L’Erasmus per come lo conoscevamo
«Le notti migliori però furono nel sottosuolo saturo di fumo di un locale del Marais. Si partiva senza davvero sapere cosa ci sarebbe capitato, ma la lontananza, la sparizione erano utili a capirci qualcosa. Esiste ancora una parentesi adatta a perdersi?»

Un mattino di fine estate scendevo da un treno notturno che in circa dodici ore mi aveva portato dalla stazione Santa Maria Novella di Firenze alla Gare de Lyon di Parigi. Mi aveva impressionato, mentre il treno scivolava tra i palazzi della periferia, vedere una donna francese con cui condividevo la cuccetta svegliarsi, vestirsi e poi borbottare qualcosa a nessuno in particolare, con gli occhi persi fuori dal vetro. Disse: «Paris, à nous deux» (“Parigi, a noi due”), come se le due avessero in sospeso delle cose importanti. Dovevo ancora abituarmi allo specifico tipo di enfasi che Parigi accende in certe persone e certo non immaginavo che mi sarei trasformata anche io in quella donna.
Su quel treno avevo tanti bagagli perché partivo per un anno, e una busta di contanti che mia madre si era raccomandata di tenere sotto i vestiti durante il viaggio. Qualche mese prima, davanti ai fogli da compilare per candidarmi alla borsa Erasmus, in uno dei rari frangenti in cui riconosco un buon intuito nelle mie scelte del passato, avevo scartato l’ipotesi di andare in piccole università virtuose dove si parlavano il tedesco o l’inglese che avevo studiato, e mi ero detta: Parigi o niente, anche se non sapevo il francese.

Parigi, 2005 (foto Diletta Sereni)
Nei fogli scrissi che volevo andarci proprio per impararlo, per poter leggere in originale i libri che allora leggevo in traduzione. Quelle righe colavano di zelo ridicolo ma non erano del tutto false, e non le rendeva false il fatto che nel mio tempo parigino mi immaginassi incatenata ai cancelli della Cinémathèque con un abito di velluto e un basco rosso calato sulla testa piuttosto che a spremermi su dei tomi in francese. In ogni caso, chiunque abbia vagliato quei fogli ha voluto credere alla mia versione secchiona e mi ha dato Parigi davvero.
Era tanto tempo fa, e ho dovuto contare sulle dita varie volte prima di rassegnarmi al fatto che non stavo sbagliando il conto, che sono passati davvero vent’anni da quella ragazza che cammina sulla banchina della Gare de Lyon con addosso due borsoni pesanti e scruta le mappe appese alla stazione per raccapezzarsi su come arrivare a Belleville, dove un vecchio amico dei miei genitori aveva accettato di ospitarmi qualche giorno, prima di lasciarmi sprofondare nei meandri della città.
Vent’anni sono tanti per una vita, ma mi sembrano persino pochi rispetto a quanto è cambiato il nostro modo di stare nel mondo. Nei primi anni Duemila si poteva ancora sparire. Chi partiva per l’Erasmus non dava pressoché notizie fino al ritorno, quando cercava di curarsi la nostalgia inquieta attaccando pezze agli amici su quanto era bello stare a Lipsia/Toulouse/Granada/Uppsala/ecc. E poi si partiva senza davvero sapere cosa ci sarebbe capitato. È difficile oggi immaginare di andare in un posto di cui possiedi solo delle mappe cartacee e non puoi scorrere gallerie di foto prima di vedere le cose dal vivo. Eravamo anche meno abituati ad andare all’estero in generale: i voli low cost hanno attecchito in Italia dal 2002, l’euro come valuta anche, ci stavamo ancora abituando, ai confini, a cambiare lingua ma non la moneta. L’Europa era un posto ammaccato dal passato ma tutto sommato spensierato: da bambini avevamo guardato Giochi senza frontiere in tv, il primo viaggio da soli è stato per molti l’Interrail.

