Caso Eternit: la prescrizione non è il problema

Prima di valutare il disastro processuale del caso Eternit, ma soprattutto per attrezzarsi ad affrontare l’inevitabile profluvio di parole (con correlati disegni di legge acchiappa-consenso) che arriverà in tema di prescrizione sull’onda emotiva di quanto accaduto in Cassazione, è opportuno chiarire due equivoci di fondo.

Primo: la prescrizione è un istituto nobile e di civiltà, con solide basi costituzionali, ed è presente, seppur con diverse modalità operative, in tutti i paesi evoluti, tanto nei sistemi di civil law, come il nostro, quanto in quelli di common law. Ciò che rende la prescrizione in Italia un incubo (come l’ha definita Renzi) sono i meccanismi di computo del tempo trascorso, che furono oggetto di ignobili leggi ad personam in epoca berlusconiana e che grazie alle lungaggini processuali diventano viatico di impunità. Quella roba lì, che evidentemente va emendata, non ha nulla a che fare con l’azzeramento del processo Eternit. I reati nel caso erano prescritti prima di iniziare il processo.
Nessuna delle meritorie riforme depositate in parlamento in tema di prescrizione, neppure quelle più rigorose auspicate dalla magistratura, avrebbe evitato l’esito nefasto sancito dalla Corte nel caso Eternit.

Secondo: il problema nel caso Eternit risiede in una evidente carenza normativa, di diritto sostanziale, in tema di disastri ambientali, e forse in una scelta comprensibile ma rivelatasi errata da parte della Procura di Torino.

I reati contestati ai vertici Eternit, “omissione dolosa di cautele anti-infortunistiche” (art.437 c.p.) ed il residuale reato di “disastro innominato” (art.434 c.p.), erano prescritti prima ancora che il processo di primo grado avesse inizio. Questo perché tecnicamente quei “delitti di comune pericolo” – così li chiama il codice penale del 1930-, non sanzionano affatto gli effetti del disastro o degli infortuni (che nella vicenda Eternit accadono oggi!), ma unicamente le condotte di chi mette concretamente in pericolo la pubblica incolumità. Quei delitti si consumano all’epoca della condotta o al più nel momento in cui il disastro si manifesta. E’ una questione tecnica che risponde però a ferree regole di diritto che si traducono, nel complesso sistema del diritto penale, in garanzie fondamentali per tutti i cittadini.

Provo a fare un esempio, con tutti i limiti dell’analogia, per tentare di esser chiaro e per far capire perchè la Cassazione, a fronte delle reazioni suscitate dalla sentenza, ha sentito la necessità di fare un comunicato stampa precisando che nel processo non si è occupata delle lesioni e degli omicidi dovuti all’amianto. Immaginiamo di metterci alla guida di una vettura coscienti di esser in stato di ebrezza. Quella condotta è un reato che pone in pericolo la pubblica incolumità ed è sanzionato con un po’ di galera. Se poi il pericolo si concretizza, e da ubriachi cagioniamo un incidente, la pena sarà aggravata e più severa, ma sempre nell’ambito dal reato di guida in stato di ebrezza. Se in conseguenza di quell’incidente perdono la vita una, due o dieci persone, magari dopo mesi di coma, dovremo rispondere di un altro reato, ovviamente diverso dalla guida in stato di ebrezza, che sarà l’omicidio, doloso o colposo a seconda delle circostanze del fatto. E questo più grave reato si sarà consumato nel momento dell’evento morte delle vittime, non nel momento in cui si guida ubriachi.

Con l’azzardo di seguire l’esempio (e con le dovute cautele), la Procura ha contestato ai vertici Eternit la guida in stato di ebrezza aggravata dall’incidente, ma non i reati di lesione ed omicidio che a cagione di quelle condotte si sono consumate e si consumano oggi.

E’ del tutto evidente che parlare di prescrizione per decorso del tempo nel disastro ambientale Eternit, in faccia a famiglie che piangono oggi i loro cari, ed anzi a persone malate, destinate a subire il proprio omicidio ad orologeria nei prossimi anni è un assurdo logico prima che giuridico. Il punto è che i delitti contestati e di cui si sono occupati i giudici nel processo non coprono il disvalore sociale di quel dramma attuale, ma solo alcune condotte prodromiche che, per come sono formulate le fattispecie contestate risalenti al codice del 1930, esauriscono il loro disvalore sulla soglia del disastro. E quei reati erano prescritti prima ancora di iniziare.

