Siamo spettatori anche quando siamo pazienti

«Sapevo, grazie a tutte le serie tv sulla medicina che avevo visto, che quello era un altro momento fondamentale, perché sulle parole che il paziente dice al risveglio, dopo l'operazione, si può scatenare o una gag comica o un dramma nascosto»

Sandra Oh, Ellen Pompeo e Katherine Heigl in una scena di Grey's Anatomy
(mptvimages/contrasto)
Sandra Oh, Ellen Pompeo e Katherine Heigl in una scena di Grey's Anatomy (mptvimages/contrasto)
Stefania Carini
Stefania Carini

Si occupa di cultura, media e brand. Collabora con il Post, la Radio Svizzera Italiana, il Corriere della Sera, Link - Idee per la tv. Ha realizzato podcast e documentari. Il suo ultimo libro è Il coraggio di Oscar, che nel 2025 ha vinto il premio letterario nazionale Giovanni Arpino.

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Tutto quello che sapevo su ospedali, medici, bisturi, flebo e punti di sutura arrivava dall’aver passato ore e ore davanti a ER, Grey’s Anatomy, Doc. Almeno fino a quest’anno. Nel 2025 da spettatrice sono diventata paziente: ho frequentato gli ospedali del servizio sanitario nazionale, sono stata visitata da molti medici, ho affrontato un’operazione e il suo decorso. E quindi sono entrata in contatto con una realtà che finora aveva occupato solo il mio immaginario e la mia immaginazione.

Sono stata operata in un ospedale che fa anche ricerca. Ho capito cosa significava durante un esame preparatorio: avevo attorno a me la dottoressa con più esperienza e tre specializzande più giovani. Mentre la prima era tutta attenta a spiegarmi la procedura per rassicurarmi in modo che fossi collaborativa e non provassi dolore, le altre tre osservavano, annuivano, domandavano. Senza mai dimenticare che io ero lì, e che dovevo dunque essere trattata al meglio, la dottoressa con più esperienza spiegava, mostrava, rispondeva anche a loro.

È stato uno dei tanti momenti in cui ho oscillato tra l’essere la paziente stesa sul lettino e la spettatrice della mia stessa visita come se la vedessi in tv. Perché io quella scena l’avevo già vista, potevo davvero immaginarmi di essere in una puntata di ER: il trucco narrativo di successo di molti medical drama infatti è proprio quello di raccontare ospedali in cui la medicina si insegna e si impara. E quindi ecco specializzandi/e alle prese con le prime diagnosi, le prime suture, le prime operazioni sotto la guida di dottori e dottoresse più esperti/e. Con un doppio risultato: da un lato si mette in scena il/la giovane che deve ancora acquisire le regole del gioco della medicina nel quotidiano, dall’altro quelle stesse regole possono essere spiegate – seppur semplificando – al pubblico.

Abbiamo imparato che cosa significa intubare un paziente proprio guardando ER. Ho capito che sarebbe toccato anche a me – essere intubata, non intubare – durante il pre-ricovero, poco prima di entrare dall’anestesista, quando ho letto in sala d’attesa un poster informativo sulle fasi della mia operazione. Già l’idea di anestesia totale disturbava fortemente la mia ossessione per il controllo: questa informazione in più, non calcolata, aggiungeva ansia al quadro. «Lei non si deve preoccupare, è una cosa lieve, è normale, funziona così», mi ha detto l’anestesista. Ma io non mi preoccupo, dottoressa, io immagino.

Certo, la mia operazione non rientrava nella medicina d’urgenza messa in scena molte volte in tv. Il mio caso era routine (per i medici), degno al massimo di qualche linea narrativa breve e secondaria, ma non potevo non immaginare e il mio immaginario prevedeva novellini e novelline alle prese con il rito di iniziazione del primo paziente intubato che fallivano, ci riprovavano, poi trionfavano mentre io ero sempre stesa in sala operatoria.

