Memorie dal seminterrato

The Basement Tapes Complete (The Bootleg Series vol. 11, 2014).
The Basement Tapes (1974)
Great White Wonder (1968).

(Il disco precedente: The “Royal Albert Hall” Concert;
Il disco successivo: John Wesley Harding).

Cari dylaniti, ci siamo.Bob_Dylan_and_The_Band_-_The_Basement_Tapes

Mi aspettavate al varco, vero?

Per mesi mi sono preso gioco delle vostre ossessioni: munito di poco più che Wikipedia e Spotify ho attraversato con impeto sbarazzino le vostre regioni più sacre: lungo le tappe del mio piccolo viaggio organizzato ho profanato il Dylan acustico, ho liquidato in un mese quello elettrico, non c’era un capolavoro che non si potesse visitare in settimana. E vi immagino, sornioni, mentre mi lasciate passare e sotto le barbe ghignate, va’ pure, va’ pure, povero illuso, impiccati alla tua lunghissima corda. Credi di aver capito Dylan perché sei sopravvissuto al 1965, al 1966? Va’ pure avanti, vediamo come te la cavi col Grande Deserto del 1967. Ed eccoci qui.

Ai Basement Tapes.

Dove nessun non-dylanita è mai giunto vivo.

O almeno, nessuno è sopravvissuto per raccontarlo.

Ce la posso fare?

No, vero?

Beh, intanto bisogna spiegare all’amabile comitiva che mi ha seguito fin qui cosa sono i Basement Tapes, (Ahahah, non ce la farai mai. Ma perché non hai scelto i Pink Floyd? Se a dicembre partivi coi Pink Floyd, a quest’ora avevi già finito. T’avanzava anche un po’ di posto per i progetti solisti). Zitti voi.

quinntheeskimo

Dylan ha fatto più soldi con questa canzoncina che con The Times They Are A-Changin’ – poi dici che uno ha un brutto carattere, ma voi come la prendereste?

Diconsi Basement Tapes i nastri che Dylan convalescente registrò con la sua band (in seguito nota come Band, con la B maiuscola) in un paio di seminterrati dalle parti di Woodstock; registrazioni rudimentali che non avrebbero dovuto essere pubblicate, ma costituire materiale d’archivio per la neonata casa di edizioni musicali (la Dwarf Music) che Dylan era convinto di possedere al 100%, ignorando di aver firmato la cessione del 50% al suo manager, Grossman. Incisioni che venivano stampate su effimeri 45 gradi di acetato e inviate per posta ad altri artisti, dalle quali effettivamente nacquero alcuni singoli di successo: addirittura un pezzo in cima alla top10 inglese (The Mighty Quinn, nella versione dei Manfred Mann). In sostanza, durante il suo ritiro a Woodstock, Dylan riscopre quell’attività collaterale di compositore-esecutore che lo aveva portato negli anni precedenti a incidere acetati per case editrici musicali, prima la Leeds Music e poi per la Witmark: la differenza è che anche questo tipo di registrazioni semi-private, ora, voleva farle con una band. Era anche un modo per tenersi impegnato i pomeriggi, e per tenere impegnata la Band, che era rimasta sotto contratto anche dopo che Dylan aveva sospeso il tour. Queste registrazioni sono convenzionalmente note come Basement Tapes, e ne dovrei parlare oggi.

Senonché (ahahah, qui ti aspettavamo) stavolta i compiti non li ho fatti. I Basement Tapes non li ho ascoltati. Non tutti.

Perché voi sì?

Eh, appunto.

