Come sbancare agli Oscar

Una volta Wim Wenders riunì i migliori cineasti di tutti i tempi in una stanza d’albergo. Li fece mettere, uno alla volta, di fronte alla macchina da presa e chiese loro qualcosa sul cinema. Si trovavano tutti a Cannes per il festival, nell’edizione che avrebbe presentato “E.T.”, “Fitzcarraldo”, “La notte di San Lorenzo”, “The Wall”, “Missing” e “Identificazione di una donna”. C’erano Antonioni, Godard, Herzog, Fassbinder e molti altri.
Il regista tedesco, che era stato invitato alla Croisette per “Hammett”, all’ingresso dell’aeroporto di Parigi, aveva incontrato come di consueto un albero maestoso che da anni gli segnalava i suoi arrivi e le sue partenze in Europa. Era un cedro libanese vecchio oltre cento anni. Quella volta, però, l’albero aveva un messaggio diverso per lui. Gli ricordò di essere stato testimone di molteplici epoche. Aveva assistito alla nascita della fotografia, alla trasformazione dell’arte e all’intera storia del cinema esistita fino a quel momento. Probabilmente sarebbe sopravvissuto anche alla sua fine. Così Wenders arrivò a Cannes con una domanda da porre ai suoi colleghi.

Prenotò la camera 666 dell’Hotel Martinez e chiese ai cineasti presenti in quei giorni al Festival di raggiungerlo. Ciascuno di loro avrebbe trovato una bobina di pellicola (lunga circa dieci minuti), una macchina da presa puntata su di lui, un magnetofono posato su un tavolino, una tv accesa e una sedia sopra la quale avrebbe dovuto ragionare intorno al futuro del cinema.  Ognuno di loro avrebbe potuto parlare quanto voleva, nella lingua che preferiva, sull’argomento che più l’appassionava. L’assunto di partenza salpava dal presupposto che per molti spettatori ormai l’estetica della televisione avesse rimpiazzato quella del cinema. Alla fine del proprio discorso ogni regista doveva avvicinarsi alla macchina da presa, che era fissata su un cavalletto, e spegnerla.
Tutti quanti seguirono, tra molteplici varianti e con più o meno imbarazzo, questa particolare procedura. Herzog parlò senza scarpe, Antonioni in piedi, Ana Carolina con la tv spenta. Fassbinder parlò poco, fumò molto e restò a lungo in silenzio.

Chi aveva voglia di dire la sua era Steven Spielberg. Parlò di cinema, del cinema, del suo cinema. Parlò semplicemente, senza tanti fronzoli, come sanno fare gli americani. Parlò senza preoccuparsi più di tanto del fatto che era circondato da autori-impegnati-intellettuali-europei. Fece capire francamente che per la macchina produttiva il cinema doveva essere “intrattenimento” e che in nome di questo lui doveva semplicemente fare film per tutti: “Se un film non arriva alle semifinali – spiegò – i produttori non vogliono farlo. Il vero pericolo non viene dai registi ma da chi ha il denaro e vuole recuperarlo moltiplicato per dieci. E per questo vogliono solo film che piacciano a tutti”. Era consapevole che non fosse il massimo, ma sapeva anche che la crisi del cinema imponeva una selezione severa nei confronti dei film più audaci e rischiosi. “Lo squalo” invece poteva funzionare allo stesso tempo sia con un ragazzo che con il padre che l’accompagnava. Era un compromesso, ma era proprio su questo che si basava la regola del gioco. Una regola spietata: “Quelli che sono negli studios vogliono guadagnare senza spettinarsi i capelli. Tutti vogliono essere eroi – disse – arrivare a Hollywood all’ultimo momento e trasformare un pezzo di merda nella gallina dalle uova d’oro. Un risultato rapido che frutti milioni”. Parlò poi di numeri, di cifre e di budget. “Ci sono pochi soldi e il dollaro non vale più come una volta. Nessuno ha colpa della crisi. Il meglio che si possa fare è vivere con quello che si ha creando il miglior cinema possibile. Bisogna fare dei compromessi. Se c’è da realizzare un film da quindici milioni bisogna girarlo con tre”. Poi sorrise dietro quella sua simpatica barbetta, si avvicinò alla macchina e, come tutti, la spense. Erano i giorni di maggio del 1982. Fassbinder sarebbe morto poche settimane dopo. Le interviste nella stanza sarebbero diventate un film.

