Breve storia del panno casentino
La lana arricciata e calda famosa per “Colazione da Tiffany” viene prodotta solo da un'azienda in provincia di Arezzo, che ora sta chiudendo

La Manifattura del Casentino, storica azienda in provincia di Arezzo, ha annunciato la chiusura: venerdì sono stati licenziati gli ultimi tredici dipendenti e, dopo che le è stata staccata anche l’elettricità, sono stati spenti definitivamente i macchinari. Non si tratta di macchinari qualsiasi: la “ratinatrice” della Manifattura è l’unica con cui si può rifinire la lana per fare il panno casentino originale, un tipo di panno arricciato, ruvido e molto caldo, tipico dell’aretino, che ora rischia di non poter essere più prodotto nella zona dove storicamente è nato.
I proprietari dell’azienda hanno scritto in un comunicato che, se entro trenta giorni – quindi entro la fine di novembre – la Manifattura non verrà rilevata da nessuno o non ci saranno manifestazioni di interesse, «procederemo allo smontaggio e sarà finita per sempre per il panno casentino dopo secoli di storia». Anche se in Toscana e in altre parti d’Italia esistono macchinari simili, la ratinatrice della Manifattura risale all’inizio del Novecento ed era stata modificata in modo tale da creare sulla lana l’arricciatura tipica del panno casentino. «I macchinari che si trovano a Prato o vicino a Biella non danno lo stesso effetto. Il ricciolo del panno casentino originale si vede e si sente al tatto, mentre quello fatto con altri macchinari è diverso», dice Claudio Grisolini di Tessilnova, un’azienda storica locale che fa capi in panno casentino.
L’azienda ha spiegato che la chiusura dipende dalle conseguenze della crisi che da tempo sta riguardando moltissime aziende di moda in tutto il mondo, causata principalmente dall’aumento dei prezzi delle materie prime e da un costo maggiore dell’energia. Dal 2022 – anno in cui il fatturato dell’azienda ha iniziato a calare – gli ordini sono progressivamente diminuiti fino ad azzerarsi negli ultimi mesi.
Le conseguenze ovviamente non riguardano solo l’azienda e i suoi dipendenti, ma anche tutta l’economia della zona. In provincia di Arezzo infatti ci sono almeno trenta aziende che si appoggiavano alla Manifattura del Casentino per rifinire il panno con cui producevano i loro capi e che ora non sanno a chi rivolgersi. La Manifattura poi non si occupava solo di creare il ricciolo sul panno, ma lo tingeva e lo rifiniva in altri modi.
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A rendere famoso il panno casentino in tutto il mondo fu l’attrice Audrey Hepburn, che lo indossò nel suo film più celebre, Colazione da Tiffany. È il cappotto doppiopetto arancione con quattro bottoni e il collo alto portato dalla protagonista, Holly Golightly, nella scena in cui entra nella gioielleria Tiffany, un modello particolare disegnato dallo stilista Hubert de Givenchy proprio per il film. Non è un cappotto che passa inosservato, dato il suo colore così sgargiante. Il nome ufficiale di questo punto di arancione è “becco d’oca” che, assieme al “verde bandiera”, è il colore ormai considerato classico dei capi in panno casentino.
Il panno casentino che si usa oggi deriva da un tessuto molto più grezzo che era diffuso nel Trecento e che veniva chiamato panno grosso di Casentino. I suoi colori originali erano il beige e il grigio. A dargli quella sfumatura di arancione – non un colore particolarmente comune o facile da indossare – fu un tipo di colorante artificiale mischiato all’allume di rocca, che serviva per impermeabilizzare ulteriormente il tessuto. L’obiettivo era ottenere un rosso sgargiante, ma l’effetto fu un po’ diverso. Il verde bandiera invece fu scelto appositamente: all’inizio doveva essere il colore della fodera, che faceva un bel contrasto con l’arancione, ma poi venne usato anche per colorare lo stesso panno. Col tempo poi fu tinto anche di altri colori.

(Foto Claudio Lavenia/Getty Images)
A dare ai colori la brillantezza che li caratterizza, secondo i produttori, è l’acqua della zona che viene utilizzata nel processo. Anche per questo la chiusura della Manifattura è un grosso problema per le aziende locali perché, a detta loro, il panno casentino non potrebbe essere fatto in nessun altro posto o si otterrebbe un risultato diverso. «È come fare il Brunello di Montalcino con dell’uva coltivata a Napoli», continua Grisolini. Per i produttori locali il panno casentino non sarebbe lo stesso se rifinito fuori dal territorio: «la Manifattura si occupava anche della tintura dei panni e per farlo usava l’acqua di qui che dava una brillantezza e una morbidezza diversa al tessuto», aggiunge.
Nell’Ottocento il panno casentino veniva utilizzato per fare le coperte dei cavalli: il tessuto era estremamente rigido, al punto che aveva una consistenza simile al feltro. Questa caratteristica lo rendeva molto resistente, caldo, isolante e impermeabile: perfetto per proteggere gli animali dalle intemperie. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento però le persone si resero conto che i cavalli stavano più al caldo di loro e decisero di usare questo tessuto per fare dei mantelli e dei cappotti. I primi a portarlo furono i contadini e gli artigiani, poi iniziarono a indossarlo anche i membri della borghesia, che lo mettevano in campagna solitamente abbinato a un collo di pelliccia di volpe. Negli anni Trenta del Novecento diventò di moda anche tra le signore in città, che apprezzavano particolarmente l’arancione.
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Come ha ricostruito il Museo dell’arte della lana di Stia, in Casentino, la ratinatrice – che i dipendenti delle aziende chiamano “rattina” – si chiama così perché deriva da “ratiner”, verbo che in francese significa “accotonare”. Con questo verbo ci si riferisce al processo con cui si formano i tipici riccioli di lana del panno casentino, che crea dei batuffolini di tessuto. Secondo il museo la prima ratinatrice moderna, che permette quindi di ottenere l’effetto che si conosce oggi sul panno, fu con ogni probabilità importata nella zona dalla Germania.



