Come nacque Hamas
Lo racconta lo storico Jean-Pierre Filiu nel libro "Niente mi aveva preparato", mentre ci guida tra le sofferenze e la distruzione a Gaza

Nel suo diario di un mese a Gaza tra la fine del 2024 e le prime settimane del 2025, oggetto del libro Niente mi aveva preparato (Altrecose), lo storico francese Jean-Pierre Filiu mette anche molte spiegazioni di contesto e precedenti: per permettere a chi legge e visualizza le scene attuali di capire qual è la storia che le precede. Un capitolo intitolato “L’anniversario” si apre sulla giornata del 2 gennaio e sulla genesi del successo del movimento Hamas, che finirà a governare la Striscia e a rendersi responsabile principale della guerra contro Israele, di attentati terroristici, e delle stragi del 7 ottobre 2023. Prosegue poi spiegando il suo rapporto odierno con la popolazione di Gaza e con i clan familiari più potenti.
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Il sole che apre il 2025 permette di riparare faticosamente i danni del giorno precedente. Da una tenda all’altra gli sfollati si mettono all’opera, ringraziando Dio di essere riusciti a superare questa ulteriore prova.
Ne approfittano per rinforzare i picchetti, livellare il terreno, scavare i canali più a fondo. Mettono ad asciugare tutto quello che possono – i vestiti, le coperte, i materassi e persino i tappetini da campeggio. I campi profughi diventano un patchwork di colori sullo sfondo grigio dei rifugi di fortuna. Ma i barlumi di speranza di questo 1° gennaio finiscono qui. Oggi il numero di neonati morti di freddo è infatti passato a sette. E i bombardamenti israeliani hanno ucciso ventotto persone in quattro diversi attacchi: quindici a Jabalia, nel Nord, sette a est della città di Gaza, due nel Centro dell’enclave e quattro a Khan Yunis.
Il 2 gennaio è un giorno festivo nella Striscia di Gaza. Sessant’anni fa, nel 1965, Fatah, il «Movimento di liberazione della Palestina», lanciò la sua prima operazione nel Nord del territorio israeliano. L’attentato causò solo danni materiali, ma il commando poté rientrare in Siria sano e salvo. L’impatto di quell’infiltrazione fu notevole: i fedayn, come venivano designati i combattenti palestinesi, avevano preso le armi per affermarsi contro Israele e di fronte ai regimi arabi. Yasser Arafat, che aveva fondato Fatah dall’esilio insieme a una manciata di altri militanti, alcuni dei quali originari di Gaza, poté così proclamare l’avvio della «rivoluzione palestinese». Quattro anni più tardi Fatah e i fedayn assunsero il controllo dell’Organizzazione di liberazione della Palestina (OLP), trasformando questa istituzione, fino ad allora al soldo dell’Egitto, in un movimento finalmente rappresentativo.
L’OLP voleva rimpiazzare lo Stato di Israele con una «Palestina libera e democratica» in cui i cittadini delle diverse confessioni avessero pari diritti. Si dovette aspettare il 1974 perché Arafat facesse adottare alla leadership palestinese la prospettiva di un’«Autorità palestinese» unicamente su una parte del territorio palestinese «liberato». Fu la prima volta che il nazionalismo palestinese si emancipò dal suo disastroso «tutto o niente», laddove per decenni il movimento sionista aveva saputo invece capitalizzare i graduali progressi fino alla proclamazione dello Stato di Israele nel 1948 e all’occupazione di Gerusalemme Est, della Cisgiordania e della Striscia di Gaza nel 1967.
Una minoranza di fedayn guidata dal Fronte popolare di liberazione della Palestina (FPLP) accusò Arafat di aver «capitolato» di fronte al «nemico sionista», e costituì un «Fronte del rifiuto» in opposizione all’OLP.
Nel frattempo a Gaza i Fratelli musulmani dello sceicco Ahmed Yassin proclamarono che i palestinesi avessero perso la loro patria non per la loro debolezza militare, ma a causa della loro mancanza di fede, dando quindi un’assoluta priorità alla reislamizzazione della società palestinese a scapito dell’attivismo nazionalista. Le autorità israeliane sostennero il movimento islamista con l’obiettivo di indebolire l’OLP e di fomentare gli scontri interpalestinesi. Nella Striscia la tensione continuò ad aumentare fino all’avvio, nel 1987, della prima intifada. I giovani militanti di questa «rivoluzione delle pietre» rifiutarono il ricorso alle armi e spinsero Arafat e l’OLP a sostenere, nel 1988, la «soluzione dei due Stati», vale a dire la coesistenza pacifica di un futuro Stato palestinese con Israele.
