Il ghetto interiore a Buenos Aires

A Buenos Aires c’era un Banco Polaco (in Avenida Tucuman, 462). Era la filiale della banca PKO di Varsavia, aperta nel 1929 per servire i molti emigranti polacchi in Argentina. Vi lavorò lo scrittore polacco Witold Gombrowicz, dal 1947 al 1955, come segretario soprannumerario presso la direzione: «Più che un segretario ero un disastro! Uno stipendio da fame – circa cento dollari al mese – e rendimento zero. La negazione assoluta in fatto di materia bancaria: quelle carte per me erano arabo, trascorrevo giornate senza senso, sterili, esasperanti… Cercavo di scrivere il mio romanzo Trans-Atlantico sotto banco e ogni volta che entrava il presidente nascondevo le pagine come uno scolaretto…».

Lo ricorda Vincente (Wincenty) Rosenberg, il protagonista del bel romanzo Il ghetto interiore (Neri Pozza) dello scrittore e regista franco argentino Santiago Amigorena, che anche lui lavorò brevemente in quella banca, una sorta di Arca di Noé di emigranti e fuggiaschi, appena giunto a Buenos Aires dalla Polonia. Nato a Chełm (che è una città della Polonia, a sud-est di Lublino, e non un quartiere della capitale come scritto nel risvolto di copertina dell’edizione italiana!), in un ambiente dove tutti parlavano yiddish e trasferitosi con la famiglia a Varsavia, Rosenberg di sente polacco: ammiratore del maresciallo Józef Piłsudski (l’artefice dell’indipendenza della Polonia), combatte come ufficiale contro i sovietici nella guerra del 1920. Ma quando si iscrive all’Università (ama la lingua e la letteratura tedesca) scopre che gli altri studenti polacchi lo considerano Altro, un ebreo, e lo sbeffeggiano nonostante lui avesse rischiato la vita per quella che pensava fosse la sua patria. Per questo, e anche per allontanarsi dall’affetto soffocante della madre, Gustawa Goldwag, nel 1928 emigra in Argentina.

A Buenos Aires dimentica rapidamente la vita precedente e trova una nuova identità (né ebraica, né polacca): impara a ballare il tango; sposa un’ebrea di origine russa, Rosita (con la quale farà 5 figli: la più grande, Ercilia, sarà la mamma dell’Autore); non ha più nessun rapporto con la sua religione; fa il commerciante di mobili e perde i soldi giocando a carte e ai cavalli con gli amici nei caffè. Si sente un argentino, se non fosse che periodicamente riceve lettere dalla Polonia, dove vivono la madre e il fratello medico. Ogni tanto scrive, ma senza troppa convinzione (anche per ragioni economiche): «Mamma, ti porterò in Argentina». Gli anni passano e si complicano finché, agli inizi del 1940, Vincente riceverà una lettera dalla madre che racconta degli occupanti tedeschi che hanno rinchiuso gli ebrei di Varsavia in un quartiere circondato da muri e filo spinato, la fame, le vessazioni, i morti per le strade… A quella lettera ne seguiranno alcune altre sempre più drammatiche con la richiesta di aiuti in denaro per sopravvivere.

Inizialmente, nella lontana Argentina, si sapeva poco di quanto stava accadendo in Europa, assieme alla guerra: Witold Gombrowiz, ad esempio, nel suo diario privato Kronos (il Saggiatore, 2018), non ne parla mai. Un po’ alla volta però giungono le notizie di deportazioni e massacri. Non è più possibile ignorare quello che, anche negli Stati Uniti, molti si rifiutarono di sapere: «Vincente avrebbe potuto sapere, ma era difficile saperlo», spiega oggi suo nipote. Quando non arriveranno più lettere dalla Polonia e i giornali inizieranno a raccontare nei dettagli, Vincente torna a sentirsi nuovamente ebreo e allo stesso tempo un traditore, perché non si trova dove avrebbe dovuto trovarsi. Ma questa presa di coscienza di una tragedia che lo riguarda personalmente, fa crescere in lui l’angoscia e il senso di dolorosa impotenza, oltre al rimorso per non poter salvare la madre. Il suo cervello quasi si rifiuta di sapere e prega Dio che, nel caso sua madre fosse stata arrestata, «sia riuscita a tenersi il suo scialle rosa». Quello scialle, diventato così importante, fa ricordare quello che dà il titolo al bellissimo racconto della scrittrice americana Cynthia Ozik (The Shawl, 1989; Garzanti 1990, Feltrinelli 2003).

Il Ghetto, e tutto quello che rappresenta, gli penetra dentro. Per reazione Vincente diventa muto: non parla più con nessuno, nemmeno in famiglia. Muto per il dolore e anche per l’incapacità di definire, con gli altri e con se stesso, la terribile enormità di ciò che si stava perpetrando in Europa. Sente di non saper più cosa siano le parole e a che cosa servano: «Le parole cozzano l’una contro l’altra, e se a volte componevano frasi che riusciva a capire, pensieri che riusciva a seguire, per lo più quelle parole combattevano fra loro e cadevano sconfitte sul marciapiede, formando macchioline scure come scarafaggi che si mescolavano alle deiezioni chiare o verdastre dei piccioni. Vincente camminava e guardava quelle parole morte, penose, miserevoli e diceva tra sé e sé che doveva assolutamente smettere di parlare». Amigorena scrive che non si può dare un nome all’orrore, al male assoluto: «Non solo per Vincente, ma per tutti, è stato difficile dare un nome a quel fatto. All’inizio non si chiamava né shoah né olocausto. All’inizio non si chiamava in nessun modo. Si parlava di “fatto”, di “catastrofe”, di “cataclisma”, di “disastro”, poi si è parlato di “ecatombe”, di “apocalisse”. Solo i nazisti l’avevano chiamata “soluzione territoriale” e poi “soluzione finale”». Un “crimine senza nome” lo chiamò Churchill.

Come scrisse Primo Levi, la Shoah è indicibile. E il senso più emblematico della tragica assurdità di ciò che accadde sta proprio in un brano di Levi (da Se questo è un uomo, 1947, 1958), che Vincente lesse molti anni dopo: «Spinto dalla sete, ho adocchiato, fuori dalla finestra, un bel ghiacciolo a portata di mano. Ho aperto la finestra, ho staccato il ghiacciolo, ma subito si è fatto avanti uno grande e grosso che si aggirava là fuori, e me lo ha strappato brutalmente. – Warum? – gli ho chiesto nel mio povero tedesco. – Hier ist kein Warum (Qui non c’è un perché) – mi ha risposto, ricacciandomi dentro con uno spintone».

E non c’è un perché anche nel fatto che le tragedie ritornano ciclicamente. Vincente Rosenberg è morto nel 1969 senza forse aver mai saputo che sua madre fu ammazzata nelle camere a gas di Treblinka II e che suo fratello e la cognata perirono combattendo nell’insurrezione del Ghetto di Varsavia. Suo nipote Santiago racconta, nel capitolo finale, che fu costretto anche lui a fuggire con i suoi genitori dall’Argentina, dopo il golpe dei sanguinari militari nel 1976. Tornarono in Europa per stabilirsi a Parigi, dove lui è diventato uno scrittore francese: «La Shoah fa parte della nostra storia generale: definisce in modo intollerabile il concetto umano. Per anni ho conosciuto questa storia a distanza: ho visto film e fotografie, ho letto saggi e racconti, ho provato orrore, mi sono fatto domande senza risposta. Poi ho capito che la mia bisnonna era morta laggiù e che quella storia era anche la mia storia: la storia del mio sangue».

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).