Fare Monti, da sinistra

Nessuno si lasci andare a crisi di nervi. Sì, per tranquillizzare gli osservatori mondiali il presidente del consiglio ha spalancato la porta all’ipotesi di succedere a se stesso nel prossimo aprile, all’indomani di elezioni che non abbiano prodotto maggioranze nette; o nel caso, possibilissimo, che una coalizione di maggioranza lo chiami a proseguire nel compito “tecnico”.
Non è un dramma: è una ottima notizia. Non è un golpe tecnocratico: è una importante variante del gioco democratico. Non è una sconfitta dei partiti: è una vittoria di quei partiti che un anno fa decisero di rinunciare a un bottino elettorale a breve per dare sostegno e fiducia alla missione a medio termine di Mario Monti.
Oggi quella missione è universalmente considerata un successo italiano. Un successo di Napolitano e Monti, e della comunità politica, sociale e civile che quella missione l’ha sostenuta e, quando necessario, corretta.

Se fosse vero che l’incoraggiamento a Monti è venuto da Obama, questo non dovrebbe essere per i democratici un fatto secondario. Non per culto della personalità o per subalternità, ma in coerenza con tante affermazioni sulla necessità di una politica superstatale coordinata e, in quanto tale, sufficientemente forte da contrastare le dinamiche impazzite della speculazione finanziaria.
Per chi a sinistra non voglia ribaltare le politiche montiane (e nel Pd di pazzi così non ce ne sono), il tema vero è conquistare a quelle politiche ciò che manca loro: un più netto indirizzo sociale; un’ampia, convinta e maggioritaria legittimazione democratica. Alle elezioni, ha ragione Bersani, non può essere sottratta un’oncia del supremo valore decisionale.
Andare alle elezioni con una “propria” proposta Monti, però, non solo non sarebbe una rinuncia: sarebbe un atto di coerenza.

Per semplificare: abbiamo come risorse lo stile, la competenza e il carisma internazionale di Monti; la passione, la generosità e la sensibilità popolare di Bersani; la carica innovativa, la rottura generazionale e l’appeal verso i nuovi elettori di Renzi.
A noi questo sembra un triangolo di forze potente. In linea non solo con le scelte che il Pd ha fatto fin qui, ma col profilo generale e nazionale del partito.
Se qualcuno pensa che questo campo di forze sia vincente e utile per il paese (e magari non lo dice, rinviando l’operazione-verità a dopo le primarie o a dopo le elezioni), dovrebbe invece dirlo oggi. Trovare il modo di attivare il necessario processo politico per trasformare un’ipotesi in proposta elettorale (altro che espropriazione della politica: questa sarebbe alta politica). Si tratta di mettere il Pd in pole position verso la stagione della ricostruzione, ovviamente in raccordo con altri partiti ma evitando di farsi superare da qualcuno meno legittimato e più furbo. E si tratta di tagliare fuori la destra berlusconiana, che è in contraddizione con le scelte necessarie all’Italia.

Le primarie sono nel dna del Pd. Certo, se nessuno pensasse, in cuor proprio, che servano a scegliere il vero candidato premier, potrebbero essere rinviate alla fase congressuale. In alternativa, ai due candidati principali toccherà pronunciarsi, e misurarsi, più che su stessi sull’ipotesi di governo per l’Italia che da ieri è tornata a dominare sulla scena politica.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.