Ancora una volta una minoranza guidata dall’FPLP rifiutò di abbandonare la lotta armata, ma a differenza del 1974 non lasciò l’OLP e si impegnò a rispettare le decisioni collettive.
Messi di fronte a questa sfida pacifista, i Fratelli musulmani passarono da un estremo all’altro, rifiutando di collaborare con l’occupante per trasformarsi nel «Movimento della resistenza islamica», più noto con il suo acronimo arabo Hamas. Solo l’autorità incontestata dello sceicco Yassin permise di imporre un simile voltafaccia agli islamisti, che temevano di perdere le reti di influenza che la benevolenza israeliana aveva permesso loro di creare. Hamas riprese quindi l’appello alla liberazione di «tutta» la Palestina che l’OLP aveva appena abbandonato. E nel 1991 si dotò a Gaza di un corpo armato, le brigate al-Qassam, dal nome dello sceicco Ezzedin al-Qassam, un guerrigliero siriano ucciso nel Nord della Palestina dall’esercito britannico nel 1935. Nel suo simbolico braccio di ferro con l’OLP, Hamas adottava ormai riferimenti di tipo islamista più che nazionalista, precedenti la fondazione di uno Stato ebraico di cui rivendicava la distruzione.
Lo scisma interpalestinese si aggravò ulteriormente nel 1993, quando Arafat e Rabin firmarono gli «accordi di Oslo», che valsero come riconoscimento, per i rappresentanti di entrambi i popoli, della legittimità del nazionalismo dell’altro. Ma l’OLP dovette accontentarsi di un’«Autorità palestinese» delegata dall’occupante sui territori che accettò di evacuare, a cominciare dai tre quarti della Striscia di Gaza. Ed è lì che nel 1994 Arafat fa il suo ritorno trionfale, senza tuttavia rendersi conto che, in un’enclave imbrigliata dalla colonizzazione, non possiede nessun attributo di sovranità. Hamas, fondato a Gaza da un gruppo di islamisti che non hanno mai lasciato questo territorio, oppone agli ex fedayn tornati dall’esilio il suo radicamento locale, oltre a puntare sul fallimento di un processo di pace che i suoi attentati suicidi si impegnano a far deragliare. Arafat soggiorna sempre più di rado nella Striscia, preferendole Ramallah, in Cisgiordania, dove insedia la presidenza dell’Autorità palestinese.
La scommessa di Hamas è coronata dal successo con lo scoppio, nel 2000, di una seconda intifada, segnata questa volta dal ricorso generalizzato agli attentati suicidi. Per quanto condanni questa escalation di violenza, nel 2002 Arafat viene assediato nel suo palazzo presidenziale di Ramallah. Ne esce, nel 2004, solo per un’evacuazione sanitaria verso la Francia, dove muore di lì a poco. Poiché Yassin è stato ucciso in un attacco israeliano qualche mese prima, Fatah e Hamas si ritrovano entrambi orfani dei loro leader storici. Nei due movimenti la successione è sancita da due voti contraddittori: nel gennaio del 2005 Mahmoud Abbas, già leader di Fatah e dell’OLP , viene eletto presidente dell’Autorità palestinese con due terzi dei voti, mentre un anno più tardi Ismail Haniyeh, capo di Hamas, conquista una larga maggioranza di seggi alle elezioni parlamentari.
Se alle elezioni presidenziali l’elettorato palestinese privilegia la continuità tra Arafat e Abbas, a quelle parlamentari esprime la sua opposizione verso la negligenza – per non dire la corruzione – dell’AP. Più che di un voto di adesione, si tratta in tutto e per tutto di un voto di ripiego. Da Ramallah Abbas adotta la strategia del «tanto peggio, tanto meglio» con l’obiettivo dichiarato di indebolire Hamas a Gaza. Rifiuta gli appelli all’unione nazionale di Haniyeh, costretto quindi a formare un governo islamista, a sua volta boicottato dai finanziatori occidentali. Nella Striscia di Gaza Mohammed Dahlan, un veterano di Fatah originario di Khan Yunis, dirige la potente polizia dell’Autorità palestinese e moltiplica gli incidenti con i miliziani islamisti. Ben presto l’enclave è insanguinata da una guerra civile latente, con tanti palestinesi uccisi da altri palestinesi quanti uccisi da Israele.
Nel giugno del 2007 le brigate al-Qassam approfittano di un soggiorno di Dahlan in Egitto per prendere il controllo della Striscia. Gli scontri, simili a dei regolamenti di conti, sono caratterizzati dal dilagare della gambizzazione come mezzo per mutilare a vita il nemico stigmatizzato. I cacicchi di Fatah fuggono verso Israele con le loro famiglie. La rottura tra la presidenza dell’AP a Ramallah e il governo islamista a Gaza è ormai consumata. Sedici anni di blocco israeliano non possono che approfondire questa divisione: non sono più soltanto due direzioni rivali che si affrontano, ma due popolazioni – una in Cisgiordania, una a Gaza – che si allontanano e si ignorano, costrette dall’occupazione a condurre esistenze parallele. Le festività condivise, come l’anniversario di Fatah del 2 gennaio, restano alcune delle ultime vestigia di quella che un tempo fu un’unità nazionale.