Naturalmente me li immaginavo tutti bellissimi. La tv infatti è piena di dottori e dottoresse affascinanti. E in effetti, se fino a quest’anno credevo che la bellezza di quelli con il camice bianco fosse un espediente narrativo per accalappiare il pubblico, come insegnava già il Dr. Kildare, protagonista del primo medical drama di successo del 1961, interpretato da Richard Chamberlain (successivamente sarà il prete peccatore di Uccelli di rovo, ma quello è un altro immaginario), ho verificato che nel mio ospedale, nel mio reparto, nel mio team di chirurgia erano davvero tutti bellissimi. Ogni mia visita sembrava una puntata di Grey’s Anatomy: lunghi capelli biondi o corvini, lisci o ricci, occhi grandi e dolci, sorrisi sempre e comunque, trucco spesso perfetto. E tralascio ogni commento sui medici maschi.

Ho vissuto in una bolla di professionalità, dolcezza e gentilezza, che mitigava la parte della mia immaginazione che tende alla tragedia. Perché in quei mesi ti immagini di tutto. Riuscivo a figurarmi, e a cercare così di pianificare (e controllare), tutte le fasi del giorno dell’operazione, dal risveglio la mattina in ospedale fino alla chiamata per scendere in sala operatoria, fin quasi ad affacciarmi con la mente sul momento dell’anestesia (oscillando tra un «non mi risveglierò più!» e un «e se non mi addormento?»). In quel momento, però, l’immaginazione cadeva (non potevo pensarmi sul lettino della sala operatoria mentre venivo operata) e non poteva assistermi nemmeno l’immaginario (di fronte alle inquadrature ravvicinate delle operazioni, quelle con il bisturi che incide, spesso mi copro gli occhi).

Un giorno mentre ero seduta al bar di fronte all’ospedale tra una visita e l’altra mi si sono seduti accanto dottori, dottoresse e infermiere. Erano in borghese, ma uno di loro ha fatto saltare la loro copertura: «Riassumetemi la storia del paziente di oggi». È iniziata così, di fronte a brioches e cappuccini, la disamina del caso al centro della puntata, pardon, della giornata. Io origliavo sapendo benissimo a cosa stavo assistendo: la scena di raccordo, quella ambientata in luogo a parte, di decompressione, magari interno all’ospedale ma nascosto agli occhi dei pazienti (la saletta privata, il retro di un’ambulanza) oppure in prossimità, per esempio in un bar come nel mio caso.

È in questi spazi intermedi, sospesi tra interni ed esterni, che in ER, Grey’s Anatomy e Doc emerge la dialettica tra vita lavorativa e vita personale, tra ragione e sentimento, tra scienza e società perché il medical drama mette in scena la malattia per raccontare i vissuti di pazienti e medici, che si rispecchiano gli uni negli altri. Sono anche il terreno dove si dibattono i temi d’attualità, da cui emergono dilemmi scientifici e umani. Anche il caso di cui parlavano nel tavolo di fianco al mio presentava delicatezze particolari, legate alla situazione famigliare del paziente, e per questo, ancora una volta, mi pareva di assistere dal vivo alla scena di una serie tv.

Perfino il giorno della mia operazione è arrivato, atteso tanto quanto un finale di stagione. Ma a quel punto la linea narrativa che mi riguardava si è intrecciata non più solo con quella dei medici ma con quella di altre pazienti: la mia compagna di stanza che mi diceva che non dovevo aver paura dell’anestesia; la signora con cui per una sera intera ho passeggiato nel reparto, nel tentativo di digerire la cena dell’ospedale e far passare il tempo; l’altra signora operata un giorno prima di me, che non si aspettava di ritrovarsi malata alla sua età, e sosteneva chissà perché che io l’avessi presa bene.