Parigi, 2005 (foto Diletta Sereni)
L’Erasmus era (ed è) un accordo tra università europee per permettere agli studenti europei di trascorrere un periodo di studio all’estero e vederselo riconosciuto, più un aiuto economico per coprire in parte le spese (lo si riceveva però con mesi di ritardo, e questo di fatto escludeva chi non poteva permettersi di anticipare le spese da sé). Venne creato nel 1987: prima della caduta del muro di Berlino, prima della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Alla delibera con cui l’allora Consiglio dei ministri a Bruxelles istituì il «programma di azione comunitario in materia di mobilità degli studenti» l’Inghilterra votò contro, premonizione della futura exit, ma dovette adeguarsi alla maggioranza. Il primo anno parteciparono 3200 studenti europei, vent’anni dopo ogni anno vi partecipavano in più di 150mila.
L’immaginario sull’Erasmus ebbe una svolta nel 2002 col film L’appartamento spagnolo, una commedia che credo non sia invecchiata bene, da cui si deduceva che era meglio partire sfidanzati. Il protagonista francese (Romain Duris) passava un anno a Barcellona in un appartamento con altri sei ragazzi e ragazze di diversa nazionalità, combinava un sacco di casini e alla fine doveva riprendersi da una depressione post rientro. Il film si chiudeva con una specie di morale in voice over in cui si diceva: sono francese, spagnolo, inglese, danese, italiano, sono come l’Europa, un vrai bordel. Era un po’ trito, ma a essere onesti il vrai bordel ci faceva sognare l’Europa tanto quanto il miraggio di una sua armonia politica. «Una rivoluzione linguistica e sessuale», così Umberto Eco definì l’Erasmus, e disse che aveva creato la prima generazione di giovani europei.
Quanto a me, nei meandri di Parigi feci amicizia con un ragazzo di Salerno che sarebbe diventato il mio più caro amico, ed eravamo così determinati a incarnare ogni cliché da andare in giro per la città, in due sulla stessa bici (io seduta sulla canna), a fare colazione pranzo e cena sempre a base di pain au chocolat (era utile anche a risparmiare). Lui oggi vive a Parigi. Durante la mia permanenza ho inanellato diversi invaghimenti finiti male, il più notevole con un colombiano che mi chiamava fragolita in pubblico (arrossivo ogni volta), strimpellava la chitarra guardandomi negli occhi e mi invitava a dormire da lui senza preoccuparsi che ci saremmo svegliati il mattino dopo in tre, col suo coinquilino cileno e certe volte anche col loro gatto Illich, nell’unico letto della loro microscopica chambre de bonne a Saint-Germain col bagno al piano.
Le notti migliori però furono nel sottosuolo saturo di fumo di un locale del Marais, che radunava un mucchio di musicisti o aspiranti tali per improvvisare insieme, mentre noi altri avventori semplici bevevamo e sudavamo perdendo la nozione del tempo, per riemergere in superficie quando il cielo iniziava a schiarirsi. Certe domeniche le passavo in un garage della prima periferia, dove alcune famiglie argentine allestivano interminabili pranzi da cui tornavo coi vestiti impregnati di fumo d’arrosto, incapace di dormire la notte per via dei beveroni di mate. Andavo al cinema in maniera compulsiva, e alla Cinémathèque poi ci sono andata davvero, senza incatenarmi ai cancelli ma a sciropparmi quattro ore e quaranta delle Histoire(s) du cinéma di Godard, prima che la sede storica del Trocadero venisse definitivamente trasferita in quella più grande e funzionale di Bercy.