In virtù della sua vittoria alle elezioni parlamentari del 2006, Hamas si dichiara ancora oggi l’unica «Autorità palestinese» legittima, sebbene il suo mandato sia ormai scaduto da tempo. Dal canto suo Abbas, il cui mandato è altrettanto obsoleto, si è aggrappato alla poltrona presidenziale, non esitando a sciogliere l’assemblea palestinese nel 2019. Nel corso degli anni l’Egitto ha patrocinato diversi cicli di negoziati interpalestinesi, che si sono tutti arenati sul rifiuto di Hamas di sciogliere le brigate al-Qassam e sull’impossibilità di riassorbire la macchina burocratica delle due «Autorità palestinesi». Hamas è arrivato a investire l’amministrazione di Gaza del titolo di «Stato di Palestina», dopo che nel novembre del 2012 Abbas aveva proclamato simbolicamente uno «Stato» analogo alla tribuna dell’ONU.
Nel febbraio del 2017 Yahya Sinwar assume la guida di Hamas a Gaza, mentre Haniyeh si esilia per dirigere l’ufficio politico, vale a dire la rappresentanza del movimento islamista all’estero. Sinwar è uno dei fondatori del braccio armato dei Fratelli musulmani a Gaza, che ancor prima della nascita delle brigate al-Qassam prendeva di mira i rivali nazionalisti.
Detenuto in Israele dal 1988 al 2011, è stato liberato nell’ambito di uno scambio, accettato da Netanyahu, tra più di mille detenuti palestinesi e un militare israeliano nelle mani di Hamas. Grazie a una perfetta conoscenza dell’ebraico, ha passato buona parte dei suoi vent’anni di detenzione a studiare il dispositivo di sicurezza israeliano, analizzandone le forze e le debolezze.
Sinwar è il primo capo di Hamas a concentrare nelle sue mani la direzione al contempo politica e militare del movimento. Nel maggio del 2017 approva un programma che prevede uno Stato palestinese solo sui territori occupati da Israele cinquant’anni prima.
Si tratterebbe però di una coabitazione senza riconoscimento, l’equivalente per Hamas dell’evoluzione operata dall’OLP fin dal 1974. Sinwar continua a rifiutare qualsiasi negoziato con Israele, limitandosi a non vietare ad Abbas di condurli e ad accettarne in anticipo le conclusioni. La clausola è però puramente simbolica, visto che Netanyahu ha già da tempo ridotto le trattative con l’Autorità palestinese a una pura e semplice «cooperazione securitaria», in primo luogo contro Hamas.
Sinwar è pienamente consapevole del rancore che l’arbitrio, la brutalità e il nepotismo di Hamas suscitano tra gli abitanti di Gaza. Questo non fa che aumentare la sua preoccupazione in merito al calendario elettorale che alcuni partiti indipendenti sia da Fatah che da Hamas sono riusciti a imporre. Le elezioni parlamentari, previste per il maggio del 2021, dovrebbero essere seguite, due mesi più tardi, da quelle presidenziali, a cui Hamas non intende presentarsi. Tuttavia Abbas, che si è impegnato a non concorrere alla propria successione, cambia idea e nell’aprile del 2021 sospende l’insieme del processo. Anziché ribellarsi a questa negazione di democrazia, gli Stati Uniti e l’Unione europea si rallegrano di aver evitato una possibile vittoria islamista in Cisgiordania. Poco importa che in quel momento la popolazione di Gaza fosse pronta a rovesciare il governo di Hamas alle urne.
Il fatto è che il mondo intero si è abituato a considerare la Striscia di Gaza solo nell’ottica del blocco, per quanto adattato in modo più o meno «umanitario».
Sono pochi quelli che contestano ancora l’assimilazione israeliana tra il popolo di Gaza e l’apparato di Hamas. Sebbene nel giugno del 2021 Netanyahu perda la guida del governo israeliano che ha esercitato per oltre dodici anni consecutivi, nel dicembre del 2022 torna al potere con la ferma intenzione di non lasciarselo più scappare, non fosse altro che per sfuggire al triplice processo che lo vede imputato per frode, corruzione e violazione della fiducia. Assorbito da questi calcoli politici, il primo ministro israeliano è convinto di essere riuscito ad ammansire Hamas grazie ai finanziamenti agevolati da parte del Qatar e alle migliaia di permessi accordati agli abitanti di Gaza per lavorare in Israele.