DontLookBackI Basement Tapes hanno una storia, per usare un eufemismo, complessa. In principio fu forse una raccolta di almeno 14 pezzi che circolava nell’ambiente musicale già nell’autunno 1967: lo scopo promozionale delle registrazioni impediva che potessero rimanere private a lungo. Dylan le incideva con la Band per farle sentire agli artisti, ma non poteva impedire che gli artisti le facessero ascoltare agli amici e agli amici degli amici, tutti in crisi d’astinenza perché il loro beniamino non faceva uscire un disco nuovo, rendetevi conto, ormai da quindici mesi. Riuscite immaginare 15 mesi senza un nuovo disco di Dylan? L’inferno sulla terra, dai – non importa che fosse l’anno più cruciale della storia del rock, il 1967: a esordire in quell’anno, tra gli altri, Jimi Hendrix, i Doors, i Pink Floyd, i Velvet Underground: se però non eri il tizio che segue le novità, in circolazione c’erano comunque Beatles, Stones, Who, Kinks, Small Faces, e stavano tutti rinnovando completamente il loro repertorio, sperimentando cose nuove e memorabili. Ma Dylan non c’era. Fino a ottobre, silenzio di tomba – nel frattempo era finalmente uscito nelle sale Don’t Look Back, un documentario che risaliva ai tempi del Dylan acustico, due anni prima, un’eternità: ma era un mattone importante del monumento che si stava chiudendo intorno a lui. Finalmente in autunno si scopre che il Genio sta registrando qualcosa. È roba strana, ma piace immediatamente a tutti i privilegiati che riescono ad ascoltarla. Passa di mano in mano, come l’erba. E come l’erba non è che debba essere sempre per forza genuina: un pacco capita a tutti e se sei in compagnia fai finta di niente, l’importante è stare assieme, no? “Buona vero?” Buonissima.

“Non c’è bisogno di registrarla, Garth… è solo nastro sprecato” (Hills of Mexico).

A che età avete cominciato a dipingere meglio di Dylan? (Qualcuno notò subito che i musicisti in copertina erano sei).

A che età avete cominciato a dipingere meglio di Dylan? (Qualcuno notò subito che i musicisti in copertina erano sei).

Nell’estate del 1968 arriva nei negozi il primo disco della Band. Si rifaceva esplicitamente all’esperienza dei Basement Tapes e si intitolava Music from the Big Pink. La “Grande Rosa” era la casa nel bosco che la Band aveva preso in affitto, in cui era stata registrata la maggior parte dei Tapes. Dylan nel loro disco non compariva, un po’ perché i ragazzi volevano dimostrare di reggersi sulle loro gambe, un po’ per questioni contrattuali: la Band aveva firmato per la Capitol, lui restava alla Columbia. In compenso aveva dipinto la copertina, una delle prime testimonianze (abbastanza oscene) del suo periodo di apprendista Chagall. Il disco conteneva almeno tre suoi brani importanti: Tears of RageI Shall Be Released e This Wheel’s On Fire: roba buona, che piacque immediatamente ai critici: ma ancora più che l’album, piaceva a tutti pensare che da qualche parte Dylan stesse registrando privatamente coi suoi amici della grande musica, di cui ci arrivavano per vie irregolari soltanto le briciole. “Rolling Stone” lanciò un appello: il Basement Tape dev’essere pubblicato. Al tempo pensavano ancora che ce ne fosse uno solo. Che teneri.

Great_White_Wonder

Andavano di moda i dischi bianchi, nel 1968.

Di lì a poco sette miseri pezzi arrivarono davvero nei negozi, all’interno di un doppio 33giri in una busta tutta bianca; in seguito qualcuno cominciò a stamparci sopra la scritta Great White Wonder, perché negozianti e clienti ormai avevano iniziato a chiamarlo così: la Grande Meraviglia Bianca. Nessun’altra indicazione, perché si trattava di un disco abusivo, un bootleg, uno dei primi in assoluto. Ne sarebbero seguiti tantissimi. I 33giri riprendevano la struttura bifronte di Bringing It All Back Home e degli ultimi show di Dylan: un lato acustico, uno elettrico. Il due lati acustici venivano da vecchie registrazioni domestiche dei primissimi anni, sparite dalla casa di un amico di BD in seguito a un furto. I due lati elettrici contenevano anche brani dei Basement Tapes. Great White Wonder arrivava in un momento in cui, anche a causa del ritiro dalle scene, l’interesse del pubblico per Dylan sembrava più vivo che mai – l’effetto Battisti, per capirci. Più dei brani in sé, destava stupore la direzione completamente inattesa: era musica che non assomigliava né a Blonde On Blonde – (estate 1966) né a John Wesley Harding (dicembre 1967), né al Dylan un po’ più country ma anche ‘commerciale’ di Nashville Skyline, che le radio AM programmavano con piacere in quell’estate 1969, con quella voce tanto diversa, più calda. Acclamare al capolavoro per due facciate di registrazioni sporche in cantina, magari, era un po’ da fanatici, ma serviva anche a dare un messaggio preciso: rivogliamo il vecchio Dylan sporco e arruffato, con la sua voce nasale – anche se a ben vedere non assomigliava così tanto al ‘vecchio’ Dylan. Ma neanche a quel bel faccino che sorrideva sulla copertina di Nashville.