Qualche anno dopo, nell’autunno del 1989, Spielberg stava lavorando con Michael Crichton a un progetto che sarebbe poi diventato la serie televisiva “E.R. – Medici in prima linea”. Il regista nel frattempo aveva fondato una sua casa di produzione con la quale aveva fatto uscire film come “I Goonies”, “Ritorno al futuro”. “Salto nel buio”, “Chi ha incastrato Roger Rabbit?” e “Always”. In una di quelle sedute lo scrittore gli confidò: “Mi sta girando per la testa una storia di dinosauri”. Crichton pensava inizialmente alla vicenda di uno studente universitario che riusciva a ricreare una specie estinta. Scartata l’idea, scelse di legare il fascino dei dinosauri a quella della clonazione. Fu così che iniziò a scrivere il libro “Jurassic Park”.
Crichton era una di quelle galline dalle uova d’oro allevate nelle batterie hollywoodiane. Aveva già scritto bestseller – come “Sfera”, “Congo” o “La grande rapina al treno” – che erano diventati pellicole di successo. L’anno seguente, prima che il libro venisse pubblicato, alle case produttrici cinematografiche che puntavano ad ottenerne i diritti, Crichton chiese un milione e mezzo di dollari – non trattabili – oltre a una sostanziale percentuale sugli incassi del film. Tra le major interessate c’erano la Warner Bros (con Tim Burton alla regia), la Columbia Pictures (con Richard Donner) e la Fox (con Joe Dante). Tra i tre litiganti la spuntò la Universal che schierava il fautore dell’operazione, Steven Spielberg, dietro la macchina da presa. La casa di produzione diede a Crichton un ulteriore mezzo milione di dollari per realizzare un primo adattamento del romanzo. In quei mesi Spielberg terminò le riprese di “Hook – Capitan Uncino”.

Quando arrivò il tempo del film Spielberg fece le cose in grande. Assunse Stan Winston per creare gli animatronic dei dinosauri, Phil Tippett per progettare dinosauri in go motion per le riprese a campo lungo, Michael Lantieri come supervisore degli effetti speciali sul set e Dennis Muren per la realizzazione digitale. Gli animatori Mark Dippe e Steve Williams vennero incaricati di creare al computer un sistema per fare camminare lo scheletro del T-Rex mentre il paleontologo Jack Horner supervisionò la rappresentazione delle creature per renderli verosimili piuttosto che mostri. Una cinquantina di scene furono girate, nell’arco di un anno e mezzo, in computer graphics. Spielberg sapeva che il suo era un film costruito a tavolino per richiamare l’attenzione del pubblico, che gli spettatori erano sempre a caccia di forti (e in fondo facili) emozioni e che il richiamo più ghiotto per loro sarebbero stati gli effetti speciali. Per quanto geniale, il suo era il “classico” blockbuster: struttura narrativa semplice, immagini spettacolari, personaggi con poco spessore interpretati però da un cast all stars (Sam Neill, Laura Dern, Jeff Goldblum, Richard Attenborough e Samuel L. Jackson) e montagne russe per shakerare tutto nel flusso dell’adrenalina.

Quell’enorme giocattolone riuscì a rappresentare perfettamente l’idea ultima dell’entertainment spielberghiano. Altissimo costo di produzione, ma grande resa economica. Costato sessantatré milioni di dollari, ne incassò, infatti, almeno un miliardo.
La fantasia al servizio dello spettacolo richiedeva però anche la conoscenza di regole narrative di prim’ordine. La prima cosa che si insegna a uno sceneggiatore è la credibilità, anche se la storia è irreale o, come in questo caso, improbabile (nonostante, guarda caso, due giorni prima dell’uscita del film, apparve in prima pagina sul “New York Times” la notizia del rinvenimento del Dna di un curculionide dell’epoca dei dinosauri). Sembrò incomprensibile quindi l’uso sconclusionato che ne fece. Nonostante fosse stato amato incondizionatamente dal pubblico, il suo prodotto fu piuttosto contraddittorio, talvolta inconsistente e, per alcuni, anche un po’ avvilente.
La complessa storia di Crichton si ridusse a essere un percorso mozzafiato in un luna park degli orrori, nel quale era d’obbligo pagare per stupirsi e stupire per farsi pagare. Tutto era apparenza e niente più. Nonostante la stupefacente perfezione degli effetti speciali una parte della critica cantò il prosciugamento della straordinaria vena poetica del regista di “Lo squalo”, “E.T.”, “Incontri ravvicinati del terzo tipo” e “I predatori dell’arca perduta”: “Se Jurassjc Park è un film fallito – scrisse in Italia Roberto Escobar su “Il Sole-24 ore” – non lo si deve al grado di verosimiglianza o inverosimiglianza delle sue “creature”, né al grado di fedeltà o infedeltà al testo di Michael Crichton… Non c’è traccia di poetica d’autore, nella sua gran giostra spettacolare … Questa è la vera catastrofe di Jurassic Park”. Proprio come un luna park, una fiera o ancora un circo, quel film non richiedeva l’uso del cervello ma esigeva solo il suo consumo. E null’altro.

Ma per osservare meglio la storia dobbiamo allontanarci. Vedendola dall’alto ci accorgiamo che c’era dell’altro. Tra “Hook” e “Jurassic Park”, infatti, esisteva un progetto. E riprecipitando tra le pieghe di quel presente possiamo accorgerci che i fremiti di quel regista non pulsavano per quel parco ma per un campo. Attorno al quale stava costruendo una storia chiamata “Schindler’s List”. Spielberg aveva in mente solo quella. Ma Sid Sheinberg, presidente della Music Corporation of America, proprietaria dell’Universal Pictures, gli avrebbe dato via libera ad una sola condizione: “Dovrai prima girare Jurassic Park”. I tempi erano cambiati ma le regole no. Compromesso e intrattenimento erano sempre le fondamenta di Hollywood.
Fino ad allora le pellicole di Spielberg erano state perfette macchine generatrici di suspense. “La lista di Schindler” lo avrebbe allontanato irrimediabilmente dalla sua consueta e collaudata poetica e per poterselo permettere doveva compensare il rischio (era accaduto già con “Incontri ravvicinati del terzo tipo”: ci aveva lavorato già prima de “Lo squalo”, ma solo dopo il successo di questo poté svilupparlo). Da anni Spielberg accarezzava l’idea di un film sull’olocausto. Gli stava talmente a cuore che chiuse le riprese di “Jurassic Park” con dodici giorni di anticipo rispetto ai tempi stabiliti. La bozza di montaggio fu poi preparata in una manciata di giorni dopodiché il regista abbandonò il parco e volò in Polonia.
Rispetto al precedente lo aspettava un “piccolo” film (con un budget stimato attorno ai ventidue milioni di dollari) che però, emotivamente, lo avrebbe coinvolto in modo totale (al punto da rifiutare il suo compenso). Mentre era sul set il montaggio, il suono e la post-produzione di “Jurassic Park” furono supervisionati da George Lucas, grande amico di Spielberg. Il produttore Sheinberg aveva capito tutto. Una volta che il regista avesse diretto “Schindler’s List” non sarebbe più stato in grado di girare “Jurassic Park”. Il nuovo film, cadenzato da momenti straordinari, sarebbe stato concepito in un bianco e nero espressionista e costruito per essere insieme un’opera d’arte e un documento.

Nella serata del 21 marzo 1994, al Dorothy Chandler Pavilion di Los Angeles, “Jurassic Park” ricevette tre Oscar. Andarono tutti agli “inganni” (sonoro, effetti sonori ed effetti speciali), le esche che avevano portato milioni e/di spettatori. Ma la serata di Spielberg era appena iniziata e nell’ora delle statuette più “alte” “Schindler’s List” si aggiudicò una dopo l’altra quelle per Film, Regia, Montaggio, Fotografia, Sceneggiatura, Scenografia e Musica. Prese tutto lui. Ai suoi due film andarono un totale di dieci Oscar. Fu un caso unico. Il suo cinema aveva vinto ancora. E lui aveva avuto ragione. Perché non solo i dinosauri lo avevano portato all’olocausto, ma entrambi (se vogliamo due anomali “horror” educativi) funzionavano “con i ragazzi e con i genitori”, esattamente come aveva fatto capire dodici anni prima in quella camera d’albergo a Cannes. Nella stessa premiazione le sue due anime, concreta e poetica, erano riuscite a ricevere il massimo riconoscimento dell’Academy.
Quella fu la serata che permise a Spielberg in un modo o nell’altro, di raggiungere la totale consacrazione come regista. L’anno seguente poté permettersi di fare “Salvate il soldato Ryan”. Avrebbe vinto altri cinque Oscar (dei quali uno ancora per lui) che sarebbero stati equamente distribuiti tra i comparti creativi e quelli degli effetti (Regia, Fotografia, Montaggio, Sonoro e Montaggio sonoro). Questione di regole, di coerenza, di tecnica, di talento e di compromessi. In una parola: Entertainment.

Piero Trellini

Scrive per la Repubblica, La Stampa, Il Sole 24 Ore e Domani. Ha lavorato per Il Messaggero, il Manifesto, Sky e altri. Collabora con Nuovi Argomenti e Art e Dossier. Scrive serie televisive. Ha pubblicato “La partita” (Mondadori), “Danteide” (Bompiani), “L’Affaire” (Bompiani) e “La partita. Le immagini di Italia-Brasile” (Mondadori).
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