Che cosa c’entra Marx

Il Capitale di Karl Marx pubblicato da Editori Riuniti nel 1974 e curato da Delio Cantimori era un cofanetto in cinque volumi per 2663 pagine complessive che aveva il potere di fare sentire in colpa tutti coloro – cioè quasi tutti – che non erano riusciti a finirlo. Per cent’anni quel libro era stato lo specchio in cui il mondo aveva guardato se stesso, lo strumento grazie a cui milioni di ricchi avevano iniziato a dubitare del proprio diritto e miliardi di poveri avevano capito perché non erano felici e perché forse potevano diventarlo. Il Capitale incominciò a sparire in silenzio, copia dopo copia, negli anni che seguirono il 1989: trasportato in cantina, regalato ai rigattieri, scaricato di notte nella spazzatura per la gioia dei portinai, categoria per cui del resto Marx non aveva mai nutrito alcuna simpatia. Il 5 maggio Karl Marx compie duecento anni e il suo sbiadito ricordo si è trasformato in icona, nell’ennesimo marchio che affolla il mercato e che rimanda, vagamente, a un’idea di uguaglianza e violenza. Molti lo scambiano per Babbo Natale.

Il destino delle cose che vanno molto di moda è di passare di moda di colpo. A volte è una svolta improvvisa dovuta al zigzagare emotivo dei tempi. Nel caso di Marx i motivi sono fondati. Quello che si tenta qui, acrobaticamente, è un ripasso essenziale del suo pensiero e qualche idea, necessariamente abbozzata, delle ragioni della sua inadeguatezza attuale. La prima e più banale ragione dell’oblio che avvolge Marx – nonostante qualche film sulla sua giovinezza e sporadico bestseller sulla sua attualità – è che nei Paesi dove il marxismo ha comandato, le persone forse sono state più uguali, ma di certo non più felici, anzi. La seconda è che Marx aveva capito molto dell’economia, ma un po’ meno degli uomini. Il suo insegnamento principale è semplice: se qualcuno ti paga per lavorare in realtà ti sta derubando, perché si arricchisce – accumula capitale – proprio pagandoti meno di quanto produci. Il furto è aggravato dal fatto che il denaro ti costringe a rivolgerti al mercato per sopravvivere: quando comprerai quello che tu stesso o qualche altro derubato come te ha prodotto, verrai derubato di nuovo perché acquisterai la tua merce a un prezzo più alto di quello pagato dal padrone per vendertela.

Il meccanismo è piuttosto esatto, ma non tiene conto di alcune variabili: non sempre chi è pagato per produrre produce davvero o produce abbastanza, e non sempre chi paga riesce a davvero a vendere al prezzo che immaginava. Tra la domanda e l’offerta si annidano le imponderabili variabili che possono trasformare lo sfruttamento in fallimento. Ma se il motore dell’economia è il furto, il mondo si divideva e divide in sfruttati (tantissimi: gli operai) e sfruttatori (più rari: i padroni). Il contrasto tra chi fa e chi ha si chiama lotta di classe, che per il marxismo è il motore della storia e insieme il suo fine: poiché i produttori sono tanti e sanno fare, mentre i padroni sono pochi e non sanno fare niente, Marx prevedeva che alla fine gli sfruttati avrebbero trionfato e l’uguaglianza regnato.

Le cose sono andate diversamente: negli ultimi duecento anni le condizioni generali di vita sono migliorate, ma negli ultimi venti le distanze tra poveri e ricchi sono aumentate a dismisura. L’ingiustizia è cresciuta, ma le classi sono meno riconoscibili e la lotta di classe si è fatta confusa. Marx aveva sottovalutato che i poveri – comprensibilmente – non amano essere e apparire poveri e che i ricchi – altrettanto comprensibilmente – avrebbero assecondato questa loro debolezza per vendere di più e diventare ancora più ricchi. È il fenomeno che viene riassunto nel concetto di fordismo: se il capitalismo non è crollato, è perché nell’ultimo secolo l’automatizzazione ha aumentato all’infinito le merci e i produttori, cioè i lavoratori, sono stati trasformati in consumatori: hanno conquistato, e gli sono stati concessi, abbastanza soldi e tempo libero per comprarsi qualcosa – automobili, frigoriferi, scarpe di marca, vacanze – in modo da sentirsi più simili ai ricchi. Sono stati invitati al banchetto, ma in cambio gli è stato chiesto di fare da mangiare e perfino di pagarlo. È stato un inganno, ma anche un miglioramento reale. Questa illusione è durata finché l’economia è cresciuta, il mercato globale si è allargato e la ricchezza è stata in qualche misura distribuita, ma da qualche decennio il meccanismo si è inceppato.

