Mia madre e il terremoto
Quello del 23 novembre 1980 in Irpinia, legato nel ricordo a Juve-Inter 2-1, ai Kiss su TeleSorrento e alla mamma che impedisce ai muri di crollare

La «segreteria» dell’Istituto Sacro Cuore di corso Europa 84 a Napoli, come evidentemente suggeriva il nome stesso, era un luogo misterioso, un ricettacolo di segreti, appunto: era l’Ade in cui eri costantemente minacciato di venir spedito se la tua condotta era meno che irreprensibile (e nessuno ha mai tramandato in cosa consistesse il contrappasso, per omertà, per paura o perché chi ci era stato non meritava più il nostro saluto e quindi certo non avrebbe potuto raccontarci); dietro la sua porta si esercitava un potere che noi allievi non potevamo nemmeno immaginare (soltanto subire); era l’entità astratta e per ciò stesso temibile a cui venivano indirizzate le «comunicazioni casa-scuola» da riempire nelle ultime pagine del diario, e da cui partivano le ancor più minacciose missive in senso inverso.
Ma – solo per me e per gli altri membri della mia famiglia – era anche il posto dove mia madre lavorava. Cosa faceva lì dentro? Quante ore ci passava? Era un’umile impiegata o, una volta varcata quella soglia, le veniva posto sulle spalle un regale mantello di ermellino e offerto lo scettro simbolo di un iniquo potere che esercitava spietata nei confronti dei suoi sudditi inermi? Soprattutto: il suo ruolo doveva rappresentare, per me, motivo di vanto o di vergogna? (Io non sapevo chiedere, non avevo mai imparato a fare domande per capire le cose piccole e grandi della vita, per cui in questo caso, come in quasi tutto il resto, dovetti tirare a indovinare.) Certo di non sbagliare, afferrai deciso la seconda opzione. E così, il fatto che mia madre lavorasse nella scuola dove studiavo diventò un ulteriore motivo da aggiungere alla mia lunga lista di cause di imbarazzo, timidezza, vergogna.
Eppure mi servì a capire il mistero della «retta». Una parola ostica, ostile; ma che, in base ai primi rudimenti di geometria che andavo apprendendo, stava senz’altro a indicare quella linea, tracciata dalle suore dell’Istituto, che passava, unendoli, per due punti: casa nostra e la segreteria del Sacro Cuore.
Dato che la nostra era una scuola privata, il costo dell’istruzione veniva addebitato a ogni studente in rate periodiche, gli avvisi di pagamento delle quali venivano consegnati in aula affinché ciascuno potesse portarli a casa. Eppure, la busta da lettera che conteneva la famigerata retta arrivava a tutti, nella mia classe e forse nell’intero sconfinato Istituto, tranne che a me. Potevo solo supporre che un trattamento analogo attendesse, il giorno fatidico, anche gli altri Cassini, che immaginavo in quello stesso momento – ciascuno al piano dell’edificio in cui l’età e il curriculum di studi lo vedevano posizionato – non ricevere la propria busta.
Ovviamente non chiedevo il perché. Ero troppo intento a interrogarmene in cuor mio e a nascondere il rossore per l’imbarazzo della mia diversità, restituendo per quell’unica occasione lo sguardo al crocifisso – che diverse ore al giorno mi osservava austero, quasi minaccioso, dall’alto della parete alle spalle della cattedra (forse perché sapeva il numero delle punte di banana portatrici di conato in quanto troppo mature che avevo gettato giù dalla finestra della verandina quell’ultima settimana?) –, implorandolo che nessuno mi domandasse il motivo per cui io non ricevevo la busta della retta, perché non solo non avrei saputo spiegarlo ma mi sarei messo sicuramente a piangere.
Il rito della consegna della retta avveniva… quanto spesso: ogni mese? ogni trimestre? Non so dire la frequenza, che dal punto di vista del calendario non sarà stata particolarmente serrata, ma dal punto di vista della vergogna provata nel non riceverla era un’umiliazione più assidua di quanto fossi disposto a sopportare.
