La stagione di raccolta delle olive in Cisgiordania è la più violenta da anni
I coloni attaccano gli agricoltori palestinesi, spesso con il sostegno dell'esercito israeliano, e sono stati arrestati anche volontari stranieri

Ottobre e novembre in Cisgiordania sono i mesi della raccolta delle olive, un momento importante: gli ulivi, piante longeve e resistenti, sono una delle principali risorse dell’agricoltura locale, ma vengono anche considerati un simbolo del popolo palestinese, della sua capacità di resistenza e del legame con la propria terra. Dal 1967 Israele occupa illegalmente parti sempre più ampie della Cisgiordania costruendo colonie e insediamenti illegali, e da decenni i coloni complicano o impediscono la raccolta tagliando, bruciando e distruggendo gli ulivi.
Negli ultimi anni violenze e intimidazioni verso gli agricoltori palestinesi sono molto aumentate, e quest’anno sono diventate pressoché sistematiche: le Nazioni Unite hanno segnalato 126 attacchi di coloni nel mese di ottobre, il numero più alto almeno dal 2020. Spesso i coloni che prendono di mira gli agricoltori palestinesi sono minorenni, sono accompagnati da uomini armati e hanno come obiettivo le donne.
Fino al 2011 i campi di ulivi riempivano circa il 57 per cento dei terreni agricoli fra Cisgiordania e Gaza. Gli alberi di ulivi erano quasi 8 milioni ed erano la principale fonte di reddito per circa 100mila famiglie palestinesi. Oggi, per via degli attacchi dei coloni, agli agricoltori è spesso impedito di accedere ai campi, soprattutto se sono vicini a insediamenti israeliani, o all’acqua necessaria per irrigarli. Gli episodi di vandalismo, con alberi tagliati o bruciati, sono frequenti: 4mila alberi sono stati danneggiati solo nel 2025, secondo dati delle Nazioni Unite. In alcuni casi i campi sono stati distrutti con i bulldozer.

Volontari internazionali e agricoltori palestinesi a Silwad, il 29 ottobre 2025 (AP Photo/Nasser Nasser)
I coloni sono spesso affiancati dall’esercito israeliano, che non interviene per fermare gli attacchi ma al contrario arresta gli agricoltori palestinesi o li costringe a lasciare i campi: a luglio il dipartimento per i diritti umani delle Nazioni Unite (OHCHR) aveva scritto che le violenze avvengono «con il consenso, il sostegno e, in alcuni casi, la partecipazione delle forze di sicurezza israeliane». La scorsa settimana a Turmus Aya, vicino a Ramallah, l’esercito israeliano ha usato gas lacrimogeni per cacciare gli agricoltori.
Da qualche anno varie organizzazioni locali e internazionali si adoperano per sostenere gli agricoltori mandando nei campi di ulivi dei volontari stranieri che, con la loro presenza, cercano di evitare o limitare le violenze. Di recente però anche loro sono stati coinvolti negli attacchi: due settimane fa 32 volontari di varie nazionalità, tra cui almeno una donna italiana, sono stati arrestati, detenuti in Israele e poi espulsi. In alcuni casi i volontari filmano e documentano le intimidazioni quando avvengono.
Fra le organizzazioni che favoriscono l’arrivo dei volontari ci sono l’Unione dei Comitati di Lavoro Agricolo (UAWC), il principale sindacato agricolo della Cisgiordania (che Israele ha inserito fra le organizzazioni terroristiche nel 2021), ma anche associazioni palestinesi come International Solidarity Movement o The Excellence Center. Tutti dicono che il sostegno alla popolazione palestinese nel momento della raccolta è particolarmente importante per la sopravvivenza della comunità minacciata dall’espansione delle colonie e dagli interventi militari israeliani.

Un campo con gli ulivi tagliati a Khirbet Abu Falah, Ramallah, nell’ottobre del 2025 (Faiz Abu Rmeleh/Getty Images)
Martina Stefanelli ha partecipato a una di queste iniziative come volontaria ed è stata arrestata. Ha ottenuto un visto turistico per Israele ed è entrata in Cisgiordania il 12 ottobre, passando dalla Giordania e dopo aver superato una serie di checkpoint e controlli. Racconta al Post che ogni giorno piccoli gruppi di volontari aiutavano la raccolta in un campo diverso, e che quasi sempre assistevano all’intervento dei coloni, che intimidivano gli agricoltori con «lanci di sassi, con i cani, con la presenza di uomini armati».
Dice che il 16 ottobre una trentina di volontari, tra cui lei, era in un campo vicino a Nablus: prima è arrivato «un gruppo di ragazzini a bordo di quad, poi un colono in abiti civili ma armato di mitra». I coloni hanno detto ai volontari di andarsene. Questi sono istruiti a seguire le indicazioni dell’agricoltore e a non rispondere alle provocazioni. Dice che i volontari sono inizialmente rimasti, poi dopo l’arrivo dell’esercito si sono spostati in un altro campo, infine sono stati cacciati anche da lì: «Siamo andati nel cortile della casa dell’agricoltore, e i militari sono arrivati anche lì, dicendoci che avevamo violato una zona militare».
Come in altri casi simili, l’esercito israeliano ha presentato una mappa di una zona definita «zona militare provvisoria», dove i civili non possono entrare per un periodo di tempo limitato, spesso di 24 ore (ma prorogabile). Attivisti e palestinesi denunciano che queste mappe sono create su misura per impedire agli agricoltori di accedere ai campi. In questo caso poi l’area comprendeva anche il terreno in cui si trova la casa.

La mappa della zona militare presentata ai volontari il 16 ottobre (Foto: Martina Stefanelli)
I 32 volontari sono stati arrestati. Stefanelli dice che nelle ore e nei giorni successivi sono stati detenuti in varie strutture e trasferiti più volte, interrogati ripetutamente, minacciati e mantenuti a lungo all’oscuro di ciò di cui erano stati accusati. Come era successo agli attivisti della Global Sumud Flotilla, Stefanelli dice che hanno dovuto scegliere se firmare o meno un documento in cui “accettavano di essere espulsi”.
«Qualcuno ha firmato, qualcuno no, ma non ci sono state differenze. Ci hanno accusato di sostegno a un’organizzazione terroristica, ingresso irregolare nel territorio, rifiuto a lasciare una zona militare e ironicamente di “disturbare la pace”», aggiunge. Le accuse hanno causato la sospensione del visto e l’espulsione dal paese.

Il blocco militare a Si’ir, Hebron, il 23 ottobre 2025 (Faiz Abu Rmeleh/Getty Images)
Non è la prima volta che volontari impegnati nella raccolta delle olive vengono espulsi (nel 2024 era accaduto a 15 stranieri), ma questo genere di trattamento non è nemmeno la norma, o almeno non lo è stato fino ad oggi. L’anno scorso gli attacchi resero impossibile la raccolta in 96 chilometri quadrati di oliveti, con una perdita economica stimata intorno ai 10 milioni di dollari. Quest’anno nel mese di ottobre la situazione è ulteriormente peggiorata, secondo tutte le testimonianze raccolte dai media internazionali.
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