Bob_Dylan_-_Nashville_Skyline

CIAO SONO IL VOSTRO CANTAUTORE PREFERITO!

A questo e ad altri appelli, per molto tempo Dylan non rispose, per una serie di motivi che possiamo con un po’ di margine ricostruire: (1) non credeva troppo in quel materiale: lo considerava impubblicabile, per una mera questione di resa del suono, ma anche perché inferiore agli standard delle sue uscite ufficiali. (2) In realtà gli standard si stavano già abbassando, e anche i critici avrebbero smesso di gridare al capolavoro per qualsiasi cazzatina Dylan mettesse su disco, ma a quel punto pubblicare i Tapes del 1966-67 avrebbe significato ammettere che da lì in poi l’ispirazione aveva avuto una flessione, per non dire un crollo. C’è anche da dire che (3) non si trattava di un nastro solo, ma di una massa di scatoloni pieni di bobine che già cominciavano ad ammuffire, e riascoltarli per capire cosa si poteva riutilizzare avrebbe richiesto più tempo che incidere un nuovo disco dal niente (un po’ come i Beatles, che piuttosto di riascoltare i nastri del progetto Get Back! si misero a incidere Abbey Road. I nastri li riascoltò Phil Spector, e ci tirò fuori Let It Be). Dylan poi non si stava nemmeno preoccupando troppo della conservazione di quella robaccia, custodita dai membri della Band in vecchi scatoloni. Forse perché (4) era materiale della Dwarf Music, il che significa che Grossman ci avrebbe guadagnato il 50%, e dopo aver scoperto la fregatura Dylan era tutt’altro che ansioso di arricchire un altro po’ Grossman. Piuttosto, davvero, preferiva incidere altre cose. Magari nello stesso stile dei Tapes, se davvero alla gente piacevano i Tapes. Ma alla gente piacevano davvero? Come facevano a saperlo? Ne avevano ascoltati molto pochi.

Dopo aver a lungo nicchiato, risolta la causa con Grossman, Dylan acconsentì a pubblicare un po’ del materiale nel momento in cui meno ne avrebbe avuto bisogno, ovvero nel 1974, all’indomani del successo di Blood on the Tracks. Galvanizzati dal ritorno alla forma del loro idolo, i dylaniti corsero a comprarlo e… decisero che era un capolavoro, che altro avrebbe potuto essere? Si videro per l’occasione critici musicali inclinati secondo angoli imbarazzanti. Per il NYTimes era “uno dei più importanti dischi della musica popolare americana”, figurati gli altri. Per Robert Christgau, che tanto criticherà altri sforzi di Dylan, era il disco dell’anno 1974 (addirittura), ma avrebbe potuto anche essere il disco dell’anno 1967: avete presente che razza di dischi erano usciti nel 1967? Sgt. Pepper, Are You Experienced, Velvet Underground and Nico, The Doors, Forever Changes… Christgau in quel momento preferiva una raccolta di scarti incisi in cantina da Dylan.

Questa supervalutazione, alla lunga, non avrebbe giovato alla carriera di BD – che senso aveva preoccuparsi di scrivere materiale nuovo e di arrangiarlo in modo originale, se critici e pubblico si accontentavano di roba amatoriale registrata in un seminterrato? Ma non era del tutto colpa loro. Erano giovani, ricordiamocelo, tutti giovani: la critica rock era persino più giovane del rock, le mancavano un sacco di errori da cui imparare. Aveva desiderato i Tapes per così tanto tempo che ormai non riusciva ad ascoltarli, era così felice anche solo di averli in mano. Era euforica, come il bambino mentre scarta il regalo. Solo dopo ripetuti ascolti qualcuno osò ammettere che, insomma, qualcosa non tornava. Belli i pezzi, per carità. Ma non aggiungevano molto a quello che si era già sentito nella Meraviglia Bianca, e inoltre… dov’era The Mighty Quinn? Dov’era I Shall Be Released? Dov’era Bob Dylan? In otto pezzi su ventiquattro non compariva nemmeno. In effetti chi aveva curato l’edizione del 1974 dei Tapes aveva evidentemente potuto lavorare su pochi nastri: gli unici in condizioni decenti, o magari l’unico scatolone che era già saltato fuori. Per allungare un brodo che i dylaniti conoscevano già, Robertson – il chitarrista della Band, responsabile dell’edizione del 1974 – aveva aggiunto qualche brano dalle session di Music from the Big Pink. Ma in generale tutti i brani erano stati rieditati, ripuliti, corretti: in particolare erano state aggiunte quelle armonie vocali che erano diventate col tempo uno dei marchi di fabbrica della Band, e che le registrazioni rudimentali della Grande Rosa avrebbero documentato in una fase ancora molto embrionale (in tutto il tour del 1965, l’unico a cantare qualcosa era Danko, che armonizzava con Dylan la parola “Behind” in One Too Many Morning. Nella Ain’t More Cane del 1974 sembrano un affiatatissimo quartetto vocale. In un seminterrato? Con i microfoni presi in prestito a Peter, Paul e Mary? Quando glielo facevano notare, i critici rispondevano che, beh, uhm, effettivamente qualcosa non tornava, però… non è bella Ain’t More Cane? E allora qual è il problema?)

