Sette pensieri sulle elezioni inglesi, e uno sull’Italia

  1. La vittoria di Cameron è troppo ampia per essere spiegata solo con l’ultimo aggressivo spezzone di campagna elettorale, tutto puntato sulla demonizzazione del possibile accordo di governo tra Labour e SNP. E non basterà neanche tornare a prendersela con lo scarso appeal di Ed Miliband. Chiaramente gli inglesi vogliono vedere «il lavoro finito», apprezzano la ripresa economica britannica (in effetti, la migliore del continente), confidano che i preannunciati ulteriori tagli di spesa pubblica non siano così tragici come li dipingevano i laburisti. Nel successo Tory non c’è solo il rimbalzo favorevole dell’esplosione scozzese: Cameron ha surclassato direttamente Miliband in tutti i collegi marginali delle contee inglesi. Negli scontri diretti i Tories migliorano anche dove già erano in vantaggio. Alla lunga, probabilmente, ha pagato il tentativo di Cameron di scrostare dal vecchio partito Tory la patina di partito classista ed elitista: sono ritenuti mediamente affidabili, non più i truci architetti della macelleria sociale del passato.
  2. Analogamente, l’analisi della brutale disfatta laburista – resa più drammatica dal fatto di essere totalmente inattesa – non può fermarsi alla figura del suo leader. Anche perché tutti, anche i critici, ne avevano apprezzano la crescita nella battaglia elettorale. Non c’è bisogno di essere nostalgici di Tony Blair (disclosure: io lo sono) per ragionare sul fatto che dal momento della sua uscita da Downing Street è calata la notte su un partito che ha raccontato la più avvincente e vincente storia politica degli anni ’90. È come se il pentimento per la guerra irachena e per quella stagione in generale si sia trasformato in penitenza, ripiegamento su se stessi. Non sarebbe giusto dire che il Labour è tornato ai suoi terribili e super-ideologici anni ’80 (anche se le percentuali elettorali sono più o meno quelle), ma evidentemente ha perso la chance – decisiva per essere competitivi – di rappresentare interessi più ampi della propria tradizionale base elettorale. Ha perso la Middle England: guarda caso, magnifica ossessione blairiana.
  3. Senza la Scozia la storia ora sarebbe completamente diversa, naturalmente. Una nazione di cinque milioni di abitanti si conferma il più appassionante rebus politico europeo. La vittoria di Nicola Sturgeon, leader-rivelazione della campagna elettorale, era largamente preventivata. Ma non nelle sue mostruose dimensioni (sono sfuggiti allo SNP solo tre collegi scozzesi su 59) né nelle sue implicazioni. Togliere oltre 40 seggi al Labour è letteralmente un assassinio politico. Che però lascia gli indipendentisti con un problema serio: speravano di obbligare i laburisti a una coalizione dalla quale avrebbero ricavato il massimo, stando ben dentro la politica di Westminster, ora sono i padroni di una enorme roccaforte teoricamente irriducibile al dialogo col futuro governo Cameron. Tra Scozia e Inghilterra pare riaprirsi il fossato che il No al referendum secessionista del settembre scorso sembrava aver colmato (tanto più se poi fosse arrivato il pieno coinvolgimento dello SNP nelle scelte di governo nazionali). Una controparte di estrema sinistra, pacifista, separatista: che cosa di peggio per un gabinetto Tory? Eppure Cameron dovrà adempiere alle promesse fatte dopo il referendum di settembre. E forse la sua posizione, enormemente rafforzata, gli darà la possibilità di tenere a bada la propria destra interna non solo sul tema della devoluzione di poteri a Edimburgo ma anche su quello, cruciale, del preannunciato referendum sulla permanenza nella Ue, altro bollente punto di rottura con la super-europeista Scozia: Cameron indirà il referendum ma solo per condurre una campagna, probabilmente vincente, per rimanere in Europa a condizioni ricontrattate.
  4. Appena un anno fa, dopo le elezioni europee, la “storia” politica del momento era il 26,8 per cento dell’Ukip, primo partito del Regno Unito. Nigel Farage era l’uomo del giorno, terrore delle cancellerie europee. L’ondata s’è già placata. Non solo per l’impietoso sistema elettorale britannico, che fa corrispondere a un solo seggio conquistato un comunque deludente 12 per cento. Ma perché Farage oltre a non essere stato neanche eletto sembra adesso proprio out of touch, e il trionfo conservatore è per lui il peggiore risultato possibile. Lezione: se tenuta ai margini e contrastata anche dai moderati, la destra anti-europeista e xenofoba vale dappertutto in Europa quel 10-15 per cento e non può incidere più di tanto nelle politiche nazionali, neanche quando tocca le vette del Front National francese.
