• di Margherita Carbonaro
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  • Sabato 18 ottobre 2025

Cosa ci faccio qui in Latgallia?

«Prima del ’22 da queste parti non c’erano barriere. Si andava a funghi sconfinando dalla Lettonia in Russia, e viceversa. Oggi questa è la frontiera invalicabile d’Europa. Di qua si stendono campi color tabacco, al di là della rete c’è il bosco. Un quadriciclo militare punta velocissimo verso di me: “Altolà! Cosa ci fa qui?”»

Cicogne in Latgallia (foto Margherita Carbonaro)
Cicogne in Latgallia (foto Margherita Carbonaro)
Margherita Carbonaro
Margherita Carbonaro

È nata a Milano. Lavora in editoria e ha tradotto opere di autori di lingua tedesca e lettone, tra cui Herta Müller, Thomas Mann, Christoph Ransmayr, Regīna Ezera, Inga Gaile. Attualmente vive tra l’Italia, la Germania e la Lettonia, da dove veniva la famiglia di sua madre.

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Fino a dieci anni fa, la Lettonia per me non era che qualche storia di famiglia, raccontata in poche parole, eventi scollegati l’uno dall’altro su uno sfondo grigio nebbia. La fuga di mia madre bambina insieme ai suoi genitori, durante la guerra, su una barca verso la Svezia. I parenti deportati in Siberia. L’amica della nonna che si vestiva rigorosamente dall’alto in basso, dal cappellino alle scarpe. L’amato zio ucraino che sapeva disegnare i cavalli, poi una notte lo prelevarono e scomparve. Negli ultimi dieci anni il paese inesistente della mia infanzia è diventato per me un paese reale, dove spesso viaggio raccogliendo e collegando fili.

Gli avi materni in una foto dell’Ottocento (archivio Margherita Carbonaro)

* * *

Eccola, la frontiera. Comparsa all’improvviso dopo un tratto di bosco. In questo punto la strada asfaltata corre a meno di cinquanta metri dalla barriera di rete metallica con il filo spinato. È una giornata grigia di un’estate dubbiosa. Mi trovo in Latgallia, la regione più orientale della Lettonia che qui, nella sua parte settentrionale, confina con la Russia, e più in basso con la Bielorussia.

Prima del ’22 da queste parti non c’erano barriere. Si andava a funghi sconfinando dalla Lettonia in Russia, e viceversa. Una passione, quella del vagare per le foreste umide con gli occhi puntati a terra, che affratella i due popoli in tempo di pace. Soprattutto in passato, negli anni Novanta e all’inizio del nuovo secolo, qui attorno fioriva il contrabbando di quelle sigarette che poi arrivavano sui marciapiedi dell’Europa centrale. Pacchetti di Marlboro e Camel, quasi identici agli originali, solo un po’ più molli, il cellofan un po’ più slabbrato, l’odore di paglia un po’ più sporca. Fino a tempi recenti la gente della zona, su entrambi i lati della demarcazione, aveva visti speciali che permettevano di attraversare liberamente il confine. In Russia, i lettoni compravano soprattutto vodka e altri alcolici che là costavano meno.

Guido con un occhio sulla strada e un occhio incollato alla rete metallica così nuova, quasi scintillante. Questa è la frontiera d’Europa, una frontiera ormai invalicabile. Di qua si stendono campi color tabacco, al di là della rete c’è il bosco. Dopo qualche chilometro si apre alla mia destra, sul lato del confine, un immenso spiazzo fangoso. Qualcosa come un lampo mi incita a inchiodare e a fermarmi lì. Scendo dalla macchina e faccio qualche passo cauto nel silenzio, mi accosto al campo che preme sullo spiazzo, mi accovaccio per osservare da vicino le pianticelle marroncine: sono baccelli in via di disseccamento, con palline già dure all’interno. Ne stacco qualcuno dal suo stelo, me lo metto in tasca e avanzo tranquillamente.