DYLAN: “Richard, canta una strofa”.
MANUEL: “Che canzone è?”
DYLAN: “Non importa, canta una strofa” (Bring It Home).

Bob_Dylan_-_The_Basement_Tapes_CompletePer molto tempo i Tapes del 1974 sembrarono essere gli unici che si sarebbero mai ascoltati. Ma i dylaniti non si davano per vinti e lentamente il muro di omertà cominciò a sgretolarsi. Qualche brano inedito venne stampato qua e là. Nel 2007 uno dei pezzi più strani dei Tapes, I’m Not There, uscì nella colonna sonora del film a cui dava il nome, il bizzarro biopic di Dylan di Todd Haynes. E poi nel 2014 uscì l’undicesimo volume della serie ufficiale dei bootleg di Dylan, interamente dedicato ai Basement Tapes, riesumati dagli scatoloni, ripuliti e rimasterizzati. Sono sei cd. Centotrentotto pezzi, di cui centodiciassette inediti. Sono una testimonianza inestimabile di uno dei periodi fondamentali della carriera di Bob Dylan.

E io non li ho ascoltati.

Cioè, parliamo di 138 pezzi. Sapete quanti pezzi aveva inciso Dylan fin qui negli album di studio, dal primo a Blonde On Blonde? Ottantuno. Nei basement ne registrò 138. Potrei anche procurarmeli e ascoltarmeli, certo. In sette ore si può fare. Ha senso ascoltare 138 pezzi in sette ore per scrivere un articolo lungo come tutti gli altri? Oppure potrei passare un mese a parlare dei Tapes, perché no, Greil Marcus ci ha scritto uno o due libri (ma parla davvero dei Tapes, lì dentro?) Come se fossero importanti come quattro o cinque dischi di Dylan. Sono così importanti?

Come faccio a saperlo? Non li ho ascoltati.

Conosco ovviamente i Tapes usciti nel 1975, che però sono molto incompleti e un po’ falsi. Ho sentito anche qualche oretta dei Tapes nuovi, qua e là (su Spotify c’è una raccolta). Ma a quanto pare si tratta di esperienze superficiali, mai come per i Tapes vale il principio della completezza, solo chi ascolta tutti i Tapes può capire quanto siano incredibili i Tapes. E quindi che faccio?

ridicoli

Tutte le stelline dei critici americani, da Wikipedia.

