Perché molti dj sono in fissa con i vinili?
È questione di alzare la “soglia d'accesso” a un mestiere che con il digitale è diventata troppo bassa e della solita, stramaledettissima, ricerca di autenticità

La prima volta che ho messo due dischi uno dopo l’altro “a tempo” era la primavera del 1985. Ovviamente mi ricordo perfettamente che dischi fossero: erano How Soon Is Now? degli Smiths e Shout dei Tears For Fears, in questo esatto ordine. Il fatto che il primo dei due racconti la storia di un tizio che va in un club sperando di trovarci l’amore e ne esce ore dopo disilluso e da solo, è in qualche modo coerente col fatto che la scena primaria del mio djismo avvenne un mercoledì pomeriggio, di fronte alla pista ovviamente deserta di un club new wave nel centro storico di Genova in cui di lì a qualche giorno avrei cominciato a “mettere i dischi” (la domenica pomeriggio, poi promosso alla prima parte del sabato sera).
Da allora non avrei mai smesso, e anche se i lavori con cui ho pagato le bollette nei quarant’anni successivi avevano a che fare soprattutto con i giornali e le radio (e tutte le varie forme di “content” venute dopo), la cosa di “mettere i dischi” – cioè essere pagato per fare una cosa che comunque facevo a tempo pieno nella mia cameretta, e poi nelle diverse case in cui ho vissuto – è stata una costante. Oltre che un conforto nei momenti bui: di un’estate in cui sembrava andare tutto storto – lavoro, amore, salute: l’intero pacchetto tematico dell’oroscopo – rimane memorabile e piacevole soltanto il ricordo di mettere i dischi prima e dopo il concerto del trio jazz residente tutti i martedì sera in un ormai defunto locale dei Navigli milanesi (il 65mq). Incluso quello del turista giapponese che mi guardò con odio perché avevo sfumato a metà l’assolo al piano di McCoy Tyner in My Favorite Things di John Coltrane.
In quella famosa estate avevo smesso di usare i dischi in vinile da ormai sette anni, e quindi “suonavo i cd”. Colgo qui l’occasione per affrontare una delle grandi polemiche che da sempre accompagnano il mestiere del dj: la rumorosa riprovazione dei musicisti per il fatto di usare il verbo “suonare”. Lo farò senza neanche il disturbo di cavillare con argomenti tipo: «Ehi, ma creare una sequenza di brani richiede una tecnica, una sensibilità e un esercizio paragonabili a padroneggiare un basso fretless». Più banalmente, amici musicisti, nella lingua italiana il verbo “suonare” lo si usa anche per il campanello di casa, e non mi risulta che nessun professore d’orchestra o nessun chitarrista metal sia mai sceso in piazza per lamentarsi dell’oltraggio. Forse perché alla fine è solo un verbo.
I cd, dicevamo. Dall’inizio del millennio a oggi, il mestiere del dj ha attraversato più cambiamenti tecnici che nei 57 anni precedenti (se prendiamo per buono il 1943 come anno ufficioso di nascita del mestiere, quando cioè – in una cittadina a una ventina di chilometri da Leeds, Otley – la futura controversa star televisiva inglese Jimmy Savile ebbe l’intuizione che suonando dei dischi uno dopo l’altro la gente avrebbe ballato esattamente come se avesse avuto di fronte un’orchestra).
Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila i cd (più leggeri, più maneggevoli, più economici) hanno silenziosamente iniziato a sostituire i dischi in vinile, a loro volta soppiantati negli anni Zero dai file digitali – che era possibile riprodurre grazie a software per computer come VirtualDJ, o addirittura un innovativo sistema chiamato Final Scratch con cui il dj pilotava i file contenuti dentro al proprio laptop utilizzando due vinili posizionati sui soliti due giradischi, dunque con un colpo d’occhio scenografico indistinguibile da quello dei dj tradizionali.
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Da allora siamo passati dalle applicazioni per smartphone e iPad a tutta la galassia dei “controller” (unità esterne da collegare al laptop che riproducono in piccolo il setting di due giradischi e un mixer) e alle app di ultimissima generazione che utilizzano come database musicale le piattaforme di streaming. Mentre da ormai una decina abbondante di anni, i dj ancora affezionati alla manualità tradizionale hanno barattato la valigia dei dischi con una chiavetta USB, da utilizzare su console piene di pulsanti, lucette e manopole che alla fine non sono così diverse da quelle per vinile o cd.