  5. Il ragazzo rivelazione delle elezioni inglesi del 2010 esce già di scena. Appena dopo averli portati in cielo (e a Downing Street), Nick Clegg precipita i LibDem nell’abisso della quasi-sparizione. La convivenza con Cameron s’è rivelata devastante, a dimostrazione che alcune regole non scritte del bipolarismo inglese rimangono comunque valide anche se questo sistema subisce continui assalti. La domanda di innovazione che era contenuta nel successo di Clegg di cinque anni fa non può però essere scomparsa, Cameron l’avrà solo parzialmente riassorbita: questa è una traccia da seguire per il Next Labour.
  6. Fa enorme scalpore la caduta di pezzi da novanta del Labour come il coordinatore della campagna Douglas Alexander (in Scozia, era in parte preventivato, a opera di una studentessa ventenne che sarà la più giovane deputata del Regno) e soprattutto il ministro ombra del Tesoro Ed Balls (nel collegio di Morley and Outwood nello Yorkshire ex-rosso, a opera di una quarantenne insegnante di musica conservatrice). Balls è stato un protagonista assoluto degli ultimi vent’anni di storia laburista: strenuo oppositore di Blair, braccio destro di Gordon Brown, uomo forte dell’era Miliband. La caduta sua e del più morbido Alexander segnano, in attesa delle previste dimissioni del leader, la definitiva fine di un’epoca. Ora c’è tutto da ricostruire nel Labour Party, presumibilmente su una linea liberal-democratica anche se ci sarà chi obietterà che il voto scozzese spingerebbe da tutt’altra parte. I giornalisti a Manhattan sono alla caccia di David Miliband, il fratello post-blairiano che Ed sconfisse per un pugno di voti nelle primarie per la leadership del 2010: ma David è uscito dalla politica, è al vertice di una grossa charity americana. Il suo rientro sarebbe tanto clamoroso (e benvenuto dal sottoscritto) quanto improbabile: la saga familiare dei Miliband non pare riproponibile per gli inglesi. Soprattutto, nessuno può giurare su quale sia la direzione giusta per riprendersi dallo shock. Alastair Campbell, lucido combattivo e tribale ex braccio destro di Blair, consiglia di prendere tempo. E in effetti il povero Labour ne ha, davanti a sé, per leccarsi le ferite. La scommessa più intrigante ha il nome e il colore della pelle di Chuka Umunna, figlio di padre nigeriano e madre inglese, carismatico non ancora quarantenne ex avvocato e ministro ombra delle attività produttive (diremmo noi). C’è bisogno di aggiungere altro? Ricorda qualcuno di conosciuto?
  7. Sui sondaggi che dire? Che evidentemente dalle parti dei più accreditati istituti multinazionali non si salva più nessuno, in nessun paese. A Londra già si parla di cause milionarie, intentate da grandi network contro istituti che per mesi, fino allo stesso giorno del voto, avevano accreditato uno scenario di parità tra Labour e Tory totalmente irreale. Ma la causa più grossa dovrebbe farla Ed Miliband, il ragazzo al quale avevano fatto credere qualcosa che non esisteva.
  8. Ultima annotazione, tutta casalinga. Riguarda sistema politico e sistema elettorale. In Italia i necrologi del bipolarismo erano già scritti: se perfino nel Regno Unito sono costretti per due legislature consecutive a formare governi di coalizione, perché qui dovremmo spingere nella direzione opposta? La polemica si alzerà in ogni caso, ma almeno non potrà appoggiarsi su Westminster. Anzi: le elezioni inglesi (e la reazione dei mercati in tutta Europa) dimostrano che la vittoria chiara di un partito è un fattore di stabilità comunque positivo, da preferire alle contraddizioni inevitabilmente connesse alla nascita di complesse coalizioni: i Tories non avevano tutti i torti, e gli elettori sembrano proprio aver dato loro ragione, quando nelle ultime settimane insistevano sul pericolo insito nell’eventuale alleanza di governo tra laburisti unionisti e indipendentisti scozzesi. Quanto al sistema elettorale: anche stavolta, come in tutte le elezioni inglesi passate, qualcosa come il 70 per cento dei voti espressi si rivelerà “inutile”. O perché sono voti andati nei collegi a candidati non eletti, o perché sono voti inutilmente aggiuntivi a quanto bastava ai candidati eletti per vincere. Inoltre, in favore dei Tories scatta un premio di maggioranza implicito nel sistema First past the post calcolabile intorno al 15 per cento, a partire da una percentuale di voti reali del 36 per cento: più forte dunque di quello previsto dall’Italicum. Il sistema elettorale è sempre molto discusso nel Regno Unito per evidenti limiti nella rappresentanza che determina, ma appena quattro anni fa un quesito referendario per modificarlo venne ampiamente respinto. E soprattutto nessuno, proprio nessuno, si sognerebbe mai di dire che gli inglesi hanno una legge elettorale “fascista”. O anche solo autoritaria.
Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.