(foto Margherita Carbonaro)

Il terreno è dissestato, pieno di buche e di profondissime tracce di pneumatici. Non posso fare a meno di procedere verso la rete così vicina, che esercita su di me una forza magnetica. Sono ormai a meno di due metri di distanza, solo un piccolo fosso mi separa dalla barriera, quando alle mie spalle sento il rombo di un motore. Mi giro. Un quadriciclo militare punta velocissimo verso di me, inghiottendo con le ruote il terreno fangoso. Sembra una rana meccanica lanciata in folle carica.

«Altolà! Chi è lei, cosa ci fa qui?» grida in lettone qualcuno, in groppa alla rana.

«Oh scusi tanto, non sapevo! Sono una turista» rispondo alzando d’istinto le mani. Accenno un sorriso, ma l’espressione del tizio rimane di pietra. Mi ringhia di tornare alla mia macchina e di aspettare le guardie di confine. Mi incammino a testa bassa. Non so se mi sento maggiormente stupida o spaventata. Non faccio in tempo ad arrivare alla mia Dacia bianca con targa polacca, affittata a Riga, che le guardie sono già lì. Da una camionetta scendono una ragazza bionda e un uomo di mezza età, armati e in uniforme. Gli vado incontro ripetendo le scuse per la mia idiozia, e ribadendo che sono una turista.

– Leggi anche: La guida della Lettonia per riconoscere le spie russe sotto copertura

«E perché proprio qui?» chiede l’uomo, indifferente alle mie scuse. È di statura bassa e robusto, i capelli brizzolati e rughe profonde sul viso abbronzato.

«Perché non ero mai stata in Latgallia, e tutti dicono che è una regione meravigliosa. Sono lettone per parte di madre, ma sono nata e cresciuta in Italia. Voglio conoscere bene tutta la Lettonia».

«Sì, ma perché proprio qui, tra tutti i meravigliosi posti della Latgallia?»

Nella sua voce c’è una sfumatura di metallica ironia.

«Amici mi hanno consigliato di visitare questa zona, e anche un piccolo museo privato non lontano da qui, a Viļaka. Là c’è un tale che ha raccolto cimeli dell’occupazione nazista, e poi cimeli sovietici. Il museo si chiama Abrenes istabas, “le stanze di Abrene”. Non lo conoscete?»

No, non lo conoscono. E non sembrano nemmeno interessati a scoprirlo.

«E se il tempo lo permette vorrei andare sul sentiero dei partigiani».

Vorrei andare tra gli acquitrini di Stompaki, dove alla fine della guerra si nascondevano i partigiani che combattevano contro i russi. Nel marzo del 1945 cinquecento soldati dell’Armata rossa sconfissero lì trecento partigiani lettoni. Diciannove cadaveri furono esibiti nei paesi vicini, come monito alla popolazione. Ma in tutta la Lettonia i “fratelli della foresta”, i mežabrāļi, continuarono a lottare contro il potere sovietico ancora per dieci anni. Tra gli alberi e gli acquitrini di Stompaki si può percorrere oggi il “sentiero dei partigiani”.

Sì, questo lo conoscono, e fanno un mezzo sorriso che sembra scagionarmi dal sospetto di essere una bizzarra spia russa con carta d’identità lettone e un cognome per niente baltico, che subito afferma di essere anche cittadina italiana e viaggia su una macchina con targa polacca. Vengo invitata a scrivere una dichiarazione in cui racconto chi sono e cosa faccio nella vita, recapiti di parenti e conoscenti in Lettonia, di chi sono figlia, nomi e date di nascita, cosa mi ha spinto a passare di lì e ad avvicinarmi alla rete. Questo non è semplice da spiegare. Devo dire quello che non so spiegarmi bene nemmeno io? Allora scrivo sul foglio posato sopra il cofano della camionetta: non avendo visto alcuna barriera o cartello di divieto, non mi ha sfiorato il pensiero che fosse proibito avvicinarsi alla rete.

