Arguto

Arguto riassume in sé diverse qualità, difficili da concentrare in una sola parola: una frase, una battuta, un’osservazione arguta sono il prodotto di chi sappia cogliere in modi amabili, attraenti e maliziosi, con originalità, prontezza di spirito e un’intelligenza sottile e divertita al limite dell’umorismo (facendoli risaltare, mettendoli a fuoco, evidenziandone la singolarità o la particolare condizione, ecc.), un aspetto del reale, un determinato comportamento, una certa situazione e molto altro ancora.

Chi è arguto è un amabile, gradevole, piacevole, dilettevole conversatore; una persona briosa, brillante o frizzante, scherzosa o spiritosa; un fine o acuto ironista, pungente, mordace, salace quanto basta (tagliente, e ancor più caustico o sferzante, sarebbe esagerato); un soggetto dall’intelligenza vivace (o viva), e non eccessivamente ingegnoso (come chi fosse invece giudicato sagace oppure callido, per usare un termine dell’italiano letterario). Un vocabolo in dotazione all’italiano corrente che si potrebbe accostare ad arguto, insieme a lepido (anch’esso di tono letterario), è faceto. Quest’ultimo aggettivo, però, attribuisce a sua volta all’ingegnosità un peso maggiore di quello che le riconosce arguto.

Alla base di arguto c’è il latino argutus, un derivato di arguĕre (“dimostrare”, “provare”, “sostenere”, e poi “palesare”, “rivelare”, “indicare”, ecc.) dai significati piuttosto numerosi (“vivace”, “brioso”, “espressivo”; “stridulo”, “acuto”; “canoro”, “sonoro”; “chiaro”, “evidente”; “penetrante”, “profondo”; “astuto”, “malizioso”; “maligno”); Isidoro di Siviglia, nelle Origines, l’avrebbe ricollegato alla lestezza di un parlante nel reperire (invenire) un tema (argumentum): «argutus, quia argumentum cito invenit in loquendo» (X, 6). Arguto nasce nella seconda metà del XIII secolo. Oltre due secoli dopo arriva arguzia, che ha origine dal latino tardo argutia; Baldassarre Castiglione, nel Cortegiano (1528), affida a Federigo Fregoso, uno dei personaggi dialoganti del trattato, il compito di segnalarne la natura di neologismo (libro II, cap. XLIII):

«ho detto nelle facezie non esser arte, perché di due sorti solamente parmi che se ne trovino: delle quai l’una s’estende nel ragionar lungo e continuato; come si vede di alcun’omini, che con tanto bona grazia e così piacevolmente narrano ed esprimono una cosa che sia loro intervenuta, o veduta o udita l’abbiano, che coi gesti e con le parole la mettono inanzi agli occhi e quasi la fan toccar con mano; e questa forse, per non ci aver altro vocabulo, si porìa chiamar «festività», o vero «urbanità». L’altra sorte di facezie è brevissima e consiste solamente nei detti pronti ed acuti, come spesso tra noi se n’odono, e de’ mordaci; né senza quel poco di puntura par che abbian grazia; e questi presso gli antichi ancor si nominavano «detti»; adesso alcuni le chiamano «arguzie». Dico adunque che nel primo modo, che è quella festiva narrazione, non è bisogno arte alcuna perché la natura medesima crea e forma gli omini atti a narrare piacevolmente; e dà loro il volto, i gesti, la voce e le parole appropriate ad imitar ciò che vogliono. Nell’altro, delle arguzie, che po far l’arte? con ciò sia cosa che quel salso detto dee esser uscito ed aver dato in brocca, prima che paia che colui che lo dice v’abbia potuto pensare; altramente è freddo e non ha del bono. Però estimo che ’l tutto sia opera dell’ingegno e della natura»

(Baldesar Castiglione, ll libro del Cortegiano, a cura di Giulio Preti, Torino, Einaudi, 1965, p. 172 sg.)

Le facezie, per il cardinal Fregoso, sono dunque di due tipi: quelle festive (o urbane), dall’ampio respiro narrativo, per l’importanza rivestita dalle modulazioni vocali, e il contributo portato dai gesti alla piacevolezza della narrazione, somigliano a rappresentazioni sceniche; quelle che in passato si dicevano detti, e nel primo Cinquecento taluni chiamano modernamente arguzie, traggono forza espressiva dalla spontanea, fulminea, irriflessa brevità che si aggiunge al loro «poco di puntura». Poco più avanti un altro dei personaggi dialoganti del Cortegiano, Bernardo Dovizi da Bibbiena, anche lui cardinale, porta diversi esempi di facezie condensate in una frase; fra queste i bischizzi (‘bisticci’), che vengono spiegati così (libro II, cap. LXI):

«Un’altra sorte è ancor, che chiamiamo “bischizzi”; e questa consiste nel mutare o vero accrescere o minuire una lettera o sillaba, come colui che disse: «Tu dèi esser più dotto nella lingua “latrina”, che nella greca»

(Baldesar Castiglione, ll libro del Cortegiano, cit., p. 193)

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Vi ripropongo l’elenco delle 30 parole “da salvare”, che abbiamo immaginato qualcuno avesse deciso di cancellare prima del tempo, e vi invito a salvarne una. Fate la vostra scelta nei commenti qui sotto (potete esprimervi una sola volta; se farete una seconda scelta, o una terza, una quarta, ecc., verrà considerata soltanto la prima) e accompagnatela con un commento sul motivo per il quale salvereste proprio quella parola. Nel corso della quarta edizione di Parole in cammino (il Festival della Lingua italiana e delle Lingue d’Italia: Siena, 1-5 aprile 2020), in cui lanceremo la Notte della Lingua Italiana (il 3 aprile), premieremo le motivazioni più belle. Io spiegherò intanto via via le 30 parole, una a settimana.

  1. abulico
  2. afflizione
  3. arguto
  4. becero
  5. bizzarro
  6. blaterare
  7. caustico
  8. coacervo
  9. corroborare
  10. deleterio
  11. elucubrare
  12. fedifrago
  13. fosco
  14. giubilo
  15. illazione
  16. intrepido
  17. laconico
  18. magnanimo
  19. mendace
  20. nugolo
  21. ondivago
  22. preambolo
  23. riottoso
  24. sagace
  25. sbigottire
  26. sbilenco
  27. solerte
  28. sporadico
  29. uggioso
  30. veemente
Massimo Arcangeli

Linguista, critico letterario, sociologo della comunicazione. Si è sempre nutrito di parole, che ama cercare in giro per il mondo.