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La prima volta che successe, trattenni a stento le lacrime e ovviamente mi guardai bene dal chiederne il motivo all’insegnante o, al ritorno a casa, a mia mamma. Solo tempo dopo collegai quei due punti per cui passava la retta: evidentemente, ermellino o no, veniva saldata prima che le buste incriminate lasciassero la segreteria, forse detratta dallo stipendio di mia madre. O più probabilmente – come ho pensato solo molti anni dopo, svegliandomi una notte di soprassalto e restandomene seduto nel letto a sentirmi un cretino o il destinatario di un dono immeritato – mia madre ha lavorato per anni in quella scuola in cambio dell’istruzione dei suoi figli: rimasta vedova a trentadue anni, con due figli maschi di nove e due anni, una femmina di sette, e un quarto figlio in arrivo (io), mia madre dovette cercarsi un lavoro e fu accolta amorevolmente (oppure dovette umiliarsi a elemosinare un impiego?) dalle suore del Sacro Cuore. Così negli anni delle mie elementari e medie lei era diventata la factotum della temibilissima madre superiora (al di là di quell’aggettivo declinato con un femminile che sembrava un errore grammaticale), nonché mia insegnante di lettere, la perennemente raffreddata Madre Pennarola.

Veduta dell’ingresso dell’Istituto Sacro Cuore di corso Europa 84, Napoli (via Google Maps)
Sta di fatto che – da quanto andavo supponendo – la retta includeva apparentemente anche il servizio delivery dei libri. Te li portavano loro, le suore-insegnanti che, animate da sacro spirito cristiano, o più probabilmente da una lauta provvigione da parte degli editori dei libri prescelti, volevano evitarti le estenuanti file preautunnali a Port’Alba, la via napoletana in cui pullulavano le librerie: un oscuro limbo affollato, ci veniva lasciato immaginare, da ignavi studenti senza fede.
Diversamente dai prodotti di cartoleria che potevi scegliere tra una gamma di copertine personaggi temi colori che in quegli anni ci pareva vastissima, con la speranza di aver selezionato qualcosa che suscitasse, nei miei compagni, una certa ammirazione (giacché l’invidia altrui, nel mix tra il versante educativo materno e quello della scuola religiosa, non era nemmeno concepibile), i libri dovevano essere stati scelti da altri, non da noi, e chissà da chi poi; e sarebbero stati dunque uguali per tutta la classe, e non solo per tutti i maschi ma anche per tutte le femmine, unica distinzione significativa ai miei occhi preadolescenti per provare a suddividere in due sottinsiemi appena meno affollati l’intera masnada di altri trentasei esseri umani con cui passavo sei mattine, e qualche pomeriggio, ogni settimana.
C’erano trentasette copie identiche di ciascun libro di testo, e le trovavamo – misteriosamente, o quanto meno oltre la portata della mia comprensione – ad aspettarci a scuola. (Mi chiedo se questo mistero sulla provenienza dei libri e sul fatto che si manifestassero come per magia direttamente sul mio banco il primo giorno di scuola sia in qualche modo all’origine del mio interesse per il mercato editoriale e per i suoi funzionamenti, che anni dopo avrebbe finito per farmi diventare editore.)
Nei primi giorni di scuola, quelli in cui veniva componendosi l’orario settimanale delle lezioni, la vita ci veniva facilitata grazie alla lungimirante trovata del signor Pigna, che nella prima pagina del diario scolastico aveva pensato bene di duplicare le griglie con le due diverse diciture «orario provvisorio» e «orario definitivo».
Solo quattro decenni più tardi, quando mia mamma venne per la prima volta ad assistere al festival letterario che organizzo a Ivrea, nel commentare la difficoltà di doverne comporre il programma innalzando un castello di carte fatto di giorni, orari, ospiti, luoghi, contenuti, in cui la modifica di un solo elemento ti obbliga a rimodulare l’intera labile architettura, lei mi disse: «Ah, un po’ come quando io al Sacro Cuore avevo il compito di fare l’orario delle lezioni!».
