I love Sophie Kinsella

«Alle ragazzine che eravamo allora io e le mie amiche, i suoi libri suggerivano la possibilità di assumere una postura sicuramente superficiale, ma esistenzialmente efficace. Il mondo è materialista fino al non senso e impossibile da mettere in questione? Bene, ricevuto. Però, sai che c’è? Almeno ci fa divertire»

Sophie Kinsella all'Oxford Literary Festival nel 2018 (Getty Images © 2018 David Levenson)
Sophie Kinsella all'Oxford Literary Festival nel 2018 (Getty Images © 2018 David Levenson)
Roberta Bennato
Roberta Bennato

Redattrice a Roma, ha studiato e si interessa di filosofia, cinema e di tante altre cose. Si ritrova spesso a essere «easily amused and hardly impressed»

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La mia chat con le amiche di infanzia rimaste al paese di solito ospita meme, commenti un po’ pettegoli su conoscenti in comune, dotte discussioni sulle note di testa e di cuore dei profumi, foto di tenerissimi bambini, tentativi di programmare aperitivi e rari link alle notizie perché non ci garba l’idea di commentare guerre e stragi con una faccina triste.

Ma la morte di Sophie Kinsella è stata un’eccezione. La redattrice precaria inurbata, l’avvocato nella città di provincia, la maestra con figli, la bocconiana emigrata a Londra: tutte abbiamo condiviso e commentato con dispiacere la morte della scrittrice di I love shopping. Perché la notizia sì, era triste, ma ci ricordava anche qualcosa di allegro.

Ai tempi delle medie, in una domenica qualsiasi dei primi anni Duemila, i genitori pazienti della mia amica ­– quella che ora fa la maestra e ha due bambini bellissimi – ci portarono a fare una gita a Vigevano. Cercando di tirar sera, entrammo in una libreria di catena sotto i portici della piazza principale. Erano tempi in cui leggevo tanto, ma alla rinfusa, e solo libri della biblioteca. Tra quelli esposti nel negozio la mia attenzione venne attirata da I love shopping in bianco in edizione tascabile Oscar Mondadori, già con la dicitura bestsellers in bella vista. Sulla copertina bianca e argentata il profilo stilizzato di una sposa che riceve un regalo con fiocco in carta rosso sgargiante, abbinato alla parola “shopping”, mi sembrò irresistibile.

Comprarlo sarebbe stato superfluo perché l’avrei potuto trovare gratis in biblioteca al paese. Erano tempi nei quali ogni acquisto non necessario e oltre i cinque euro richiedeva una telefonata a mia madre per l’approvazione. Tentennavo – era primo pomeriggio, immaginavo i miei genitori mezzo addormentati sul divano davanti alla tivù, con in sottofondo i soporiferi e cadenzati swiiing delle Ferrari (in famiglia “Ferrari” veniva usato come sineddoche per dire auto di Formula1). Ma infine mi convinsi: feci la telefonata, ottenni l’approvazione e nel giro di pochi giorni “divorai” il libro, come si dice.

Fecero poi la stessa cosa la mia amica e un’altra amica e altre ancora: ci passavamo i libri della serie, quelli comprati e quelli presi in biblioteca, li leggevamo e li commentavamo insieme, addirittura. Quando un paio di anni dopo sbarcammo alle superiori, tutte in scuole diverse, constatammo con piacere che anche le altre ragazzine erano adepte della serie. I love shopping si era evidentemente guadagnato un posto nel calderone dei riferimenti pop adolescenziali femminili di quel tempo, di cui facevano già parte i libri di Harry Potter e nel quale più tardi sarebbero confluiti quelli di Twilight.

Come ha notato in una storia di Instagram l’influencer Giulia Torelli – aka rockandfiocc, l’unica vera role model per le millennial italiane che seguono la bolla social, altro che Ferragni (ma questo è un altro discorso) – «per le ragazze della mia generazione [ha 38 anni, ndr] I love shopping è stato… posso dire “life changing”? Questa ragazza pazzerella giovane che ama fare shopping, ama la moda e mette in subbuglio la sua vita per colpa dello shopping. Lo so a memoria questo libro».

La sintesi di Torelli è sufficiente per inquadrare il personaggio di Becky Bloomwood, ragazza (ma all’inizio della serie andava già per i trent’anni) imbranata ma in carriera, capace di costruirsi una vita a Londra partendo da un cottage nella campagna inglese e allo stesso tempo completamente in balia della sua ossessione per lo shopping. Capita ancora oggi che io e le mie ormai a tutti gli effetti adultissime amiche (ci ricordiamo spesso a vicenda che, se rimanessimo incinte, finiremmo quasi tra le “gestanti geriatriche”, quando sembrava ieri che una gravidanza ci avrebbe fatto guadagnare l’ingresso nella in qualche strano modo lusinghiera categoria delle “ragazze madri”) ridiamo ricordando alcuni passi dei libri: Becky che è costretta a inventarsi parole in finlandese parlando con un grande capo perché nel tentativo disperato di accaparrarsi un lavoro aveva scritto nel curriculum di essere fluent” nella lingua; Becky che sogna a occhi aperti una sciarpa verde da centinaia di sterline indossando la quale, ne è sicura, tutti inizieranno a chiamarla «la ragazza con la sciarpa» (gliela regalerà Luke, l’uomo d’affari che sposerà in I love shopping in bianco nientemeno che all’Hotel Plaza di New York); Becky che cerca di dissimulare la sua dipendenza dai vestiti di fronte alla sorella fissata con il riciclo e le cose usate (non vintage, proprio usate).

