Alcune verità sulla legge elettorale

Tolti il professor Parisi e Roberto Giachetti, pochi nel Pd se la sentono di criticare la legge elettorale verso la quale ci stiamo avviando.

I democratici promettono di condurre alla camera una battaglia per sostituire i collegi alle preferenze. Sarà un tentativo importante. Si userà l’argomento dei facili inquinamenti nel sistema delle preferenze: giusto, senza esagerare però perché i voti della mafia possono tornare utili anche per vincere in un collegio. Come riconsegnare ai cittadini la selezione dei parlamentari rimarrà comunque un aspetto di contorno rispetto all’essenziale: un proporzionale corretto in senso maggioritario grazie a un premio ridotto e a una soglia di sbarramento aggirabile.

La rassegnazione che si avverte nell’aria rispetto a questa riforma è pura realpolitik: dovendo cambiare la legge nell’attuale parlamento, o così o così Porcellum.
Ci si può arrendere alla realpolitik, a patto di dirci alcune verità.

La prima è che uno dei paletti fissati da Bersani non sarà rispettato. Con questo sistema, la sera delle elezioni sapremo chi avrà vinto. Quasi sicuramente non sapremo chi andrà a palazzo Chigi. Allo stato, due soli leader possono proporre remote ipotesi di successo pieno: Bersani, a patto di far risalire a bordo Di Pietro e quindi di affidare la soluzione della crisi italiana a una coalizione di governo da brividi. Renzi, nell’ipotesi fantapolitica di un Pd che grazie a lui sfonda al centro e lì recupera tanti voti da compensare la prevedibile emorragia verso una sinistra da tenere comunque strettamente coalizzata.
Più realisticamente, questo è il sistema elettorale che certifica la transizione, la riaffida nel migliore dei casi a un governo Monti dotato stavolta di una maggioranza politica, e preannuncia un’ulteriore riforma elettorale a breve. Un quadro che non corrisponde alla promessa riaffermazione del dominio della politica e del ripristino di una democrazia di stampo europeo (se per Europa non intendiamo la sola Grecia).

Non dobbiamo dolercene ora con Bersani. Avremmo dovuto farlo tanto tempo fa. Quando in effetti qualcuno avvertì che il Pd si stava sì stabilizzando, consegnandosi però a un tipo di gioco politico nel quale la sua forza sarebbe sempre stata sotto condizione e sotto ricatto. Se poi oltre tutto dovesse finire a proporzionale con le preferenze, nessuno più da sinistra (fuori o dentro il Pd) si azzardi più a fare lo schizzinoso su Casini: un regalo di queste dimensioni non gliel’hanno certo fatto i nostalgici della vocazione maggioritaria.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.