Sinwar si compiace di aver indotto il «nemico sionista» ad abbassare la sua vigilanza. Quando l’aviazione israeliana prende di mira i loro alleati del Jihad islamico, ordina alle brigate al-Qassam di non intervenire. Inganna i servizi segreti avversi diffondendo organigrammi fittizi delle proprie strutture. In realtà sta supervisionando la pianificazione segreta di un’incursione in territorio israeliano attraverso brecce simultanee con l’obiettivo di rapirvi alcune decine di ostaggi. L’uomo che nel 2011 è stato rilasciato nell’ambito di uno scambio «uno per mille» spera di poter ottenere la liberazione dei circa cinquemila palestinesi ancora detenuti nelle prigioni israeliane. Vuole liberare i suoi compagni di Hamas, ma anche Marwan Barghouti, la personalità più popolare di Fatah, e Ahmed Saadat, il leader dell’FPLP, detenuti rispettivamente dal 2002 e dal 2006. La sua ambizione è quella di imporre una volta per tutte Hamas alla guida del nazionalismo palestinese, soppiantando l’OLP che dovrebbe così ai suoi rivali islamisti la liberazione di due leader emblematici.
Gli attacchi lanciati dalle brigate al-Qassam e i loro alleati all’alba del 7 ottobre 2023 diventano ben presto una spaventosa carneficina. 378 persone vengono massacrate nel luogo di un festival di musica all’aperto. I kibbutz del confine sono il bersaglio di stragi spietate e di violenze di ogni genere, che i carnefici riprendono e diffondono in diretta sui social. L’irruzione della feccia di Gaza nella scia dei miliziani provoca un’ulteriore escalation dell’orrore. Hamas e le fazioni complici di queste atrocità riportano a Gaza 251 ostaggi, un numero nettamente superiore all’obiettivo assegnato da Sinwar. Ma uno sterminio di questa portata – con oltre milleduecento morti totali – infligge un colpo terribile alla causa palestinese, associata alle peggiori forme di un terrorismo da cui ci era voluto tanto tempo per emanciparsi.
Anziché organizzare la protezione della popolazione di Gaza contro le inevitabili rappresaglie israeliane, le brigate al-Qassam si precipitano nei tunnel dove sono accumulate scorte di acqua, di cibo, di carburante e di munizioni. Ritroveranno la loro combattività solo con l’invasione israeliana della Striscia, il 27 ottobre 2023, quando mettono in scena una guerriglia urbana per meglio galvanizzare la loro base. Ma lo scambio di prigionieri che a fine novembre permette una tregua di una settimana resta ben al di sotto delle aspettative di Sinwar. È infatti un rapporto di uno a tre quello che permette la liberazione di ottanta ostaggi israeliani (e venticinque stranieri) contro 240 prigionieri palestinesi, un numero sensibilmente inferiore a quello dei palestinesi arrestati dall’esercito israeliano nel corso delle settimane precedenti. E gli scontri riprendono con un’intensità ancora superiore, soprattutto a Khan Yunis.
L’incapacità della comunità internazionale – e in primo luogo degli Stati Uniti – di ottenere un semplice cessate il fuoco compromette il futuro stesso della Striscia di Gaza. Quanto a Netanyahu, si accontenta di ribadire la sua volontà di una «vittoria totale» contro Hamas, pur escludendo il ripristino dell’Autorità palestinese a Gaza nel timore che la restaurazione dei legami con la Cisgiordania rilanci la dinamica della soluzione dei due Stati. Ma una volta martellati i suoi slogan, il governo israeliano si dimostra incapace di articolare una chiara visione del «giorno dopo» a Gaza. Resta lacerato tra i militari, che ritengono di aver raggiunto i loro obiettivi da tempo, e i suprematisti, che invocano a gran voce la ricolonizzazione dell’enclave, uno scenario da incubo per lo stato maggiore israeliano.
Vista da Gaza in questo 2 gennaio 2025, una simile impasse non può che fare il gioco di Hamas. Le devastazioni inflitte alla Striscia di Gaza ne hanno letteralmente decimato la classe media e gli ambienti intellettuali, artistici e universitari, che – ne sono testimone da tempo – mantenevano una distanza critica, per non dire un’opposizione multiforme, nei confronti del dominio di Hamas. L’alternativa civile allo strapotere islamista è semplicemente sprofondata nel mare delle tendopoli. La sopravvivenza quotidiana ha rafforzato la dipendenza delle famiglie dal proprio clan di appartenenza, ma ognuno di questi clan persegue i propri interessi locali e si mostra incapace di allearsi ad altri clan per costituire un serio contraltare a Hamas.
© 2025, Altrecose
(Traduzione di Silvia Manzio)
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