«Anzi, vi consiglio di mettere almeno un cartello» dico, «altri turisti potrebbero incorrere nello stesso equivoco».

Sembra poco probabile, in realtà. Da quando sono ferma qui saranno passate sulla strada alle nostre spalle non più di due macchine, e non avevano l’aria di essere turisti.

«Certo, ha ragione» ammette ora cordialmente la ragazza, «grazie, lo faremo presente ai nostri superiori. Sa, tutta la recinzione è nuova, ci stanno ancora lavorando».

«Posso andare adesso?»

No, non posso. La mia dichiarazione viene fotografata e mandata al capo, che tra un po’ verrà qui e mi farà qualche domanda.

«Lei è mai stata in Russia?» mi chiede la ragazza dopo un lungo silenzio.

«Sì, qualche anno fa» rispondo, restando sul vago.

Il cielo intanto si copre un po’ di più, l’aria è fresca e comincia a pungere. I piselli nei campi imbruniscono pacificamente. C’è una quiete assoluta. Il bosco scuro al di là della rete sembra quasi posticcio, una quinta che nasconde qualcosa, un animale da preda senza forma a una distanza che non si sa.

Dopo una certa attesa, durante la quale commentiamo le condizioni atmosferiche e finiamo per parlare anche di cucina italiana, arriva un’altra camionetta. Ma invece del capo ne scende un ragazzo in uniforme mimetica, anche lui armato. Mi saluta gentilmente. Capelli scuri, il viso aperto, rilassato. Chiedo se adesso posso ripartire.

«No, mi rincresce moltissimo, ancora no, ma può andare in macchina ad aspettare».

«Preferisco di no, mi innervosirei soltanto. Sa, non sono abituata a queste situazioni».

«Non si preoccupi, è tutto chiaro. Ma si immagini… stia tranquilla, davvero, è tutto a posto».

«E invece mi preoccupo sì, mi creda, non posso farci niente ma è così. Quindi preferisco stare all’aria aperta».

I due rimangono fuori con me per cortesia. Il terzo uomo si è rintanato da tempo a farsi una pennichella nella camionetta. Stiamo lì in piedi, sullo spiazzo fangoso – a qualche decina di metri dietro di noi, la rete. Il cielo spruzza un po’ di umidità che non diventa mai pioggia ma si deposita sulle giubbe militari dei due e sulla mia giacchetta impermeabile. L’occhio continua a cadermi sulle loro pistole. In attesa del capo che non arriva mai continuiamo a chiacchierare per quasi due ore. Io racconto di mia madre fuggita dalla Lettonia in piena guerra, di mio nonno che aveva partecipato alle battaglie per la prima indipendenza, dei libri lettoni che ho tradotto in italiano. E il ragazzo in mimetica racconta che viene da Riga e che gli piace la storia e un giorno vorrebbe tanto andare a Venezia. Gli piacciono i libri, i romanzi storici.

«Quindi lei legge libri? Libri veri, di carta?»
«Sì, mi distende».
«E in questo momento cosa sta leggendo?»

«Dumas. Il conte di Montecristo».

È fantastico. Qui, davanti alla frontiera d’Europa, sono temporaneamente prigioniera di una ragazza esile le cui dita sottili stanno posate sulla pistola che porta appesa sul fianco, e di un ragazzo dai tratti gentili, armato fino ai denti, che si sente un po’ Edmond Dantès. La conversazione prosegue con pause, occhiate speranzose verso la strada, reiterate scuse dei due perché non possono lasciarmi andare. Fosse per noi… ma purtroppo non possiamo.

«Certo che è una bella fortuna» dico a un certo punto, «stare da questa parte della frontiera. Non voglio nemmeno pensare a dove sarei adesso, se a fermarmi fossero state le guardie sull’altro lato». E dopo un lungo silenzio, guardando verso la rete: «Fa paura».

«È inutile aver paura, non serve a niente» ribatte il ragazzo in mimetica. «Meglio godere. Ogni momento».