Mi spiegò come combinava le variabili giorni, ore, insegnanti, materie, classe, numero di ore di lezione giornaliere e settimanali per ogni classe e docente, disponibilità della palestra, conflitto con l’obbligatoria messa del mercoledì mattina nella chiesa dell’Istituto. Ci volevano settimane e decine di versioni successive. «Era un incubo: ogni insegnante veniva a confidarmi, quasi come a un’amica complice, che preferiva fare più o meno lezioni, quel dato giorno, o che non poteva arrivare a scuola prima della tale ora, o che il venerdì mattina aveva il parrucchiere, e nel tentativo di accontentare qualsiasi richiesta successiva dovevo rifare tutto daccapo ogni volta». Sorridendo a sua volta complice e remissiva alla carnefice di turno. Un compito arduo insomma, per assolvere al quale immaginai l’impaccio che doveva costituire per lei quell’ingombrante mantello di ermellino.
A ogni prima lezione di una determinata materia, ci veniva dunque consegnato il relativo libro di testo. Erano ancora intonsi, splendenti, immacolati. Ma la cosa più notevole è che – col senno di poi ritengo fosse uno sporco trucco per non farci odiare quei libri che avrebbero rappresentato per noi innumerevoli ore di studio – nei fugaci attimi in cui li sfogliavamo per la prima volta, i nostri nuovi libri emanavano, diabolici, un odore identico a quello degli album delle figurine. Ce ne innamoravamo, pavlovianamente.
La foto dello scintillante Palazzo di vetro delle Nazioni Unite riportava alla mente, per le vie olfattive, l’ambita figurina della Perla di Labuan dell’album di Sandokan; le mappe della progressiva espansione dell’Impero romano non erano altro che una reincarnazione respiratoria della figurina di Antonio Cabrini (non imparentato, a quanto mi consta, con la santa Francesca Cabrini, fondatrice del Sacro Cuore) in maglia grigiorossa della Cremonese, i cui doppioni andavo conservando per mia sorella che, come ogni donna italiana di qualsiasi età, provenienza e ceto sociale, ne era quell’anno perdutamente innamorata e ne faceva smercio tra le sue amiche.
Era emozionante distrarsi dalle pur accondiscendenti lezioni «provvisorie» della ancora afosa settimana iniziale, sfogliando il sussidiario nel giorno in cui lo ricevevi per guardare le infinite immagini in quadricromia: offrivano – a noi, giovani reduci dall’estate non ancora del tutto terminata, gravidi di aspettative verso un’annata che faceva da gregaria all’attesa volata verso l’età adulta – un immaginario tutto nuovo fatto di riproduzioni fotografiche di opere d’arte custodite nei musei del mondo da cui avremmo ben presto mandato cartoline alle nostre famiglie, bandiere di stati remotissimi la cui capitale, la cui moneta, la cui densità di abitanti per chilometro quadrato e i nomi dei principali rilievi montuosi di lì a poco avremmo potuto constatare visitandoli di persona; e una volta sul posto non avremmo certo mancato di verificare anche la produzione (in tonnellate annue) di granturco.