Un trucco ci sarebbe, il solito. Quando non hai fatto in tempo ad ascoltare qualcosa, di’ che è un capolavoro. Mal che vada avrai un po’ sopravvalutato il prodotto. Ma nessuno si lamenta delle sopravvalutazioni – e poi andiamo, parlar male di una cosa che non si conosce è proprio da stronzi. Parlarne bene è altrettanto ipocrita, ma funziona meglio. Se parli male di qualcosa, subito si domandano: ma sei sicuro di averla ascoltata bene? Sei sicuro di averla ascoltata? Se ne parli bene si fanno meno domande. Quindi, ok, avrei potuto semplicemente dire che i sei cd sono un vero capolavoro, da vivere e respirare nella loro interezza. Ti sembra proprio di essere lì, tra Dylan che sghignazza, Robertson che pasticcia con la steel guitar, Danko che pizzica il contrabbasso, Hudson che sistema le bobine, Helm che picchia piano il rullante per non coprire la voce, Manuel che rolla una canna. Non è musica che si ascolta soltanto, è roba che si manda giù con gusto – Dio, com’è facile parlar bene di qualcosa, davvero, a saperlo sai quanti film mi risparmiavo, quanti libri, quanti dischi. È talmente facile che a volte mi viene il sospetto: chissà quanti fanno così. Quando l’edizione completa dei Tapes è stata pubblicata, il giudizio della critica è stato unanime: chi aveva cinque stelline ne ha date cinque, chi ne aveva dieci le ha messe tutte e dieci, qualcuno deve aver lottato per introdurne un’undicesima. I Tapes sono un capolavoro, sapete. Sono lo scrigno del nuovo folk americano, dell’alt-country o Americana o come si chiama (in Italia non abbiamo un nome). Sono il Sacro Graal. Una cornucopia di tesori ancora da scoprire e tutto il resto. Il commento migliore l’ha scritto un giornalista: è come se agli appassionati d’arte arrivasse un video integrale di Leonardo Da Vinci che dipinge L’ultima cena. Non sarebbe incredibile?

Sì, sarebbe incredibile.

Leonardo_da_Vinci_-_The_Last_Supper_high_res

Anche qui ci sarebbe da dire qualcosa sull’inevitabile erosione del tempo, le tecniche sperimentali, i restauri un po’ invasivi, l’aura del capolavoro che diventa un ostacolo alla comprensione del manufatto, ecc.

Ma sarebbe anche un video estremamente noioso. Basta leggere il Bandello: giornate intere sull’impalcatura, altre giornate intere soltanto a rimirare l’effetto, e però bisogna dire che alla fine avremmo capito come si dipinge L’ultima cena. Ma i Tapes alla fine sono serviti a produrre una hit abbastanza pedestre come The Mighty Quinn, o la filastrocca un po’ inquietante di You Ain’t Goin’ Nowhere, Non mi sembrano risultati paragonabili all’Ultima cena. Ma neanche a Highway 61. Cioè qualcuno ogni tanto potrebbe alzarsi e ricordare che i Tapes saranno belli, importanti, ma non sono questo gran capolavoro.

Vuoi alzarti tu?

marcusGià. Chi vuol essere l’antipatico che rovina la festa? L’importante è stare bene, condividere le esperienze… insomma manda giù e non farti troppe paranoie, perdio, è solo musica popolare. Cosa pensavi di trovarci? Ok, Marcus a un certo punto ci ha trovato l’intera storia del popolo americano, deve averne mandato giù un po’ troppa, capita ai migliori. Io riesco al massimo a vederci un gruppo di musicisti che cerca di divertirsi con quello che ha e con quello che riesce a fare. Se sei un musicista, ti capiterà ogni tanto di metterti a ridere – se non lo sei, lascia perdere, non ti perdi nulla di così divertente. C’è il surrealismo non artefatto dei testi buttati giù alla benemeglio per aver qualcosa da cantare tra un ritornello e l’altro, che dopo l’ispirazione torrenziale di Blonde on Blonde è riposante come un balsamo – come se Rimbaud, dopo le Illuminations, avesse pubblicato i libri contabili della sua piccola impresa di contrabbando d’armi e a distanza di un secolo e mezzo qualche critico annoiato dalle Illuminations, il Marcus di turno, cominciasse a rivalutarli: sapete, in questi libri oscuri ci sono riferimenti al Terzo Impero, all’Africa coloniale, a François Villon! Ma certo Marcus, racconta pure. Per quel che ho capito nei Tapes c’è un po’ di folk, un po’ di country, un po’ di rock, buttati nello stesso pentolone per vedere cosa succede. L’intuizione era buona e di lì a poco l’avrebbero avuta tanti altri: prima o poi qualcuno avrebbe trovato la giusta formula tra i tre ingredienti e avrebbe venduto dischi come cocacola nel deserto. L’anno dopo ci avrebbero provato i Byrds (cominciando proprio da You Ain’t Goin’ Nowhere), e anche la Band avrebbe insistito sulla stessa strada, ma i tempi non erano ancora maturi. Nessuno poteva saperlo, ma stavano tutti cercando la ricetta degli Eagles, alla fine (gli Eagles hanno venduto più di chiunque, chi lo direbbe. Ma è così).