Il vantaggio delle chiavette USB e degli altri sistemi digitali – al di là della lampante praticità (portarsi dietro una pennetta da pochi grammi con dentro potenzialmente qualche migliaio di pezzi, anziché parecchie valigie pesanti piene di pezzi rotondi di plastica dentro buste quadrate di cartone) – è che permettono ai dj più creativi di usare in tempo reale musica creata da loro e magari non ancora uscita nei canali ufficiali, versioni rieditate di pezzi famosi, cose insomma che rendano i loro set “unici” e riconoscibili.
Stando così le cose, non dovrebbe esserci alcun dubbio riguardo a cosa sia meglio tra il vecchio e il nuovo. E invece, nel 2025, di fronte alla libera scelta tra semplificarsi e complicarsi la vita, un numero non irrilevante di dj decide inspiegabilmente che viaggiare come un’antica diva del cinema – cioè con alcuni bauli di masserizie al seguito – sia una buona idea. Scelta che nel frattempo è ovviamente diventata pure “storytelling” – lo scorso luglio il festival belga di musica elettronica da ballare (EDM) Tomorrowland ha celebrato il primo dj set “vinyl only” della sua ventennale storia – ma soprattutto retorica identitaria, per cui i “veri dj” son solo quelli che usano il vinile, e i loro flyer d’invito a serate “100% vinyl” per simpatia e buonumore stanno giusto una tacca sotto i cartelli filo-Amish di certe osterie: «Non abbiamo il wi-fi, parlate tra di voi».
Se lo chiedi ai diretti interessati – cioè ai dj con un quintale di bagaglio al seguito – ti diranno che è così «perché sì»; che è un modo per sentirsi parte della tradizione del mestiere di suonatore di dischi; che è il bisogno di «salvaguardare la cosa vera» a guidarli. E ovviamente hanno ragione.
Siamo tutti cresciuti con le mirabolanti storie dei locali “disco” newyorkesi della seconda metà degli anni Settanta: il Sanctuary dove Francis Grasso trasformò il cucire un’eterogenea sequenza di dischi in una forma d’arte (alimentando, en passant, la leggenda di essere in grado di mixare tra loro due dischi senza errori mentre una groupie gli praticava del sesso orale sotto la console); David Mancuso, talmente impallinato con la qualità dell’ascolto che le puntine dei suoi giradischi – al Loft sulla Broadway – erano fabbricate su misura da un artigiano giapponese specializzato nel forgiare le spade da samurai. Fino al più leggendario di tutti, Larry Levan: così bravo nel creare l’atmosfera usando solo due giradischi (qualcuno l’ha definito «il Jimi Hendrix dei dj», inclusa la prematura fine) che al Paradise Garage – aperto nel 1977 in un vero garage a Lower Manhattan – capitava non di rado che la gente in pista scoppiasse in lacrime per l’emozione. E neanche citiamo il northern soul, sottocultura ancora vivacissima anche qui in Italia, nata nel nord dell’Inghilterra sul finire degli anni Sessanta per celebrare i singoli “minori” e le hit mancate dell’epoca d’oro del soul americano: nel caso del northern soul il culto attorno a certi pezzi nasce spesso dall’irreperibilità del relativo 45 giri, per cui è ovvio (e pure condivisibile) il rigore con cui i relativi dj rifiutano il passaggio al digitale.
Tutto giustissimo, insomma. Non fosse che, come molte intransigenze moderne, pure quella dei dj “100% vinyl” è sempre lì sull’orlo di diventare crociata ideologica. Oltre che parente stretta di quella feticizzazione del vintage – la ricerca, in un passato idealizzato, di un’aura autentica e irripetibile – già avvistata in serie tv come Riverdale e Stranger Things, al Bar Luce della Fondazione Prada, oltre che naturalmente su innumerevoli bacheche di Pinterest.
Ultimamente, la ricerca di autenticità legata al vinile la ritroviamo pure in certi nuovi luoghi della gentrificazione, i cosiddetti listening bar: ex posti da aperitivi riorganizzati attorno a due giradischi e un impianto audio di buona qualità (circa una decina aperti solo negli ultimi dodici mesi a Milano). Moda, quella dei listening bar, che ha già trovato pure la sua incarnazione high-brow, cioè “intellettuale”, nella “sala d’ascolto” Voce, inaugurata a maggio in un avamposto della cultura milanese come la Triennale, e nella sua cugina bolognese Sala Ascolto Vinili alla Biblioteca Salaborsa («Il vinile offre qualcosa di unico: un’esperienza tangibile. Non è solo musica, ma un rituale» spiega il comunicato stampa: «Scegliere un disco, sfilarlo dalla copertina, adagiarlo con cura sul giradischi, lasciar scendere la puntina: ogni gesto è intriso di attenzione»).