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Nei primi giorni della stagione scolastica 1980-81, l’anno della mia prima media, la frenesia di scoprire nel sussidiario ancora illibato un’illustrazione buffa da indicare sghignazzando al compagno di banco o che avesse una possibile allusione sessuale (a quell’età, praticamente tutte, dai grafici dell’apparato riproduttivo alla tettuta Venere di Willendorf aka Grande Madre) si fece dapprima vampa d’emozione da lasciarmi senza fiato allorquando avvistai uno scatto fotografico, impercettibilmente fuori fuoco, di casa mia, proprio il mio palazzo!, proprio nelle pagine che mi avrebbero condotto lungo i territori del sapere in quell’indimenticabile anno scolastico!, palazzo riconoscibilissimo per ubicazione, colori e struttura come quello di casa mia; si elevò poi a grado di fervore gioioso all’idea che quella immagine aerea pioveva letteralmente dal cielo al fine di privilegiarmi di una celebrità imminente quanto ovvia, rendendomi l’eroe del nuovo continente, l’olimpo appena conquistato del terzo piano dell’Istituto Sacro Cuore di Napoli; quell’entusiasmo si celò infine sotto un repentino, sudato e muto pallore nel leggere la didascalia: «Nella foto, un caso eclatante di scempio edilizio nel Mezzogiorno». Richiusi immediatamente il sussidiario, lasciando la mano a tenere il segno, come a futura memoria; diedi uno sguardo di severo rimprovero al compagno che mi mostrava, ridendo così inopportunamente, la fotografia di una qualche tribù seminuda dell’Africa nera, e da quella stessa sera smisi per alcune settimane di giocare da solo a pallone nel corridoio di casa, per paura che i miei irresistibili dribbling immaginari facessero crollare il palazzo incriminato.
Non chiesi mai a mia madre in che senso quella curiosa architettura che Sabatino Russo (inquilino dell’interno 15 e mio acerrimo avversario a Subbuteo) chiamava «le palafitte» dovesse essere considerato scempio edilizio. Ma è quell’indelebile immagine fuori fuoco che due mesi dopo averla vista il primo giorno di scuola sul sussidiario nuovo di zecca, sognata ripetute notti e reiteratamente scacciata dalla mente a forza di formazioni calcistiche mandate a memoria dal Guerin Sportivo, è proprio quell’immagine che mi tornò alla mente la sera di domenica 23 novembre 1980, l’anno della mia prima media.

“Le palafitte” di via Pigna 76 viste dal viadotto Arena Sant’Antonio di Napoli (via Google Maps)
Io e mio fratello Dario, forti della recente conquista sociale del telecomando e ancora sotto la botta psichedelica delle immagini multicolor del nuovissimo Phonola Fimi modello 1322 Colore, cenavamo – nell’orario consono a due alunni diligenti della nostra età, già impigiamati, pronti per andare a letto dopo mangiato – cambiando canale con una frequenza isterica per passare dalla sintesi serale di Juve-Inter (2-1, reti dell’irlandese Liam Brady e del futuro capitano bianconero Gaetano Scirea, per i padroni di casa; e dell’attaccante Claudio Ambu, per i nerazzurri) ai primi videoclip musicali della storia televisiva italiana, trasmessi lì e allora dall’emittente locale TeleSorrento, e nel caso specifico a Shandi dei Kiss, del quale video ignoravamo certo che avrebbe rappresentato l’ultima apparizione del batterista Peter Criss nella band per lungo tempo.
Nei resoconti divenuti poi lessico familiare, negli anni a venire avremmo arricchito di dettagli il nostro epos: «Fermo con la gamba, smettila di far ballare il tavolo»; «gli spaghetti al pomodoro avevano quell’odiosa acquetta di quando mamma, sempre intenta a troppe incombenze domestiche contemporanee, per la fretta non scolava bene la pasta»; «qualcuno in quel momento, incredibilmente, suonò al citofono» (avremmo scoperto poi trattarsi di Nino Pappagallo, che ci ostinavamo a frequentare nonostante uno status sociale evidentemente dubbio, dato che abitava addirittura al piano terra, proprio accanto all’ascensore); e così via, alimentando la leggenda.