A questo punto sorge credo spontanea una domanda: perchè non sono stati contestati da subito, ai vertici Eternit tutti gli omicidi e tutte le lesioni in atto, e la Procura di Torino, con complesse ed ardite tesi che hanno parzialmente retto nei giudizi di merito ma che si sono infrante di fronte alla Corte di Legittimità, ha tentato di ampliare oltre il consentito la portata repressiva di reati evidentemente fragili e certamente inadatti a sostenere un processo colossale (con migliaia di parti civili) come quello incardinato per il disastro ambientale Eternit?

La risposta è complessa e per la verità la domanda dovrebbe esser rivolta al P.M. Guariniello, ma azzardo un’interpretazione. Ogni singola morte ed ogni singola malattia reca una storia a sé, ed ogni singolo reato di lesione o omicidio, per quanto cagionato da unica condotta, presenta complessità proprie quanto ad insorgenza della malattia, alla causalità, al luogo di consumazione del reato e dunque alla competenza. Inoltre, sebbene la capacità delinquenziale degli imputati sia emersa nella sua sconvolgente crudezza dal processo già celebrato per il disastro, non è semplice sostenere che Stephan Ernest Schmidheiny, l’ultimo imputato rimasto, volesse intenzionalmente uccidere, dolosamente, tutte le vittime della sua attività imprenditoriale/delinquenziale. La tesi del dolo eventuale, cara alla Procura di Torino, non è tesi semplice e non ha retto ad esempio nel processo per la strage della ThyssenKrupp. Il rischio che la frammentazione del processo in centinaia di rivoli potesse far perdere incisività all’azione e potesse non rispondere adeguatamente in termini repressivi e retributivi alla gravità del fatto commesso era ed è reale.

La Procura di Torino, che con il P.M. Guariniello è divenuta icona di giustizia per questo tipo di reati, per rispondere alle elevate e legittime aspettative di giustizia delle vittime, si è spinta troppo avanti, a cercare nell’ordinamento un reato che non c’è: il reato di disastro ambientale. Ma quel delitto non era stato colto dal legislatore nel 1930, ed oggi oggettivamente vi è un vuoto; vuoto che però nessun giudice, per quanto spinto dalle migliori intenzioni, può autonomamente colmare. E’ compito del legislatore.

Scriveva un grande giurista tedesco, Karl Binding, agli inizi del ‘900 nel descrivere il principio di frammentarietà del diritto penale:

Il legislatore tra le onde della vita quotidiana lascia giocare avanti ai suoi piedi le azioni, che dopo raccoglie con mano pigra, per elevarle a fattispecie delittuose a causa della loro intollerabilità. In principio egli ne percepisce soltanto le forme di manifestazione più grossolane. Ciò che è più sofisticato e raro, pur quando esiste, egli non lo percepisce o non lo sa cogliere. Questo spesso ha un contenuto illecito più grave di quanto è già stato sanzionato.”

I Giudici della Cassazione, soggetti solo alla legge, con un coraggio davvero notevole, hanno tenuto fermo il principio di legalità e tassatività, per evitare che ciò che oggi appare dettato da giustizia potesse domani esser fonte di abuso.

Ora però tocca al legislatore: il caso Eternit ha evidenziato in modo grossolano, e dunque auspicabilmente percepibile dai nostri parlamentari, la necessità di prevedere un reato di disastro ambientale in grado di contenere al suo interno la reale offensività delle ferite all’ambiente ed alla salute che oggi conosciamo.

Purtroppo vedo solo politici che si sbracciano sulla prescrizione, che con il caso Eternit, come visto, ha poco a che fare, ma è più semlice, mediaticamente, da sfruttare sull’onda emotiva dell’equivoco.

Carlo Blengino

Avvocato penalista, affronta nelle aule giudiziarie il diritto delle nuove tecnologie, le questioni di copyright e di data protection. È fellow del NEXA Center for Internet & Society del Politecnico di Torino. @CBlengio su Twitter