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In altre parole, e tornando a noialtri suonatori di dischi: usare il vinile farà sicuramente la sua figura nelle stories di Instagram, ma non fa di te un dj migliore o un difensore di qualche presunto patrimonio dell’Unesco. Tutt’al più – dice un mio conoscente, dj piuttosto affermato che ha però richiesto l’anonimato – «fa di te un dj che ha 16 euro da spendere per un dodici pollici, contro l’euro e 50 di una traccia digitale acquistata online». Il che ci porta al punto centrale della faccenda, oltre che all’unica ragione per cui ’sta crociata sul vinile ha (forse) un senso.
Tutta l’evoluzione tecnologica legata al mettere musica, di cui si diceva qualche capoverso fa, ha avuto come principale conseguenza il facilitare enormemente l’accesso al mestiere di dj. Una volta – e parliamo di vent’anni fa, mica un secolo – per fare il dj dovevi “avere i dischi”, il che significava un investimento economico costante nel tempo, oltre che un investimento di tempo per cercare titoli meno noti che gli altri dj non avevano, che quindi rendessero la tua selezione unica (chi era dj nei primi anni Duemila potrebbe raccontare di voli Ryanair presi la mattina presto e voli di ritorno il pomeriggio tardi solo per andare a Londra a comprare i dischi).
Una diminuita barriera in entrata al mestiere di mettere i dischi è ovviamente una cosa buona – per esempio ha permesso un maggiore gender balance (i negozi di dischi specializzati erano tradizionalmente una roccaforte maschilista, quindi rappresentavano un ulteriore sbarramento d’accesso) – ma zero barriere d’ingresso è alla lunga un problema pure quello.
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Non è un’iperbole dire che nello scenario attuale siamo tutti dj. La tecnologia semplificata, l’accesso istantaneo a tutta la musica del mondo e dieci anni abbondanti di playlist di Spotify hanno convinto chiunque di essere un selecter formidabile (questo è il punto in cui le fotografe e i fotografi che stanno leggendo diranno: «Dj, fratello, come ti capisco!»). Il risultato – analogamente a tutte le situazioni in cui a vincere è il messaggio: «Anche io posso farlo!» – è una profonda, irreversibile svalutazione del mestiere del dj. E, intendiamoci: è vero.
Mettere un pezzo dopo l’altro in una selezione che abbia un senso è una cosa che chiunque con un minimo (ma veramente un minimo) di orecchio e conoscenza della materia può fare. Quello che dj come Francis Grasso, David Mancuso e Larry Levan aggiungevano alla semplice selezione (ma possiamo ovviamente citare anche contemporanei come Laurent Garnier, Jamie xx, Lena Willikens…), era il non accontentarsi mai della soluzione più ovvia, della scelta più uniforme (che è invece esattamente quello che fanno gli algoritmi di Spotify), era l’insaziabile ricerca – sempre – di qualcosa di “nuovo” da condividere.
Nessun dj improvvisato ruberà mai il lavoro a Laurent Garnier, ovviamente, ma il danno si sentirà (e parecchio) ai piani più bassi della catena alimentare, dove si instaureranno subito quelle dinamiche di “lotta tra poveri” ben note alla classe culturale disagiata. E qui torniamo al vinile, e al suo ruolo “moralizzatore” nell’attuale ecosistema dei dj.
Nel momento in cui l’accesso è aperto a tutti a costo zero e fatica zero, erigere una barriera artificiale («i veri dj usano solo il vinile!») può sembrare una risposta corretta, sia pure vagamente reazionaria. Ma il vero problema, probabilmente, è che la partita è ormai irrimediabilmente truccata. Da un lato la svalutazione del ruolo del dj e una crescita esponenziale dell’offerta, dall’altro il desiderio (oggi anabolizzato pure da Instagram) di esserci e farsi vedere: cosa mai potrà andare storto?
