Le neurotecnologie piacciono ai miliardari per via della loro fissa per l’immortalità

Musk e altri vorrebbero preservare digitalmente la loro coscienza, ma le applicazioni che aiuteranno le persone sono altre

Elon Musk seduto tra i banchi in mezzo ad altre persone, mentre fissa un punto in alto
Elon Musk al funerale dell’attivista Charlie Kirk a Glendale, Arizona, il 21 settembre 2025 (Kenny Holston/The New York Times)
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Nel 2020 l’imprenditore Elon Musk, peraltro fondatore dell’azienda di impianti cerebrali Neuralink, disse che un giorno sarebbe stato possibile scaricare l’intera memoria di un essere umano e caricarla «in un nuovo corpo o in un corpo robotico». Come se il cervello umano fosse un insieme di dati perfettamente trasferibile su uno spazio, fisico o virtuale, diverso dal cervello, e come se il fatto che un trasferimento del genere non sia ancora mai avvenuto fosse solo una questione di tempo e di risorse investite.

Affermazioni di questo tipo non sono un’eccezione nel settore delle neurotecnologie, in grande espansione, e non sono una prerogativa di Musk, che è noto per le sue promesse clamorose e raramente mantenute. A farle sono anche altri miliardari che possiedono o finanziano le più ricche e famose società di neurotecnologie. Molti di loro sembrano animati da una fissazione comune: la fiducia incondizionata nell’idea che le scoperte scientifiche e tecnologiche possano aumentare le capacità fisiche e cognitive dell’essere umano, fino a renderlo di fatto immortale. È l’idea alla base di un movimento culturale noto come transumanesimo, che ha diversi altri fan oltre a Musk.

In anni recenti il capo di OpenAI, Sam Altman, ha investito miliardi di dollari in iniziative e aziende di neurotecnologie, tra cui Merge Labs, concorrente di Neuralink. Sul suo blog, nel 2017, aveva scritto di un’imminente «fusione» tra esseri umani e macchine, secondo lui possibile tramite ingegneria genetica o collegando degli elettrodi al cervello, e realizzabile tra il 2025 e il 2075. E nel 2018 aveva investito in Nectome, una startup che proponeva di scaricare i dati del cervello da pazienti volontari sani sottoposti a una particolare eutanasia, per caricarli su uno spazio virtuale: lui stesso aveva versato un acconto di 10mila dollari per entrare nella lista d’attesa.

Le affermazioni altisonanti dei miliardari fissati con il transumanesimo da un lato possono servire ad attirare attenzioni e quindi capitali da parte di investitori facoltosi. Dall’altro, secondo diversi esperti, rischiano però di distoglierle da obiettivi più utili per la collettività e soprattutto più alla portata della ricerca scientifica, tra cui la cura di malattie come il Parkinson o la sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Obiettivi che, a giudicare da quelle affermazioni, sembrano spesso decisamente secondari.

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Michael Hendricks, professore di neurobiologia all’università McGill a Montréal, ha detto al Guardian che questa idea dell’upload del cervello proviene da persone che lavorano nelle grandi aziende della tecnologia e «pensano troppo ai computer». Sono convinte che il cervello sia una specie di hardware e il sé un software che può girare anche fuori dal corpo, su una macchina, ma «i sistemi biologici non sono come i computer», ha detto Hendricks. Riferendosi a chi propone di sottoporre pazienti volontari a eutanasia per permettere il download del loro cervello, ha aggiunto: «non credo che molti accetterebbero una scommessa del genere. Credo che istintivamente sappiamo che è una stronzata».

Secondo Hendricks e altri studiosi le tecnologie sviluppate da aziende come Neuralink sono molto importanti per le neuroscienze, ma le dichiarazioni di certi imprenditori rendono più complicato farsi un’idea chiara del reale potenziale delle neurotecnologie, su cui peraltro la maggior parte delle grandi aziende della Silicon Valley investe da tempo. Apple e Meta stanno sviluppando dispositivi indossabili (un braccialetto e un visore) che sfruttano dati neurali; Google è al lavoro sulla realizzazione di una mappa dettagliata e completa del cervello umano.