Nei Tapes si ride. Dylan ride parecchio. Una volta ho detto che Dylan ride raramente, si capisce che non avevo ben ascoltato i Tapes. In fondo i Tapes sono la naturale continuazione di Blonde On Blonde, se Blonde On Blonde consistesse soltanto in un’ora di Rainy Day Women. Prendi Teenage Prayer, un brano talmente scemo che nemmeno Marcus riesce a parlarne: una lunga risata su un’idea, in effetti, esilarante: “Dammi un’occhiata baby: sono la tua Preghiera di Teenager“. Giuro, mi sono messo a ridere mentre trascrivevo. “Dammi un’occhiata baby: sono il tuo Sogno di Teenager“. Quant’è fantastico che il tizio che due anni prima scriveva testi pieni di riferimenti alla morte, invece di ammazzarsi in moto, sia sopravvissuto per ridacchiare una canzone così? Nei Tapes Dylan recita. In Tiny Montgomery sembra veramente un tizio che si sia impadronito del microfono in un night, per brandire i suoi omaggi minacciosi. “Puoi dire a tutti giù nella vecchia Frisco che il piccolo Montgomery li saluta”. In seguito BD cercherà di accreditare l’idea che i Tapes rappresentassero una consapevole presa di posizione rispetto a dove stava andando il rock nel 1967 (in un’intervista arrivò a definire Sgt Pepper “autoindulgente”). Alle sperimentazioni e alla psichedelia Bob Dylan diceva No e si rimetteva a mischiare folk e country in una fattoria nel bosco. Ma lo Zeitgeist è veramente una strana bestia. Per quanto autorecluso, nel 1967 Dylan sente lo stesso impulso che aveva portato gli Who a fingersi pubblicitari, i Kinks a rifondarsi come Associazione per la Conservazione del Passato, i Rolling Stones a mettersi i panni dei Beatles, i Beatles a travestirsi da banda di ottoni (una mossa, peraltro, ispirata proprio a Blonde On Blonde: così come i Basement Tapes ispireranno il catastrofico progetto Get Back!). Alla nuova ondata di creatività, i protagonisti della penultima reagivano camuffandosi in qualcosa d’altro, cercando confusamente di truccare la loro immagine pubblica che stava stretta a tutti. Dylan non si è mai trovato a suo agio con le maschere, ma i Basement Tapes sono il luogo e il momento in cui ne ha indossate di più.

“Ha letto le notizie?”, disse ghignando, “il Vicepresidente è impazzito!”
“Dove?”
“In centro”.
“Quando?”
“La notte scorsa”.
“Oh, ma è proprio un peccato”.
“Beh, non c’è niente che possiamo farci”, disse il vicino, “È solo una cosa che dobbiamo dimenticare”.
“Già, immagino che sia così”, disse Mamma, e mi chiese se i panni fossero ancora bagnati (Clothes Line Saga).

aoafmNei Tapes c’è un sacco di roba buona. Ma la cosa che piace a tutti è il concetto. L’idea della rockstar in esilio che si ritira in una casa nel bosco e si mette a suonare per divertimento, coi suoi amici un po’ fumati, ma professionisti. Se a vent’anni mi avessero chiesto di progettare un angolo di paradiso, avrei avuto in mente un posto come la Big Pink: lunghi pomeriggi di sole a far musica con gli amici. E non li avevo ancora ascoltati, i Tapes. È inevitabile che poi al primo ascolto ti deludano. Erano più divertenti da suonare che da riascoltare, è chiaro. Ma puoi sempre far finta di niente e rimanere fedele al sogno. Non c’è veramente bisogno di ascoltare i Tapes per amare i Tapes – il che non significa che non siano un ascolto interessante, persino illuminante. Durante la convalescenza Dylan sta mettendo in discussione il suo metodo di lavoro, quello che in quattordici mesi gli ha fatto sfornare tre capolavori, ma che lo ha portato in rotta contro il suo pubblico più affezionato e sull’orlo di un esaurimento nervoso. Non si tratta solo di smettere di girare il mondo per i concerti: ha anche a che vedere col svegliarsi nel cuore della notte per battere testi torrenziali. Coi Tapes Dylan resetta tutti i risultati di Blonde On Blonde, e riparte da capo, non più da Woody Guthrie ma dall’Anthology of American Folk Music, una bizzarra compilazione in sei dischi di brani incisi negli anni Venti e Trenta da musicisti per lo più sconosciuti e incapaci di far valere i propri diritti. Dylan la saccheggia senza pudore, né devozione filologica. Dopo i primi mesi Dylan si mise anche a comporre, ma non per sé: quando alla fine deciderà di incidere un suo disco nuovo, tornerà a Nashville e tirerà fuori una decina di canzoni pronte e mai eseguite nella cantina con la Band. La creatività espressa nella Cantina è collaterale: senza l’obbligo di scrivere un seguito a Blonde On Blonde, BD abbassa di molto le pretese, monta canzoni come un falegname monta casette per uccelli. Addirittura gli capita di chiedere aiuto a un membro della Band per trovare una musica a un testo, non gli era mai capitato! (Richard Manuel cofirmò Tears of Rage).

