Che avrà voluto dire Kafka?

La sottosegretaria leghista ai Beni Culturali, ospite di una trasmissione radio, ha detto di non leggere un libro da tre anni ma «l’ultima cosa che ho riletto per svago è Il castello di Kafka». Anche se una volta ho pubblicato un testo nel quale parlavo dell’ironia in Kafka (“Doppiozero”, 03/01/2016) non so francamente se lo scrittore praghese possa essere letto, o riletto, “per svago”. Ma più passano i miei anni e più mi convinco che ai suoi lavori occorra sempre tornare (lo ha fatto recentemente, in modo originale, un mio amico indagando su La metamorfosi e le sue traduzioni). Kafka è una miniera inesauribile di storie e pensieri in gran parte ancora da comprendere.

C’è un breve racconto di Kafka, intitolato Un vecchio foglio (Ein altes Blatt), originariamente scritto e pubblicato nel 1917, che, soprattutto di questi tempi, ha qualcosa di inquietante.
Va tenuto presente anzitutto che Kafka lo compose nel pieno di una guerra che stava portando al definitivo dissolversi dell’impero austro-ungarico, in una Praga paralizzata dalla fame e dalla mancanza di carbone. Però, in una lettera al suo editore Kurt Wolff (datata 07/07/1917), Kafka scrisse: “In questo inverno tutto mi è stato un poco più facile. Le invio qualcosa fra gli scritti utilizzabili nati in questo periodo, 13 prose. L’insieme è assai lontano da ciò che in realtà voglio”. Queste prose confluiranno nella raccolta Un medico di campagna (Ein Landartz), pubblicata probabilmente nel 1920. L’inizio del racconto è un’amara denuncia della situazione politica da parte dell’io narrante, un calzolaio con bottega nella piazza dove si affaccia il Palazzo dell’imperatore: «Sembra che molto sia stato trascurato nella difesa della nostra patria. Finora non ce ne siamo curati e ci siamo dedicati al nostro lavoro; ma gli eventi degli ultimi tempi ci preoccupano» (uso la traduzione di Andreina Lavagetto nel volume Franz Kafka, La metamorfosi e tutti i racconti pubblicati in vita, Feltrinelli 1991, pp. 158-160).

La piazza, improvvisamente e incomprensibilmente, è stata occupata da una folla di nomadi provenienti dal Nord. Si sono accampati lì, fanno rumore e sporcano. Con loro non si può parlare perché non conoscono la “nostra lingua”. E la loro non si può dire che sia una lingua:

«Fra loro si intendono come fanno i corvi. In continuazione si sente questo gridare di corvi. Il nostro modo di vivere e le nostre consuetudini sono loro altrettanto incomprensibili quanto indifferenti (…). Spesso fanno smorfie: allora gli si rovesciano gli occhi e gli esce la schiuma dalla bocca, ma con questo non vogliono dire nulla né incutere spavento; lo fanno perché è il loro modo di fare. Quello che gli serve, se lo prendono».

Un po’ alla volta gli stranieri prendono, incontrastati, il controllo della città. ll senso di impotenza dinanzi alla loro occupazione, e alla necessità di nutrirli per tenerli buoni, cresce col procedere del racconto, fino all’episodio dell’assalto al bue vivo del macellaio che viene sbranato e divorato crudo, mentre l’Imperatore, forse, guarda mestamente dalla finestra del suo palazzo.
Il finale del racconto rimane aperto, ma contiene una sorta di amara presa di coscienza della classe media: «”Cosa accadrà?” ci chiediamo tutti. (…) A noi artigiani e commercianti è affidata la salvezza della patria; ma noi non siamo all’altezza di un simile compito; né mai ce ne siamo vantati. Si tratta di un malinteso; e questo malinteso è la nostra rovina».

Così, cento anni fa, Kafka descrisse perfettamente la paura dello straniero, la sua trasfigurazione in un mostro (al quale non si riconosce nemmeno il diritto ad avere una lingua umana) e il disagio e la frustrazione dei bottegai dinanzi alla latitanza dello Stato. L’uomo medio (rappresentato qui dal calzolaio e dal macellaio) soffre l’impotenza muta dell’Imperatore e desidera l’”uomo forte” che lo difenda dagli estranei e riporti la “normalità”. Il silenzio dell’Imperatore e del potere che lascia a se stessi i cittadini, è la manifestazione e la conseguenza di ciò che, alcuni decenni prima prima, con l’avvento della società di massa, è accaduto quando è andata in frantumi l’autorità dei padri.

La raccolta di racconti, che contiene Un vecchio foglio, doveva, nei desideri di Kafka, essere dedicata a suo padre. Ma, proprio nell’autunno del 1919, Kafka scrisse una Lettera al padre (Brief an den Vater, trad. it. F. Kafka, Lettera al padre, Feltrinelli, 1991, pp.75-95.) che, com’è immaginabile, non venne mai consegnata al destinatario. Si tratta di un testo bellissimo e prezioso per capire come fossero i “padri patriarcali” e la crisi di un certo tipo di autorità che garantiva uan certa coesione sociale. Kafka, inizialmente, descrive il padre come una specie di dio, che lo sovrasta anche dal punto di vista fisico, e gliene dà ripetutamente atto: «tu eri per me la misura di tutte le cose»; «era già sufficiente a schiacciarmi la tua sola immagine fisica»; «come padre sei troppo forte per me»; «mi bloccano la paura di te e le sue conseguenze». La diversità tra di loro è la fonte del dolore («eravamo così pericolosi l’uno per l’altro») e di una situazione insostenibile («la sensazione di nullità che spesso mi domina ha origine in gran parte dalla tua influenza»). Però quell’autorità, fortunatamente!, non regge più al confronto con il mondo moderno, dove un figlio, avendo la possibilità economica di studiare, si emancipa e non riesce più (nonostante gli voglia bene) a sottostare a un’autorità eccessiva e indiscutibile («ai miei occhi hai l’aspetto enigmatico dei tiranni»). La vergogna e le umiliazioni diventano insopportabili per un figlio ormai adulto e persino la paura della violenza fisica irrilevante: «Le continue minacce produssero una sorta di indifferenza; e la certezza di non essere picchiati era diventata, col tempo, più sicura». Caduta la maschera di un’autorità arcaica e insostenibile, agli occhi del figlio appare una figura meschina (come lo sono sempre i dittatori quando vengono detronizzati): «Cominciai ben presto a osservare e a rilevare in te alcuni lati ridicoli, li elencavo e li esasperavo».

Il vecchio potere e la tradizionale autorità paterna appaiono anacronistici e grotteschi, ma provocano, nel vuoto che lasciano, un profondo disagio: «Avevo perso la fiducia in me stesso sostituendola con un immenso senso di colpa». Franz Kafka vive l’inizio di un tragicomico periodo d’incertezza e immaturità che non è ancora finito. Il suo calzolaio ha paura di tutto ciò che è diverso, lo sente come una minaccia, prova fastidio per il la confusione, che accresce la sua insicurezza e il suo impotente senso di colpa: sogna il ristabilimento dell’ordine e la cacciata degli stranieri, senza saperne il prezzo. C’è ancora un malinteso sul male del mondo.

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).