Quello che solo anni più tardi io e mio fratello abbiamo osato confessarci a vicenda è che durante quei novanta secondi, iniziati e finiti tra le 19:34 e le 19:36 ma dilatabilissimi fino a una durata eterna per il modo in cui si sono impressi nella nostra corteccia cerebrale, successe qualcosa. Eravamo già corsi verso la cucina quando a metà strada, nel corridoio, nostra madre ci aveva raggiunti e abbrancati e già ci teneva stretti in una sorta di paurosissimo girotondo in cui davvero (e di questo mi rendo conto solo ora, mentre lo scrivo decenni dopo averlo vissuto), in cui davvero noi stavamo fermi ma Girava Il Mondo e Cascava La Terra. Ci teneva stretti arpionandoci con le mani, facendomi per fortuna sentire uno spropositato dolore all’avambraccio, che per qualche istante riuscì a catapultarmi fuori da quello scenario, e intonava un canto da muezzin cattolica, un grido sussurrato che usciva come un uragano dalle sue labbra serratissime signoreproteggiquestacasa signoreproteggiquestacasa signoreproteggiquestacasa; e intanto io ripensavo alle facce dipinte dei Kiss e alle maglie della Juve (entrambe a pensarci bene non così bisognose di uno psichedelico Phonola a colori) e al lampadario ondivagante sopra la nostra cena, che sarebbe rimasta su quel tavolo a freddarsi per una settimana, e rivedevo la foto terribilissima del sussidiario; e quando qualcuno stranamente suonò il citofono, provai a rispondere liberandomi per un attimo dalla morsa della mano materna, che sicuramente già stava lasciando un livido sul mio braccio coperto da pizzicante tessuto azzurrino Irge. E mentre succedeva tutto questo, io e mio fratello vedemmo chiaramente, vedemmo distintamente nostra madre lasciare la stretta sulle nostre braccia e allungare le sue, di braccia, verso le pareti di quel corridoio, facendo di sé stessa un ponte levatoio o un’impalcatura di tubi Innocenti per tenere distanti fra loro le mura del nostro appartamento al sesto e penultimo piano di un palazzo che il mio sussidiario considerava uno scempio edilizio, e il mio avversario di Subbuteo una palafitta: un palazzo che – l’avevo sentito dire mesi prima in una conversazione familiare in cui si parlava di esose spese condominiali – aveva dovuto subire un rinforzo posticcio di cemento armato nelle fondamenta, durante la fase di costruzione, perché pericolante sin dall’inizio, e che ora vedevamo caderci addosso, un palazzo che avrebbe potuto schiacciarci, che ci stava quasi schiacciando, che ci avrebbe senza alcun dubbio schiacchiato, se non ci fosse stata nostra madre – potevamo rendercene conto benissimo perché stava succedendo sotto i nostri atterriti occhi preadolescenziali –, se non ci fosse stata nostra madre a tenerlo in piedi ora spingendolo da un lato ora tirandolo dall’altro, e non era il Signore a proteggere quella famiglia e quella casa, non era il Signore, era mia madre e non c’era alcun dubbio su questo, perché io e mio fratello la ricordiamo, mosaica, separare le due onde di mattoni e calce e intonaco che si sarebbero riversate su di noi inghiottendoci inesorabili, se non le avesse divise lei per proteggere tutto quello che aveva.
Quando l’indomani avremmo avuto conferma di quanto ascoltato di voce in voce nelle ore passate «all’addiaccio» (espressione appresa in quella nottata sul marciapiede e che da allora mi fa venire un brivido sulla nuca), ossia che decine di paesi erano stati distrutti, centinaia di palazzi erano crollati, migliaia di famiglie erano rimaste senza casa, al sentire quelle notizie (“FATE PRESTO”) un solo pensiero avrebbe cancellato tutti gli altri, tutti i girotondi paurosi, i lividi sulle braccia, la foto del sussidiario, i confini dell’Austria, l’apparato riproduttivo, il citofono, il batterista dei Kiss, le notti all’addiaccio, il gol di Scirea, le palafitte, il Subbuteo, il corridoio, il lampadario, il cemento armato, gli scempi edilizi – solo un pensiero: mia madre; mia madre, al terremoto, gli ha fatto un culo così.