La Grande Rosa.

La Grande Rosa.

Almeno l’edizione del 1974 metteva in chiaro una cosa: i Tapes erano stati un momento importante più per la storia della Band che per Dylan. Erano arrivati a Woodstock un po’ in confusione, quattro onesti operai rockabilly reclutati da Dylan due anni prima per una missione suicida – distruggere la sua immagine di folksinger. Ci erano riusciti, ma nel percorso avevano perduto il loro leader (il batterista Levon Helm), e l’autostima. Più forte suonavano, più la gente fischiava: al termine del tour inglese erano confusi quanto Dylan. Poi c’era stato l’incidente e le sessanta date cancellate. Qualcun altro li avrebbe licenziati su due piedi: non erano più utili, ammesso che lo fossero stati. Quando si trattava di registrare album in studio, Dylan continuava a preferire i turnisti di Nashville. Ma i pomeriggi passati a incidere misteriose canzoni folk (all’inizio nessuno capiva se fossero davvero folk o scritte lì per lì da Dylan) non furono tempo buttato via. Secondo Robertson fu una vera e propria rieducazione musicale, e per quanto rilassato Dylan aveva idee precise. Arrivava ogni giorno alla stessa ora, con qualche brano nuovo da proporre. A prima vista era roba abbastanza informe, ma da lontano diventava chiara almeno la direzione. Basta ascoltare la nuova versione di One Too Many Morning: i ragazzi stanno imparando a suonare piano. All’inizio era l’unico modo per far sì che batteria e chitarra non coprissero la voce nella registrazione. Col tempo sarebbe diventato il loro nuovo sound. A un certo punto tornò anche Helm: gli Hawks erano tornati al completo, salvo che non si sentivano più Hawks. La gente giù in città, quando andavano a fare le spese, li chiamava “quelli della banda”. Alla fine si tennero il nome: la Banda. Nel giro di qualche anno avrebbero venduto milioni di dischi, diventando virtuosi e sviluppando un imprevedibile perfezionismo del suono: ma senza mai allontanarsi veramente dallo spirito dei Tapes. Quante volte ci siamo fermati a ricordare tutti gli artisti di cui Dylan approfittò? Ecco, bisogna anche ricordare che Robertson, Helm, Husdon, Danko e Manuel gli devono tutto.

Ma anche Dylan deve molto a loro. Tra le tante fratture nella sua carriera, quella tra pre- e post-Basement è una delle più visibili. Per molto tempo è sembrato un fossato enigmatico: provate ad ascoltare l’ultimo brano di Blonde On Blonde e immediatamente dopo il primo del disco successivo, John Wesley Harding. Non è la stessa musica, non è la stessa persona. I Tapes sono un fiume sotterraneo che si ricollega alle origini folk di Dylan, ma ci aiuta anche a capire cosa stava succedendo nel sottosuolo tra 1967 e 1968. Tra le cose che Dylan non porta in cantina, c’è il lirismo medianico dei brani più lunghi e ambiziosi di Blonde: niente più Visions, niente più Sad Eyed Lady, il compositore della cantina vola molto più basso, limita il lessico (anche le progressioni armoniche). A volte non sa cosa cantare (I’m Not There è la solita storia d’abbandono, ma raccontata con una serie di frasi sconnesse che potrebbe raccontarsi un ubriaco al gabinetto, un grado zero della poesia che BD non ha raggiunto mai più). Non significa però che abbia smesso di lavorare sui testi. Ora però sta cominciando a sperimentare qualcosa di relativamente inedito, per lui: la brevità. Si tratta di condensare il significato di dieci strofe in due: la prima soluzione escogitata è l’ambiguità.