In lettone: non baidīties, ma baudīt.

Finalmente il capo telefona. Non ce la fa a venire, è impegnato altrove. Però sta per mandare le sue domande. Aspettiamo. Dopo qualche minuto le domande arrivano. La ragazza si avvicina e legge dal cellulare:
«Qual è la sua opinione sulla Russia?»
Cerco la formulazione migliore, che sia esplicita e concisa:«Dell’attuale governo della Russia penso il peggio che si possa pensare».
La ragazza scrive su un pezzo di carta la mia risposta.
«E chi è stato secondo lei l’aggressore, la Russia o l’Ucraina?»
Sorridendo, non perché ci sia da sorridere ma perché entrambe sappiamo quale sarà la risposta, dico:
«La Russia».
«E a chi appartiene la Crimea?»
«All’Ucraina, naturalmente».
La ragazza fotografa le mie risposte e le manda al capo.
Qualche minuto più tardi arrivano due domande supplementari:«Quali lingue conosce e da quali lingue traduce?»
Rispondo che conosco e traduco dal tedesco e dal lettone, qualche volta dall’inglese. Evito di dire che parlo anche russo.
«E per quale motivo è stata in Russia?»
Non dico che ci sono stata per studio molti anni fa, e poi in viaggio e per andare a trovare i miei parenti in Siberia. Dico soltanto: ho partecipato a una spedizione organizzata dalla fondazione Sibīrijas bērni, “I figli della Siberia”, che per molti anni è andata a visitare i luoghi in cui i lettoni erano stati deportati, e le persone rimaste là. [sorta di fondazione Memorial lettone. Più avanti parlerò di una spedizione a cui ho partecipato, nell’estremo oriente siberiano] I due annuiscono soddisfatti.

Un’altra fotografia, un altro invio sul cellulare, un’altra attesa, e la risposta. La ragazza mi fa segno di vittoria. Sono libera. Saluto, auguro buone cose e riparto.

Presto la strada si addentra in un bosco. La barriera metallica scompare. Dopo qualche chilometro un cartello al bordo della strada avverte che stiamo uscendo dalla zona di confine. Poi, cinquecento metri dopo, un altro cartello segnala che si sta entrando nella zona di confine, cioè all’interno della cintura di tre chilometri che abbraccia la frontiera. E così via, entro ed esco, seguendo il serpeggiare della strada. La pioggia che adesso cade più fitta mi convince a rimandare l’escursione sul sentiero dei partigiani.

Certo che a spingermi verso quella rete dev’essere stato il sangue di Grencmanis, l’uomo-della-frontiera, che mi porto dentro. Questo me lo dico ormai sulla strada verso Viļaka, quando il sollievo mi restituisce l’ironia. Il cognome della mia bisnonna lettone Minna, madre di mia nonna Alise, era proprio questo: Grenzmann, scritto alla tedesca, e Grencmanis in lettone. Era il cognome che il suo, e quindi anche il mio, antenato scelse nel 1820, quando in Curlandia e in Livonia venne abolita la servitù della gleba, mentre in Latgallia questo avvenne solo quarant’anni più tardi. I lettoni, quasi tutti servi da secoli dei baroni tedeschi, una volta liberati per editto dello zar dovettero scegliersi al più presto un cognome e comunicarlo allo scrivano del proprio villaggio. Molti assunsero nomi di alberi e piante, come fece l’antenato di mio nonno Arturs. Questo mio avo scelse per sé il nome del più nobile e vigoroso degli alberi, la quercia, Ozols, che in lettone è di genere maschile e per i pagani baltici rappresentava l’albero cosmico, ma era anche legata al dio Pērkons, cioè al Tuono, a Dievs, il dio che in realtà è solo uno degli dei, senza ambizioni di unicità, e alla dea Saule dai capelli dorati come raggi di sole.