Quando l’infermiere è venuto a prendermi era metà pomeriggio. Sdraiata sulla barella vedevo il soffitto illuminato scorrere sopra di me ed era un’altra scena che avevo visto in tv, la classica ripresa in soggettiva del paziente diretto verso la sala operatoria. Ma in quel momento ho capito che stava succedendo per davvero. In sala operatoria si sono avvicinate a parlarmi e sorridermi la mia chirurga e tutte le altre mediche che seguivano il mio caso. Anche io ho sorriso, scusandomi se non le riconoscevo tutte quante, ma senza occhiali tutto era sfocato. Poi l’ago per l’anestesia e io che dico «Ah, mi state già facendo addormentare?», poi il buio.

Una delle serie più viste di questi ultimi anni in Italia è Doc con Luca Argentero, un mix all’italiana tra Dr. House, ER, Grey’s Anatomy, in onda su Rai 1. È stata venduta in diversi paesi, gli americani ci hanno fatto pure un remake. La serie, ispirata a una storia vera, mette in scena il dramma di un medico che si ritrova paziente perché affetto da amnesia, e deve ricostruire come un puzzle quello che gli è successo nei dodici anni di vita che non si ricorda più. Intanto continua a curare i suoi pazienti, riscoprendo un lato umano che tutti attorno a lui non gli attribuivano più. Doc ha debuttato durante la pandemia: pochi pensavano che la gente avesse voglia di vedersi altri ospedali in tv, e invece è stato un successo, probabilmente perché in quel momento di crisi della sanità confortava vedere un medico che trattava con umanità i pazienti, senza considerarli numeri, con in più la faccia di Luca Argentero.

Parla di medicina anche uno dei più grandi successi della stagione negli Stati Uniti, The Pitt, che ha vinto l’Emmy e in Italia è in onda su Sky. Il protagonista e il produttore è Noah Wyle, che era il Dr. Carter in ER, di cui The Pitt è una variazione all’ennesima potenza: raccontando 15 ore di un turno di pronto soccorso, aumenta il ritmo narrativo, intreccia ancora più storie e affronta da una prospettiva scientifica e liberal temi come l’epidemia di fentanyl e il rifiuto dei vaccini. È anzi possibile che al suo successo abbia contribuito il bisogno di essere rassicurati di milioni di spettatori, in un periodo in cui a vincere le elezioni negli Stati Uniti era il candidato più antiscientifico di sempre.

Forse la popolarità di queste serie è anche una sorta di reazione alla frammentazione e semplificazione a-scientifica e complottista di troppi talk, siti, giornali, influencer, politici. Una narrazione complessa della medicina, che solo certe serie tv “vecchio stile” sanno fare, in questo periodo storico è necessaria. In fondo anche la mia sorpresa di fronte a quanto fosse ben organizzato il mio ospedale era dovuta al fatto che anni di racconto in negativo del Servizio pubblico nazionale avevano avuto presa anche su di me. Ma, certo, io sono stata fortunata e a volte le cose deragliano dal percorso previsto. Rimane che il successo di un’operazione chirurgica, come quello di una serie, sta anche nella disponibilità del paziente e dello spettatore di fidarsi e affidarsi. Per questo chi mina la fiducia nella scienza e nella possibilità di una narrazione complessa dei fatti, mina le basi della società.

Al risveglio dall’anestesia, un’infermiera mi ha chiesto se andasse tutto bene e se avessi la nausea. Sapevo, grazie a tutte le serie tv sulla medicina che avevo visto, che quello era un altro momento fondamentale, perché sulle parole che il paziente dice al risveglio si può scatenare o una gag comica o un dramma nascosto. Il risveglio è sempre il momento della verità, quello nel quale si rivela il non detto, l’inconscio, il segreto. Ma nella nebbia dei farmaci ricordo di aver biascicato che non avevo la nausea, avevo fame di un panino al prosciutto cotto, e per la precisione di una michetta, che per di più non mangio mai. Una risposta e un desiderio a cui nessuna serie tv mi aveva preparato.

– Leggi anche: I pazienti che suonano durante le operazioni al cervello

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