Nella fumosa cantina della Big Pink, certe canzoni vogliono dire tutto o niente. Going to Acapulco parla di autorealizzazione o di prostituzione o di entrambe le cose? Tears of Rage guarda con occhi bagnati di furore chi ha tradito gli ideali dell’Indipendenza americana, o i giovani contestatori anti-Vietnam che Dylan – padre da pochi mesi – sente già di una generazione diversa? Tiny Montgomery è un deficiente che vuole salutare tutti o un gangster pericoloso? Nothing Was Delivered racconta di un disguido postale o è l’ultimo avvertimento a un contrabbandiere che all’epoca del Proibizionismo non ha consegnato le casse di liquori a chi doveva? La ruota che ha preso fuoco (This Wheel’s on Fire) sta portando più veloce qualcuno alla sua vendetta, o sta per mandare Dylan in ospedale (“Meglio avvisare il mio erede più prossimo, questa ruota dovrà esplodere”)? I Shall Be Released funziona sia come gospel che come canto del galeotto, e quel verso che Danko canta sognante (“ricordo ogni faccia di ogni uomo che mi ha portato qui”) può rivelare gratitudine o volontà di vendetta. E poi c’è You Ain’t Goin’ Nowhere, la canzone dei Tapes che Dylan ha ripreso più spesso. Non è l’Ultima Cena, non è neanche tra le venti canzoni più importanti di Dylan, ma a suo modo è centrale. Il ritornello è uguale in tutte le versioni, dunque tutto era partito da una filastrocca di cui evidentemente BD non riusciva a liberarsi. Uuuh, iiiiih, cavalcami alto, domani è il giorno che arriva la mia sposa. Nella versione che sembra più compiuta – quella da cui partirono i Byrds – sembra di capire che si parla di un matrimonio per corrispondenza. Ma quanto ci possiamo fidare del tizio che aspetta la sua sposa, e già che c’è si compra un flauto e una pistola? “Non andrai da nessuna parte” può essere un invito o una minaccia. Dipende molto da come la canti, e Dylan almeno in questa versione non ha paura di sembrare minaccioso. You Ain’t è anche la capostipite di un genere di canzoni che Dylan disseminerà in tutti i dischi incisi dal 1967 fino al divorzio: potremmo chiamarle le canzoni del Marito Coccolone. Sono brani in cui tutto quel che Dylan vuole esprimere è: stasera vengo a casa e sto da solo con te, non vedo l’ora. Ancora in Blonde On Blonde era una situazione impensabile, da John Wesley in poi diventerà un chiodo fisso. You Ain’t Goin’ Nowhere è la prima, ed è anche la più strana: l’unica a farci pensare che questa propensione in fondo normalissima per le coccole coniugali possa nascondere qualcosa di patologico. “Legati a un albero ben radicato: non te ne vai da nessuna parte”.

In un’altra versione, a “non andare da nessuna parte” sono forse i membri della Band: o i Tapes stessi. “Non siete altro che un mucchio di rumori da cantina”, dice, e si lamenta che nessuno stia dando da mangiare a gatto. “Non ve ne andrete da nessuna parte”. Non è andata esattamente così, ma chi se lo sarebbe immaginato.

(Gli altri pezzi: 1962: Bob Dylan, Live at the Gaslight 19621963: The Freewheelin’ Bob DylanBrandeis University 1963Live at Carnegie Hall 19631964: The Times They Are A-Changin’The Witmark Demos, Another Side of Bob DylanConcert at Philharmonic Hall1965: Bringing It All Back HomeNo Direction HomeHighway 61 Revisited1966: The Cutting Edge 1965-1966, Blonde On Blonde, Live 1966 “The Royal Albert Hall Concert”, The Real Royal Albert Hall 1966 Concert, 1967: The Basement Tapes, John Wesley Harding…)

Leonardo Tondelli

Da Modena. Nel 1984 entra alla scuola media, non ne è più uscito. Da 15 anni scrive su uno dei più verbosi blog italiani, leonardo.blogspot.com. Ha scritto sull'Unità e su altri siti. Sul Post scrive di Dylan e di altri santi del calendario.