Parigi, 2005 (foto Diletta Sereni)
Erano tutte cose straordinarie per una ventenne per niente scafata e cresciuta nella piccola borghesia di una quieta provincia. Le riportavo negli esercizi di un corso di scrittura che facevo all’università, tenuto da un professore che ci chiedeva di mettere in poche righe delle vicende viste o vissute, alla maniera delle choses vues di Victor Hugo. Dovevamo poi leggere il nostro testo in classe e, nel mio caso, sopportare i pareri puntuti dei colleghi parigini, pronti a farmi notare che nei miei racconti non succedeva mai niente di che.
Quei racconti li ho persi, e ho perso anche gran parte delle già poche foto che avevo scattato con una macchinetta automatica a pellicola. Era un’epoca pre-roaming e pre-smartphone, avevo un cellulare Ericsson con i tasti bombati e la batteria sempre scarica che usavo solo per le emergenze, e i contatti con l’Italia passavano per saltuarie telefonate dalle cabine telefoniche con costose schede internazionali, lettere (!) o mail scritte da lugubri internet point di cui ricordo soprattutto l’odore. Non era proprio come sparire, ma era abbastanza simile a trovarsi giovani e soli in un posto nuovo, con gente nuova, parlando una lingua che non era la nostra, e senza il supporto (o, a seconda dei casi, la zavorra) del contatto col mondo laggiù, a casa. Questo ci consegnava all’entusiasmante illusione di poter essere qualcuno di completamente diverso, almeno per un po’.
– Leggi anche: Vivere davanti a un cimitero ha i suoi vantaggi, di Davide Carnevali
Una cara amica spagnola che ha fatto l’Erasmus a Palermo nel ’98-99 ed è tornata con aneddoti che superano largamente i miei (asini rubati, concerti segreti nelle sale prove del conservatorio, un hotel intero riservato agli studenti stranieri e governato da un manipolo di belgi, lei che senza rendersene conto impara non l’italiano ma uno stretto dialetto palermitano, e lo scopre solo dopo, a un colloquio per uno stage che infatti non ha ottenuto), insomma quest’amica mi ha detto che secondo lei il nostro Erasmus è stato una specie di viaggio verso Itaca. Un lungo ritorno a casa, in cui divagare e sbagliare e iniziare a misurare quanto erano estese le possibilità del mondo.
La lontananza, la sparizione erano utili a capirci qualcosa. Quello che abbiamo vissuto entrambe, e che ci picchiamo di estendere ai nostri coetanei ugualmente fortunati, è molto più simile a una flânerie esistenziale che a un’esperienza formativa per allungare futuri curriculum.
Lo speciale isolamento si sarebbe interrotto poco dopo: nel 2006 si inizia a usare Facebook anche in Europa, e forse i primi a farlo sono stati quelli che partivano in Erasmus, per la gioia di raccontare in tempo reale quello che gli succedeva, di solito con fiumi di foto. Tra il 2008 e il 2009 arrivano i primi smartphone, dunque la possibilità di restare sempre in contatto, e nel 2010 anche Instagram.
Molto rapidamente è diventato più difficile perdersi nei meandri di un posto sconosciuto, perché una parte sempre più grande delle nostre energie è finita ad alimentare il perenne racconto di noi stessi da vendere agli altri, in un marasma di informazioni che non lascia depositare nulla e non ci fa prestare attenzione a nulla.
Forse abbiamo anche smesso di poterci permettere le divagazioni, o di desiderarle. Il crollo finanziario del 2008 e l’onda lunga della crisi avrebbero cambiato il modo in cui pensavamo al futuro, che iniziò a sembrare più minaccioso del passato. La fede nel progresso dei decenni precedenti si è rivoltata nell’oscuro sentore che i figli fossero destinati a un’epoca più sfigata di quella vissuta dai loro genitori. Oggi che l’Europa è impegnata a discutere soprattutto di dazi e riarmo, la Russia minaccia i paesi confinanti con incursioni di droni e aerei da guerra, e la Nato si affretta a rafforzare le difese lungo l’eterna faglia dal Baltico al Mar Nero, l’oscuro sentore ha acquisito i tratti più cristallini della certezza. Da ogni punto di vista è tramontata la strana e irripetibile convergenza tra sufficiente serenità politica del continente e accettabile arretratezza tecnologica che aveva reso l’Erasmus quella cosa lì.

Parigi, 2005 (foto Diletta Sereni)
Dal 2014 l’Erasmus ha cambiato anche nome: si chiama “Erasmus plus” e non è più destinato solo agli studenti ma anche a chi parte per un tirocinio, per lavoro o per lo sport. Lo fanno ancora in tanti, ma mi pare rientrato nei ranghi di un’esperienza utile in termini più tangibili (cioè monetizzabili), buona per il curriculum. La favola si è sgonfiata, e forse è giusto che non sia più la flânerie organizzata che era vent’anni fa, il vrai bordel, eppure mi chiedo se esista anche oggi un viaggio verso Itaca per i ventenni europei, e quale sia.
Se esista anche oggi una parentesi non particolarmente avventurosa (dopotutto, era l’Europa che ce lo chiedeva) ma adatta a perdersi. E poi a tornare a casa. Quasi sempre, almeno. Alcuni non sono mai tornati, altri si rammaricano per sempre di averlo fatto. Il nostro affetto per le persone e i luoghi dipende spesso da quanto ci siamo trasformati insieme a quelle persone e in quei luoghi.
Per me Parigi è rimasta il posto dove andare a ripararmi, cercare sollievo, tenere accesa una vita parallela che un giorno forse chissà. Ed è un fatto intimo ma anche no, mi dico che è anche un po’ politico, perché Parigi mi sembra tutto sommato ancora il centro dell’Europa, una città profondamente e meravigliosamente vecchia, e che quindi non ha paura di immaginarsi il futuro. Che per esempio prova a rendere balneabile un fiume che era una fogna, o rivoluziona drasticamente la mobilità urbana per migliorare la qualità dell’aria. Che agli attentati di matrice islamica del 2015 – la notte del Bataclan – reagì nel modo più europeo possibile, cioè tornando subito al bar.
Oggi il treno per andarci non è più notturno, da Milano ci mette sette ore, e quando scivola tra i palazzi bianchi della periferia sud, guardo fuori e non mi sento neanche così ridicola a bofonchiare qualcosa verso la città che mi aspetta di là dal finestrino.
– Leggi anche: Le case dove abbiamo vissuto, di Emanuele Nicolotti