Il nonno Arturs Ozols “Quercia” nel 1915, all’epoca in cui prestava servizio nella Marina dello zar (Archivio Carbonaro)

Altri contadini appena liberati si scoprirono invece radici di betulla, o assunsero la più modesta natura del trifoglio o degli aghi di pino. Poteva avvenire così che un ragazzo Quercia incontrasse una ragazza Trifoglio, e si innamorassero. È quel che avvenne a mio nonno Arturs Quercia e a mia nonna Alise Trifoglio, figlia della mia bisnonna Minna Uomo-della-frontiera. Molti all’epoca avevano assunto infatti cognomi dal suono tedesco, come Grenzmann, perché ritenevano che ne discendesse un’aura di nobiltà. Per quale motivo il mio antenato l’avesse scelto, se gli piacesse definirsi così o se nella vita avesse superato qualche confine, geografico o di classe, o se a decidere per lui fosse stato qualcun altro, questo naturalmente non lo saprò mai. Però adesso il maledetto Grenzmann mi ha quasi portato in galera.

Foto di gruppo della famiglia Grenzmann Uomo-della-frontiera, circa 1939 (Archivio Carbonaro)

Alla frontiera mi ero avvicinata, a dire il vero, già al mattino. Un diverso tratto, uno dei pochissimi confini ancora aperti al transito. Dalla città di Kārsava mi ero diretta verso la Russia, che da lì dista meno di quindici chilometri. A Kārsava avevo assistito a un pezzetto di messa in latgallico. La regione, a differenza delle protestanti Curlandia e Livonia, è prevalentemente cattolica. Poi avevo sostato all’incrocio fra via della Chiesa e via del Futuro, che dopo un inizio promettente si impantanava in un percorso di buche, perdendosi nei campi. Infine ero risalita in macchina e mi ero diretta verso la frontiera di Grebņeva.

La via asfaltata era completamente vuota, nei campi e sui due lati passeggiavano flemmatiche e folte comunità di cicogne. Cinque o sei chilometri dopo la città, senza aver visto una sola macchina nelle due direzioni, mi sono ritrovata davanti all’improvviso grossi camion, fermi a destra e a sinistra della carreggiata. Più avanti le file si fondevano in una sola, poi nuovamente la fila singola si spartiva in due. A un certo punto un cartello azzurro, come quelli che avrei visto dopo l’avventura della rete, aveva avvisato in lettone e in inglese che si stava entrando nella fascia di frontiera: Pierobežas josla. Borderland. Qua e là, dove lo spazio tra i camion era più ampio, una cicogna attraversava l’asfalto sulle lunghe zampe stecchite per passare da un campo giallo a un altro. Qua e là due o tre uomini erano seduti attorno a un tavolino da campeggio e giocavano a carte. Qua e là qualcuno, in piedi o accovacciato sui talloni, stava fuori davanti all’abitacolo a fumare. Qualcuno guardava solamente nel vuoto, seduto su uno sgabello di plastica.

Poco prima di raggiungere la baracca del confine, quando già la si intravedeva da lontano, ho fatto inversione e sono tornata indietro, sfilando ora davanti alle teste dei camion. Abitacoli con tendine ornamentali di velluto porpora e pompon, di foggia centroasiatica. Uno ha una serie di prosperose silhouettes femminili appese a un filo. Gli autisti si chiamano Papa, Michal, Leon, Almaty, Ivan. C’è Konstantin che viene da Karaganda. Sul cruscotto di Pita ci sono due orsacchiotti di peluche. Shatsa viene dall’Uzbekistan. Sono parecchi i camion uzbeki, kazaki, kirghizi. Li hanno trasportati loro i meloni che si trovano in vendita nei supermercati Rimi. Ma quali merci, ufficialmente non sanzionate, portano dall’altra parte? Non si vede niente. L’unica merce che riesco ad avvistare sono cartoni di birra Corona. Ci sono anche camion con targhe polacche, ungheresi. Molti serbi. A volte, di questi tempi, i camion aspettano anche più di una settimana prima di poter attraversare la frontiera.

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