Un altro problema è che alcune dichiarazioni fuorvianti dei miliardari a capo delle aziende, come anche alcuni resoconti sensazionalistici di una parte della stampa, possono ostacolare la ricerca in campo medico e sanitario perché inducono enti e autorità di regolamentazione ad adottare standard basati sulla paura di scenari fantascientifici e irrealistici. Secondo gli esperti il dibattito dovrebbe invece essere incentrato su rischi reali, come quelli relativi alla sorveglianza e alle discriminazioni.

«Se utilizzati sul posto di lavoro, [alcuni dispositivi] potrebbero tenere traccia dell’affaticamento cerebrale o cose del genere, e i dati potrebbero essere utilizzati in modo discriminatorio», ha detto al Guardian il neuroscienziato Hervé Chneiweiss. È uno degli esperti che di recente hanno fornito consulenza all’UNESCO per la stesura di un documento che stabilisce una serie di raccomandazioni etiche sullo sviluppo delle neurotecnologie e sarà sottoposto all’approvazione degli stati membri a fine novembre.

È la prima volta che il settore delle tecnologie che permettono l’accesso diretto e l’influenza sul cervello umano, come gli impianti cerebrali, viene regolato dall’agenzia delle Nazioni Unite per la cooperazione tra gli stati nell’ambito dell’istruzione, della scienza, della cultura, e della comunicazione. Il documento è parte di uno sforzo internazionale crescente per regolare un settore che finora si è in larga parte sviluppato senza supervisione. Ma è anche considerato un effetto indiretto delle preoccupazioni suscitate appunto da certe affermazioni dei miliardari che possiedono o finanziano le più ricche e famose società di neurotecnologie.

Stando alla definizione dell’agenzia, per neurotecnologia si intende un insieme di metodi, dispositivi e sistemi in grado di misurare, analizzare, prevedere o modulare l’attività cerebrale, per scopi medici, di ricerca o commerciali. In generale, è possibile distinguere tre diverse categorie di neurotecnologie.

Ci sono i dispositivi medici: per esempio, gli impianti cerebrali che possono decodificare il linguaggio interiore di pazienti paralizzati, o quelli di Neuralink, che dal 2024 permettono a un paziente con paralisi di controllare un computer con il pensiero e di giocare ai videogiochi. Anche se ancora agli albori, sono le tecnologie che in anni recenti hanno compiuto i progressi più significativi: in futuro potrebbero permettere il ripristino della vista e dell’udito in pazienti che li hanno perduti, e la cura di malattie neurodegenerative.

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Poi ci sono i dispositivi indossabili, una categoria relativamente recente di prodotti di consumo. Include, per esempio, speciali auricolari dotati di elettrodi per la rilevazione delle onde cerebrali (lo stesso sistema dell’elettroencefalogramma), ma nella sua accezione più larga anche dispositivi come i visori di Apple, che tracciano i movimenti oculari. È una categoria più difficile da regolamentare, perché sono dispositivi liberamente in commercio e perché non è chiaro se e quanto siano attendibili i dati che generano.

L’ultima categoria di neurotecnologie è quella che riguarda le applicazioni e i progetti più “fantascientifici”, come quello di Nectome, o i recenti tentativi di Neuralink di registrare i marchi Telepathy (“telepatia”) e Telekinesis (“telecinesi”). Sono progetti perlopiù basati sull’ipotesi che persone prive di lesioni o disturbi accettino volontariamente di subire procedure e ricevere impianti cerebrali invasivi allo scopo di trasferire dati su un computer.

Ammesso sia possibile sviluppare un giorno tecnologie del genere, secondo Hendricks, è improbabile che il problema della sorveglianza diventi più urgente, considerata l’enorme quantità di dati personali anche molto puntuali di cui le grandi aziende tecnologiche già dispongono.