L’invenzione del maschio performativo
Un'etichetta nata sui social ha stimolato un dibattito su quanto ci si possa fidare degli uomini che sembrano in pace con la loro femminilità

Sui social succede spesso che vengano inventate parole o formule per definire fenomeni – vecchi o nuovi – molto specifici, e meno spesso capita che alcune di queste etichette escano da internet. Negli ultimi mesi è successo all’espressione “maschio performativo”, con cui ci si riferisce a una categoria di uomini eterosessuali che si presentano in modo poco stereotipicamente maschile. Che leggono libri in pubblico, meglio se di scrittrici e meglio ancora se di scrittrici femministe, usano le borse di tela, ostentano gusti culturali raffinati ma in linea con le mode delle élite culturali, e in generale non temono di apparire poco mascolini in senso tradizionale.
Allo stesso tempo non sono uomini che hanno un aspetto o un comportamento di vera rottura con i canoni imposti da binarismo di genere: per intenderci non parliamo di uomini che mettono il rossetto o che indossano vestiti o gonne, ma di comportamenti molto meno radicali e compatibili con le aspettative della società e con le mode. Come esempi di “maschi performativi” online vengono spesso citati gli attori Jacob Elordi, Paul Mescal e Josh O’Connor.
L’espressione, diventata popolare soprattutto su TikTok negli Stati Uniti, ha cominciato a circolare anche al di fuori dei social a luglio, dopo che sono stati organizzati dei raduni dedicati a Seattle e a Jakarta, in Indonesia. Erano eventi semi-ironici, simili a una parata o a un concorso, in cui chi si riconosceva nella definizione veniva invitato a presentarsi in un luogo specifico come se si trattasse di una “specie” da osservare dal vivo.
Ad agosto il New York Times ha pubblicato un articolo nella sezione Style intitolato «Come trovare un maschio performativo? Cerca una borsa di tela», contribuendo a definire meglio i contorni della categoria. Il maschio performativo veniva descritto come il contrario del gym bro, la figura maschile testosteronica e ossessionata dalla palestra. Secondo il Times gli interessi del maschio performativo includono libri, spesso di autrici come Jane Austen e Sally Rooney, piccoli oggetti da collezione, come i Labubu, e bevande molto presenti nella cultura online, come il matcha. Il tono dell’articolo era piuttosto ironico e sottolineava come alcuni uomini usino questi comportamenti per definire una specie di status, e diventino quindi molto riconoscibili.
Performativo, sui social, non è un aggettivo nuovo: da anni viene usato per indicare comportamenti ostentati o costruiti appositamente per essere mostrati online. Si parla di attivismo performativo, per esempio, per descrivere l’adesione molto visibile ma poco sostanziale a una causa; oppure di femminismo performativo, quando il sostegno a certe posizioni sembra soprattutto un gesto identitario o di appartenenza.
Fuori dal contesto in cui si è diffusa l’espressione più recente, peraltro, “performativo” associato alla maschilità aveva un significato opposto: descriveva infatti il comportamento e l’aspetto di chi esibiva una virilità intesa in senso più tradizionale e muscolare.
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Come spesso accade quando un giornale come il New York Times decide di raccontare un fenomeno nato sui social, il tema ha assunto immediatamente un’altra rilevanza, e la definizione di “maschio performativo” è stata ripresa da numerose altre testate, anche fuori dagli Stati Uniti.
Nel passaggio dai social ai giornali, e poi di nuovo ai social, la definizione ha però cominciato a diluirsi. Quella dei maschi performativi, così come veniva descritta dal New York Times, era una categoria relativamente precisa, caratterizzata da oggetti, gusti e pose che si sono rapidamente trasformati in simboli, ma nata soprattutto per farci ironia. Man mano che il termine si è diffuso ha iniziato a essere applicato a situazioni molto più eterogenee, fino a diventare un’etichetta più generica.
Al tempo stesso ha cominciato a circolare l’idea che questa categoria di uomini sia in qualche modo “sospetta”: non per ciò che fa, ma per ciò che rappresenta. Secondo alcune interpretazioni piuttosto diffuse sui social, infatti, l’interesse dei maschi performativi per temi, libri e pratiche tradizionalmente associati al pubblico femminile non sarebbe davvero genuino. Sarebbe invece una sorta di messinscena, un modo per risultare attraenti agli occhi delle donne o per adeguarsi ai codici culturali delle bolle progressiste delle grandi città, dove negli ultimi anni si è diffusa molto l’idea che la maschilità vada “decostruita”, e cioè che gli uomini debbano lavorare su loro stessi per riconoscere meccanismi psicologici condizionati da secoli di patriarcato e liberarsene.
In questa lettura, dunque, il maschio performativo non è semplicemente un uomo con interessi atipici o un’estetica riconoscibile, ma qualcuno che usa quegli interessi come strategia identitaria: per mostrarsi sensibile, politicamente consapevole o culturalmente allineato, e ottenere un riconoscimento sociale.
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In Italia il dibattito sui maschi performativi è arrivato dopo e ha seguito questa accezione ampia, anche perché persino nelle grandi città come Roma e Milano non è così frequente incontrare gli uomini descritti dal New York Times, che vanno in giro con borse di tela e bicchieri di matcha. Su TikTok la discussione si è accesa dopo che una creator ha pubblicato un video in cui diceva di essere stufa degli «uomini con la matita» agli occhi, sostenendo che quel tipo di estetica sia più una strategia per fare colpo, che un tratto autentico della loro personalità.
Edoardo Prati, tiktoker e divulgatore culturale con un’estetica decisamente poco mascolina (ma al contempo anche molto poco al passo con le mode), aveva risposto con un altro video (che ha poi cancellato) contestando le parole della creator. Secondo Prati quel ragionamento rischiava di alimentare uno stereotipo: l’idea che tutti gli uomini che appaiono in quel modo lo facciano per ostentare qualcosa e ottenere un vantaggio, e non perché è così che sono e si sentono.
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Il dibattito è durato diversi giorni e molti creator si sono schierati da una parte o dall’altra. Il 25 novembre poi Prati ha pubblicato un articolo su Repubblica in cui sostiene che sia ingiusto che un uomo che voglia «esprimere se stesso contrariamente ai dettami patriarcali debba trovarsi a combattere contro il maschilismo dominante e contro chi non lo crede sincero». Ha anche chiesto provocatoriamente da chi debba difendersi un «ragazzo truccato per strada, dalle botte di chi lo considera diverso o dalle risate di chi vede la sua matita sotto gli occhi come un ridicolo tentativo di sedurre?».
Nel dibattito nato su TikTok e poi amplificato dall’articolo di Prati su Repubblica si è smarrita quasi del tutto la dimensione estetica e in parte ironica del termine. L’idea iniziale era quella di un’etichetta che giocava con certi codici visivi e comportamentali tipici di questi anni, non una categoria sociologica. In certe discussioni quindi l’espressione ha finito per includere qualsiasi comportamento maschile percepito come ambiguo, opaco o manipolatorio nei confronti delle donne.
In questo senso quello del “maschio performativo” finisce per coincidere con uno stereotipo che esiste già da tempo nella cultura popolare e che trova una delle sue massime espressioni, per esempio, in Nino Sarratore, uno dei personaggi maschili della saga dell’Amica geniale di Elena Ferrante: un uomo colto, attento, apparentemente sensibile, la cui immagine pubblica o privata non coincide quasi mai con le sue azioni, spesso narcisiste, egoiste e manipolatorie. Anche allora il dibattito riguardava lo scarto tra ciò che un uomo mostra e come si comporta.
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