Prima dei voli low cost di Ryanair, sono stati i libri di Kinsella a farci scoprire l’esistenza di posti esotici e pieni di oggetti e vestiti “favolosi” come Space NK, LK Bennett, Marks & Spencer, Barneys, che poi dal vivo si sarebbero rivelati un po’ meno favolosi e un po’ più mundane, ma vabbè… Ma soprattutto sono stati questi libri, con merito o demerito, a formalizzare in una chiave iper contemporanea e iper femminile la voglia di una vita avventurosa, che è così tipica di chi si affaccia alla vita adulta. La caratteristica fondamentale di Becky infatti è l’eccitazione – nel senso dell’inglese excitement – nei confronti della vita. Ma essendo una giovane donna nata e cresciuta in un paese consumista occidentale, la sua fame si declina acriticamente in un’attrazione spasmodica verso quello che la società propone a quelle come lei: i vestiti, le scarpe, gli oggetti di consumo.

Suo malgrado, certo: le sue vicende potrebbero essere lette come quelle di una vittima del consumismo, che le impone ritmi di acquisto così folli da non fare altro che metterla nei guai. L’altro lato della medaglia è che Becky, per quanto totalmente immersa acriticamente nel mondo consumista, lo abbraccia – nel senso dell’inglese embrace – con un assurdo e tuttavia vitalissimo entusiasmo. Becky è svampita, c’è poco da fare, è superficiale, è il grado zero della riflessione critica, eppure è un personaggio che è impossibile non trovare simpatico e con il quale, mollata ogni pretesa intellettualistica, è inevitabile identificarsi almeno un po’.

Oggi, preda come siamo della tendenza alla diagnosi facile, la smania di comprare di Becky verrebbe seriosamente descritta come una tendenza ossessivo-compulsiva o inquadrata in sa il cielo quale sindrome psicotica (e non a torto, probabilmente). Ma la leggerezza dei primi anni Duemila, residuo novecentesco oggi ormai esaurito, ha permesso a Sophie Kinsella – e a noi lettrici – di abbracciare un’interpretazione meno deprimente del ruolo che la società stava preparando per noi, incarnato fino all’assurdo da Becky.

Alle ragazzine che eravamo allora io e le mie amiche, il mondo degli adulti nel quale presto saremmo dovute entrare appariva come uno strano coacervo di cosine attraenti e luccicanti verso le quali ci veniva già detto di essere diffidenti, un confuso mix di possibilità entusiasmanti eppure già in declino (la crisi del 2008 non era lontana), davanti alle quali non ci era ben chiaro che posizione prendere. E chi, come gli intellettuali alla Pasolini, ha tentato di rispondere criticamente a questo scenario, di analizzarlo per decostruirlo, ha gettato sé stesso e la riflessione in una spirale di nichilismo depressivo dalla quale anche oggi mi sembra si faccia molta fatica a uscire.

Se mantenere la lucidità di fronte al consumismo porta inevitabilmente a intristirsi («Il vero fascismo è proprio questo potere della civiltà dei consumi che sta distruggendo l’Italia» diceva cupamente Pasolini in un servizio tv, girato a Ostia davanti a quel mare che pochi anni dopo sarebbe stato testimone del suo assassinio), a disperare («Vedo di fronte a me un mondo doloroso e sempre più brutto: non ho speranze», sempre Pasolini, intervistato da Enzo Biagi), i libri di Kinsella suggerivano la possibilità di assumere una postura sicuramente superficiale, ma esistenzialmente efficace. Il mondo è caotico, materialista fino al non senso e impossibile da mettere in questione? Bene, ricevuto. Però, sai che c’è? La risposta acritica di Becky, per quanto superficiale, almeno ci fa divertire.

Oggi le content creator di Instagram e TikTok non mi sembrano così diverse da Becky Bloomwood, un personaggio letterario nato più di vent’anni fa: come lei – e più di lei, perché non solo adottano un certo stile di vita, ma narrandolo lo rivendicano – hanno una predilezione per passatempi e interessi girlie (“da ragazza”) e sono ancora profondamente legate a un concetto di femminilità decorativo (i discorsi sui loro profili girano attorno a vestiti, make-up, chirurgia plastica, arredamento, filler e botox e unghie ricostruite). Sono – e noi follower con loro – ancora molto lontane dall’emancipazione simbolica da occupazioni e interessi che, come scritto da molte pensatrici femministe, sono a tutti gli effetti modi per tenere il tempo delle donne occupato in attività per lo più futili, fini a sé stesse. Modi per tenerle affannosamente concentrate su di sé e distratte dal mondo fuori di sé.

Eppure, nonostante l’innegabile progresso dell’autocoscienza femminista, lo stile di vita raccontato da Sophie Kinsella non solo continua a interessare, ma sempre più a essere adottato deliberatamente. Anziché andare verso una maggiore sobrietà dei costumi femminili – che un tempo sembrava imprescindibile per essere prese sul serio – la frivolezza si espande, viene adottata allegramente e senza sensi di colpa anche dai personaggi più istituzionali (come l’indimenticabile commissaria europea che mostrò il kit di sopravvivenza alla guerra nello stesso modo in cui attrici e modelle mostrano i gloss e i fermagli svuotando le loro borse Prada nei video di Vogue).

Perché? Forse perché scegliendola attivamente – portandola ai suoi esiti estremi come fa Becky nei libri di Kinsella, facendone oggetto di guadagno come fanno le influencer sui social, mettendola al centro di pomeriggi passati esclusivamente tra amiche e di matrimoni che sembrano sempre più feste a tema – ci riappropriamo di certi riti e di certe pratiche corporali alle quali, fino a ieri, dovevamo sottometterci per forza. Invece, autoconvincendoci di vivere il consumismo come esito di una scelta libera e non coatta, ci sembra di liberarci un po’ (all’emancipazione ci arriveremo poi).

P.S. e comunque Pasolini era uno che si vestiva benissimo.

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