Contestate tutti

Ieri le iniziative pubbliche sull’otto marzo erano ufficialmente due (il comitato «Se non ora quando» e i collettivi femministi) ma il Berlusconi era uno solo, e funzionava come le lepri meccaniche al cinodromo durante le corse dei cani. L’immagine è poco carina e allora per recuperare solennità si passa subito dal Quirinale, visto e considerato che aderire alle parole del Capo dello Stato – vale come regola generale – in Italia è gratis: figurarsi chi avrebbe qualcosa da obiettare a considerazioni tipo che «bisogna dire basta all’immagine della donna oggetto», oppure che le donne sono «lontane» dal raggiungimento della parità, oppure che questo «si manifesta anche con strozzature nell’accesso al mercato del lavoro». Sono cose che Giorgio Napolitano ha detto ieri e che andavano dette ieri: però, ecco, a voler passare per rompicoglioni qualcosa si potrebbe anche obiettare. Per esempio che l’Italia – sorpresa – è al primo posto in Europa nella parità dei salari. Un rapporto dell’Unità europea, ripreso ieri dalla Stampa, spiega che le donne italiane hanno la busta paga più «maschia» d’Europa e infatti le signore e le signorine, da noi, guadagnano appena il 4,9 per cento in meno degli uomini. La media del divario retributivo, nel resto del Continente, è del 18 per cento. Naturalmente si possono obiettare molte cose: una è che il peso del lavoro femminile, in Italia, è più basso rispetto al totale (solo una signora su due è occupata) e ne consegue che le donne della Penisola che hanno un impiego sono giocoforza le più preparate. Ma è meglio di uno schiaffo in faccia, considerando che in Germania un uomo guadagna mediamente il 23 per cento più di una donna e nel Regno Unito il 21,4 per cento, mentre in Francia va appena meglio: il 19,4. I nostri problemi sono altri: per esempio che solo il 34 per cento delle italiane usa l’email (la metà di olandesi e inglesi) e che solo il 12 per cento sa gestire un conto corrente online: ma i maschi italiani non è che siano messi molto meglio. Insomma, la questione non è la solita del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto: però chissà, forse qualcosa di più ottimista Giorgio Napolitano poteva anche dirlo.

Anche perché, intanto, le piazze politiche sull’otto marzo orbitavano in tutt’altro sistema solare. Avercela con Berlusconi è legittimo, manifestare contro di lui pure; ci vuole anche un bel coraggio per negare che certa immagine del Cavaliere abbia fatto bene alle donne italiane, così come hanno sfiorato apertamente il grottesco quelle donne del Pdl – aveva ragione Caterina Soffici sul Fatto di ieri – che sabato scorso si sono chiuse in una sala a raccontarsi che loro sono state elette solo per competenza e per capacità. Resta il fatto, appunto, che la politicizzazione delle manifestazioni ha impedito l’adesione di chiunque volesse manifestare a favore di qualcosa e non, necessariamente, contro qualcuno. E per una volta, a volersi schierare proprio con la pistola alla tempia, apparivano assai più giustificati quei collettivi femministi che hanno rivendicato perlomeno un po’ di sostanza politica vera: i consultori, la legge 40, la pillola Ru486, tutte cose che questo governo non ha certo in simpatia. Il comitato novello «Se non ora quando», quello che il 13 febbraio scorso ha fatto la manifestazione che sappiamo, si è mosso con lo slogan «né strega né bigotta, né barbie né mignotta» e annoverava tutta la compagnia di giro de l’Unità, per capirci: con Lidia Ravera vestita da oca (con piume vere, ha detto) e il terribile rischio che nessuno notasse la differenza. L’Unità è quella che ieri, a pagina 4, titolava «Uomini, tocca a voi, ribellatevi a Berlusconi» e poi, a pagina 36, pure titolava «Ragazze di tutto il mondo, adesso contestate». Cioè: contestate tutti.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera