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  • Venerdì 7 novembre 2025

Forse ora sapremo qualcosa in più sul caso di Moussa Diarra

La procura ha chiesto l'archiviazione per il poliziotto che uccise un uomo maliano a Verona, e gli avvocati della famiglia attendono le carte dell'inchiesta

La polizia davanti alla stazione di Verona Porta Nuova, 20 ottobre 2024 (Ansa)
La polizia davanti alla stazione di Verona Porta Nuova, 20 ottobre 2024 (Ansa)
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Il 5 novembre la procura di Verona ha chiesto l’archiviazione nei confronti del poliziotto indagato per l’omicidio di Moussa Diarra, l’uomo maliano di 26 anni ucciso nell’ottobre del 2024 con un colpo di pistola davanti alla stazione principale della città. Al termine delle indagini, durate oltre un anno, è stato stabilito che l’agente avrebbe agito per legittima difesa perché Diarra teneva nella mano destra un coltello da tavola senza arretrare di fronte al poliziotto, e facendolo sentire in pericolo.

Il poliziotto avrebbe dunque messo in atto una difesa «senza alcun dubbio» proporzionata all’offesa sparando tre colpi: il primo in aria, il secondo ad altezza uomo che aveva sfiorato Diarra finendo poi su una vetrata alle sue spalle, e il terzo che lo aveva colpito in pieno petto. Per il procuratore di Verona Raffaele Tito la proporzione deriverebbe dal fatto che l’aggressione con un coltello «non è meno letale della pistola perché l’utilizzo di un’arma da fuoco richiede tempo di estrazione e mira».

Ora gli avvocati e le avvocate della madre di Diarra e dei suoi tre fratelli avranno trenta giorni di tempo per vedere gli atti dell’indagine (che ancora non sono stati messi a loro disposizione) e di opporsi alla richiesta di archiviazione. In seguito la giudice per le indagini preliminari Livia Magri deciderà se e come proseguire: potrebbe disporre l’archiviazione, come chiede la procura; potrebbe decidere, in base ai nuovi elementi portati dagli avvocati di Diarra, di proseguire le indagini; oppure potrebbe disporre un’imputazione coatta nei confronti del poliziotto.

Il modo in cui sono state gestite finora le indagini e come procura e questura hanno portato avanti la comunicazione sul caso hanno sollevato diverse perplessità, non solo tra chi sta assistendo la famiglia Diarra ma anche tra i movimenti e le associazioni cittadine che seguono il caso, e che si sono riunite in un comitato.

Fabio Anselmo, già legale di Stefano Cucchi, ha commentato negativamente anche quest’ultima notizia: la procura, dice, «ha inteso privilegiare la stampa e la politica rispetto ai difensori e alla famiglia della persona che è morta». Mentre «richiedeva alla famiglia di Diarra 8 euro per poterli mettere a conoscenza delle motivazioni che hanno fondato la richiesta di archiviazione ha compendiato queste stesse motivazioni in un comunicato stampa dato ai giornalisti». Ancora una volta, prosegue Anselmo, «la famiglia e gli affetti del morto, la dignità degli stessi e il necessario rispetto verso il loro bisogno di conoscere le cause e le condizioni della tragica morte di Moussa, oltreché i loro diritti di difesa» sono passati in secondo piano «rispetto all’esigenza di informare la stampa e la politica».

Durante l’ultimo anno, inoltre, mentre gli avvocati hanno «correttamente rispettato l’ordine di secretazione degli atti imposto dal pubblico ministero in fase di indagini», silenzio a cui sono stati richiamati anche attraverso comunicazioni specifiche provenienti dalla procura, diverse notizie, foto provenienti dagli atti e comunicazioni varie sembrano essere invece arrivate sempre alla stampa. E dalla stampa i legali e la famiglia le hanno apprese.

Moussa Diarra viveva in un contesto di marginalità. Era nato nel 1998 a Sandiambougou, nel sudest del Mali dove, dal 2012, sono in corso una guerra civile e un’insurrezione guidata dai gruppi terroristici di al Qaida e dello Stato Islamico che ha provocato migliaia di morti e milioni di sfollati. Scappato dalla guerra, ancora minorenne, era arrivato in Libia, dove era stato trattenuto e torturato nei centri di detenzione del paese indirettamente finanziati dal governo italiano. Nel 2016 era riuscito, pagando, a uscirne e a sbarcare a Lampedusa. Una volta arrivato a Verona era stato inserito a Costagrande, un centro poi chiuso nel 2019 per il sovraffollamento, per il rapporto operatori-migranti di circa 1 a 80 e per le pessime condizioni igieniche e di vita denunciate da chi ci viveva.

A Costagrande Diarra aveva iniziato la complicata e lunghissima trafila per regolarizzare la propria situazione. Nel frattempo aveva ottenuto vari contratti di lavoro, ma una volta uscito dal percorso di accoglienza si era trovato a vivere di espedienti, tra mense, dormitori, spazi creati dai movimenti veronesi per offrire un minimo di assistenza e centri di salute per persone migranti. Soffriva da anni di depressione.

– Leggi anche: La storia di Moussa Diarra, una storia comune

Il fine settimana in cui morì lo spazio dove Diarra dormiva venne chiuso perché non aveva più le condizioni di sicurezza necessarie per rimanere aperto. Nella notte tra il 19 e il 20 ottobre Diarra aveva dunque vagato per la città in uno stato di forte agitazione. Prima di arrivare in stazione aveva avuto a che fare con una pattuglia della Polizia locale. Intorno alle 5 del mattino raggiunse la stazione dove danneggiò le vetrine della tabaccheria e della biglietteria. Dopodiché si trovò davanti all’agente della Polizia ferroviaria che gli sparò, secondo la procura per difendersi da un’aggressione di Diarra.

La foto di Moussa Diarra e i volantini per chiedere verità e giustizia sul suo omicidio appesi alla vetrata della stazione di Verona frantumata da uno dei tre colpi sparati dall’agente della Polfer, Verona, 22 ottobre 2024 (ANSA)

Subito dopo uscì un comunicato stampa congiunto della procura, cioè di chi doveva indagare, e della questura, cioè l’ufficio del poliziotto su cui si stava indagando. Nel comunicato si diceva che l’agente coinvolto era indagato per eccesso colposo di legittima difesa (cioè quando si compie un reato sproporzionato alle violenze subite, ma senza l’intenzione piena di causare una certa conseguenza) e che si stavano analizzando tutte le immagini registrate dalle telecamere presenti nella zona. Si diceva anche che le telecamere avevano ripreso proprio il momento dello sparo e che confermavano la versione della legittima difesa del poliziotto.

Qualche giorno dopo il procuratore di Verona Raffaele Tito modificò, di fatto, questa prima comunicazione, dicendo che la telecamera nel punto dove Diarra era stato colpito non funzionava, cioè la telecamera centrale della principale stazione della città, sottoposta a norme antiterrorismo. Aggiunse anche che c’era un altro filmato registrato da una telecamera più lontana, ma di scarsa qualità, che quindi era stato inviato alla scientifica per cercare di migliorare la definizione delle immagini.

Nel frattempo diversi giornali e televisioni locali riferirono, per una presunta fuga di notizie e facendo intendere di averli visti, i contenuti di alcuni video relativi al caso, video in teoria inaccessibili perché sotto segreto istruttorio e che, secondo quanto quei giornali e quelle televisioni dicevano, confermavano la versione di procura e questura. Qualche giorno fa, in un servizio del TG regionale del Veneto, è stata anche mostrata una fotografia del coltello da tavola impugnato da Diarra che sembra provenire proprio dagli atti dell’indagine.

Le avvocate di parte Paola Malavolta e Francesca Campostrini, a cui poi si sono aggiunti anche Fabio Anselmo e Silvia Galeone, hanno fatto più volte richiesta di sequestro delle telecamere, tutte rigettate. Poco collaborative si sono dimostrate anche le diverse società attive nella stazione che non hanno fornito loro l’elenco dei dipendenti in servizio quella mattina, per capire se qualcuno avesse visto qualcosa. Il gruppo di legali aveva inoltre chiesto alla prefettura di Verona l’elenco delle chiamate al numero di emergenza 112 fatte quel giorno, per capire se qualcuno in quelle ore precedenti all’omicidio avesse provato a chiedere un’ambulanza per l’uomo, in evidente stato confusionale e di alterazione. Ma non erano stati dati né i nomi dei poliziotti in servizio né il registro delle chiamate al 112.

– Leggi anche: Nelle indagini sulla morte di Moussa Diarra mancano pezzi

Infine è arrivato ai giornali il comunicato della procura con la notizia dell’archiviazione. La procura, si dice, «ritiene che l’indagato non sia punibile avendo commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, ponendo in essere una difesa senza alcun dubbio proporzionata».

Gli avvocati e le avvocate della famiglia Diarra sono ora in attesa del fascicolo integrale dell’indagine con le perizie, le testimonianze, i video, i vari rilievi e tutto quel che contiene. Una delle cose che cercheranno di capire, spiega il comitato che sostiene la famiglia di Diarra, è se ci siano stati dei vuoti nell’indagine, se siano state fatte delle perizie anche sul poliziotto coinvolto e sul suo profilo, quali video esistano effettivamente, quale la loro qualità e, in generale, se ci sia stata una parzialità nell’indagine «che la polizia ha condotto su se stessa».