La punta della piramide si assottiglia e la base si allarga. All’automatizzazione, che nel secondo Novecento, grazie alla catena di montaggio, permise di trasformare gli operai in un’altra classe di consumatori e piccoli proprietari, si è affiancata la digitalizzazione, che ha permesso alla capitalizzazione finanziaria di raggiungere e superare il valore delle merci prodotte, sganciando la ricchezza dal lavoro. L’uguaglianza non passa più dal controllo dei mezzi di produzione. La lotta tra produttori e proprietari non è più il motore della storia perché la produzione di ricchezza è sempre meno legata alla capacità di produrre e vendere merci. I pochi marxisti superstiti sperano che sia l’inizio della grande crisi ciclica del capitale, quella che metterà in ginocchio il capitalismo. Se anche avessero ragione, è improbabile che in fondo alla crisi ci sia l’uguaglianza.

Si intravedono, invece, due invenzioni che scorrono in parallelo e destrutturano lo schema che ha permesso al capitalismo di prosperare. Da un lato si sta verificando una progressiva disgiunzione tra possesso e consumo: per continuare a vendere anche in mancanza di compratori, il capitalismo sta di fatto spezzando il prezzo di vendita e l’atto dell’acquisto in una infinita serie di piccole rate. L’abbonamento e la condivisione sostituiscono la proprietà. A definire il grado di benessere, e quindi le classi sociali, non è più l’avere ma il poter usare. Insomma, se non sei ricco puoi sempre sembrarlo, utilizzando cose che non potrai mai comprare. L’abbonamento sostituisce l’acquisto, il noleggio sostituisce il possesso. La musica non si compra: si noleggia su Spotify e iTunes. I telefonini da oggetti si trasformano in benefit compresi nell’abbonamento telefonico. Le biciclette e le auto di proprietà scompaiono sostituite da quelle in sharing. Il senso economico di questa trasformazione è evidente: protrarre il consumo all’infinito incatenando il consumatore per sempre.

In secondo luogo la smaterializzazione della ricchezza smaterializza anche la merce, che da cosa si trasforma sempre più in simbolo, in marchio. Il meccanismo che regge lo scambio finanziario si estende, cioè, a ogni altro scambio: allo stesso modo in cui le azioni in borsa acquistano o perdono valore in base alle aspettative e alla fiducia del mercato, così il valore delle merci è determinato, più che dal loro valore reale, dall’attenzione che sanno suscitare. Se il produttore era pagato per il suo lavoro, il consumatore lo è per la sua attenzione. Il fenomeno è chiarissimo nell’economia ancora in gran parte misteriosa dei giochi dei telefonini che regalano crediti, cioè monete d’oro,  ai giocatori in cambio della loro disponibilità a guardare pubblicità. Succede lo stesso, ma in modo più opaco, per ogni altra merce il cui valore consiste sempre meno nell’uso e sempre più nell’interesse che il marchio ispira. La differenza di prezzo tra una cintura Gucci e una identica cintura non-Gucci non ha niente a che fare con i materiali e la cura con cui è prodotta, ma con la fiducia e le aspettative da cui è avvolta. Il valore della merce non è determinato dalla sua utilità, ma da un atto di fede quasi religioso, animista, sul suo potere di dare valore a chi lo possiede. È il feticismo della merce che Marx intuì: «A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia», scrive nel Capitale, «Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici» Da materialista non comprese fino in fondo che il valore degli oggetti dipende in gran parte dal desiderio e dalla fede che suscitano e che finché non si muore di fame, le illusioni agli uomini bastano. Il capitale si è volatilizzato, però è disponibile online.

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Una versione più breve di questo articolo è apparsa sul settimanale Gioia!

Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.