Un dj che abita San Francisco ma che vive sei mesi all’anno in Europa – lo incontro la vigilia di Ferragosto a una grigliata – mi dice che «…A meno che tu non sia un nome di prima grandezza, a Ibiza ormai hanno tutti smesso di pagare i dj. Sanno che accetterai comunque, fosse anche solo per far vedere sui social che suoni a Ibiza». Sospetto parli da uomo ferito (due date che gli aveva trovato mesi prima il suo agente sono saltate all’ultimo, da cui la grigliata di ripiego qui in Italia), ma qualcosa di vero c’è.
Più o meno dodici mesi prima, giugno 2024, un veterano della scena inglese che da qualche anno scrive libri e sta sui social con lo pseudonimo The Secret DJ. aveva postato il leak di un carteggio tra un dj (rimasto anonimo) e un promoter dell’evento “Ibiza Global Festival”, in cui l’organizzatore confermava che «…il prezzo da pagare per suonare al festival è 5.000 euro, e include la promozione su tutti i nostri media e la stampa internazionale». Pagare per suonare, esatto.
Neanche il tempo di commentare «vergogna!» (diventiamo tutti un po’ il Gabibbo quando ci toccano sulle cose che ci stanno a cuore) e i più sgamati della mia bolla mi rispondono: «Buongiorno, principessa». Come a dire che ’sta usanza mica è nata adesso (anche se la novità, mi pare, è che adesso c’è un vero e proprio tariffario ufficiale). Che fine potrà fare un sistema che normalizza la pratica di pagare per lavorare? Finirà in mano ai dopolavoristi di lusso: turisti della console che possono permettersi di non essere pagati o addirittura di pagare loro.
Il prototipo è David Solomon, sessantatreenne amministratore delegato della banca d’investimento Goldman Sachs che da una decina d’anni, col nome “DJ D-Sol”, ha una carriera parallela come dj EDM che lo ha portato fin sul palco del festival Lollapalooza. (Il “wolf of Wall Street” e la sua doppia vita da dj: un’eventualità cui neanche gli sceneggiatori di South Park avevano mai pensato).
Il mio amico Rocco Civitelli – che se siete addentro alla nightlife milanese forse conoscete come inventore e dj-in-chief della serata Body Heat (per molti anni ospitata in un karaoke cinese in via Paolo Sarpi) – dice che, oltre a fare dumping sul mercato, i dj dopolavoristi «…È come se rompessero un patto non scritto. Un tempo intraprendere una professione creativa significava fare una scelta di campo, rinunciare a certe sicurezze economiche in cambio della libertà e della soddisfazione di essere “artista”. I dopolavoristi si prendono l’una e l’altra cosa, lasciando solo terra bruciata».
È dunque la fine del mestiere di dj? Come risponde il regista Paul Thomas Anderson a Leonardo DiCaprio che gli chiede dove stia andando il business del cinema (l’intervista sta sul numero dello scorso agosto della rivista Esquire): «È inutile farsi prendere dal panico che per l’ennesima volta tutto stia per finire. Meglio restare calmi, tenere la testa bassa e impegnarsi nel proprio lavoro. Il resto è solo rumore». Anche io, nel mio piccolo (piccolissimo), nel quarantennale dei primi due dischi mixati in quel club new wave deserto, dopo essere passato – come tutti – ai cd e poi alle chiavette USB, lo scorso luglio ho accarezzato l’idea di tornare al vinile.
Ci ho pensato al termine di un trasloco durato tre anni, quando ho vuotato gli ultimi scatoloni e realizzato di possedere abbastanza 45 giri (ammassati in una vita precedente di accumulatore seriale) per un dj set decente. Solo 45 giri, perché è il formato più sfigato che esista – quindi fuori da qualsiasi velleità fighetta da listening bar – e quello meno controllabile e più complicato da suonare, ma come mi aveva detto qualche anno fa Stephen Dewaele dei 2manydjs (che a sua volta era tornato al vinile insieme a suo fratello David e a James Murphy degli LCD Soundsystem, con un progetto folle di club semovente chiamato Despacio):
«Certe volte devi complicarti la vita per fare qualcosa di interessante».
Ho fatto persino una prima serata di prova, a fine estate, su una terrazza sul mare di certi amici legati al mondo dell’arte contemporanea. Dopo cinque minuti passati a cercare di riprendere la mano su un modello di giradischi che non toccavo dal dicembre 2007, avevo una grande nostalgia delle mie chiavette USB. Però sono finito in un sacco di stories di Instagram.
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