioni sono presidenziali. Non semi-presidenziali, proprio presidenziali. I cittadini votano il consiglio e votano il sindaco o il presidente di regione. Addirittura se cade il presidente cade anche il consiglio. Questo ha portato una stabilità molto maggiori alle città e alle regioni. In che cosa non saremmo pronti?

Ci sarebbe un uomo solo al comando. È la paura più diffusa, che evoca l’uomo forte o addirittura – come un politico ha recentemente detto – prospettive sudamericane. A parte che l’uomo solo al comando era Fausto Coppi e non Benito Mussolini, anche questa paura è ingiustificata. Non si tratta di passare dalla repubblica alla monarchia assoluta, ma da un tipo di repubblica a un altro tipo di repubblica, entrambe democratiche, entrambe con sistemi di contrappesi, entrambe con la piena sovranità popolare. Quello che cambia è la filiera delle responsabilità, con la possibilità che i cittadini decidano direttamente chi governa e chi fa le leggi, e non solo chi fa leggi.

È il plebiscitarismo. Non è vero: il plebiscito è quando puoi votare solo sì o no, a una domanda posta da altri, come in un referendum. Votare un presidente vuol dire votare tra molti candidati e molti programmi, vuol anche dire costringere i partiti ad apparentarsi in un programma (c’è un doppio turno), vuol dire necessità del dibattito. Altrimenti non si vincono le elezioni.

Il problema non sono le istituzioni: è la cultura politica dei partiti che ha perso forza. A mio avviso, è esattamente il contrario. I partiti hanno consunto le loro culture perché le istituzioni conducono a quell’esito. A che serve avere una cultura politica quando la capacità di governare e assumere decisioni si impantana in maggioranze precarie, in mediazioni fini a se stesse, in agguati continui, se i partiti hanno tutto questo potere e lo devono usare per interdire le iniziative dei suoi associati, militanti, dirigenti?
La differenza tra un sistema istituzionale presidenziale e il nostro è che lì un bambino può dire “Mamma, da grande voglio fare il presidente”, qui potrebbe dire “Mamma, da grande voglio fare il presidente del consiglio in un governo di scopo a tempo con larghe intese”. Le istituzioni contribuiscono a fare una cultura.

Rinunciamo alla costituzione nata dalla resistenza. Non è vero, perché la prima parte, quella dei valori antifascisti e della resistenza non sono in discussione. La nostra costituzione è la più bella del mondo per quello che c’è scritto in quella prima parte, che è la base e il senso della nostra vita comune. Quella parte è intangibile, nessuno saprebbe fare di meglio. Ma la seconda è inefficiente e la democrazia si nutre anche di cose che funzionano e di strumenti per risolvere i problemi.

Ci americanizziamo. No. Gli americani hanno un sistema molto diverso da quello di cui parliamo. Se per americanizzazione si parla invece di “personalizzazione” della politica, allora l’obiezione non regge a una controbiezione. Il nostro parlamentarismo ha portato alla personalizzazione. Berlusconi è impensabile in un sistema semipresidenziale (vedi obiezione successiva) e la maggior parte dei partiti e dei movimenti oggi presenti in parlamento sono in qualche forma personali. SEL dipende dalla personalità di Vendola. La lista Monti. Di Pietro nella scorsa legislatura. Qualcuno pensa che M5S sia un movimento e non un partito personale? Solo il PD non ha questa caratteristica, ma forse perché è una galassia di personalità in conflitto.
È proprio un sistema consunto quello che conduce alla scorciatoia della personalità e non al contributo di una personalità a una cultura politica e di governo più ampia.

Torna Berlusconi. Se nel 1996 avessimo avuto, come avremmo potuto, il semipresidenzialismo, ci saremmo già sbarazzati di Berlusconi. Sì, perché la sua politica fallimentare sarebbe stato punita subito dalla maggioranza degli elettori. Avrebbe fatto la fine di Sarkozy. Ma non solo per quello. Un sistema semipresidenziale obbliga il presidente a tenere conto, voglia o non voglia, delle altre personalità, in base al consenso che essi hanno tra gli elettori. Il primo ministro, in Francia, nominato dal presidente, è stato spesso un potenziale concorrente del presidente. Pensiamo a Mitterrand con ministro Chirac, Chirac con ministro Jospin, ma soprattutto Giscard d’Estaing- Chirac e Chirac- Sarkozy. Ve lo immaginate negli anni ’90 e 2000 Berlusconi presidente con Casini o Fini primo ministro? Sarebbe cambiata la storia del centrodestra. (E se negli anni ’90 Prodi fosse stato presidente 5 anni sarebbe cambiata la storia del paese).

Solo qualche mese fa a parlare di semipresidenzialismo erano in pochissimi. In queste settimane da sinistra si sono schierati a favore Prodi, con una lettera molto bella, Veltroni, con un capitolo importante del suo libro, Letta, una nutrita rappresentanza delle correnti del PD, che ha depositato una proposta di legge. Il dibattito è finalmente aperto.

Gianluca Briguglia

Gianluca Briguglia è professore di Storia delle dottrine politiche all'Università di Venezia Ca' Foscari. È stato direttore della Facoltà di Filosofia dell'Università di Strasburgo, dove ha insegnato Filosofia medievale e ha fatto ricerca e ha insegnato all'Università e all'Accademia delle Scienze di Vienna, all'EHESS di Parigi, alla LMU di Monaco. Il suo ultimo libro: Il pensiero politico medievale.