Comprare reperti archeologici online non è quasi mai una buona idea
Su siti di e-commerce si trovano migliaia di antichi vasi, monete, busti e altri "capolavori", ma la probabilità che siano falsi o rubati è alta

Per decenni i carabinieri del nucleo dedicato alla tutela dei beni culturali, istituito nel 1969, hanno tenuto d’occhio negozi di antiquari, mercatini di strada, case d’asta e restauratori per assicurarsi che non vendessero opere d’arte e reperti trafugati o semplicemente falsi. È ancora una grossa parte del loro lavoro. Da qualche anno, però, si è affiancato anche un monitoraggio costante di internet.
Nel 2024 i carabinieri hanno detto di aver monitorato 696 siti – da Facebook a eBay passando per quelli più piccoli – da cui sono partiti per recuperare 6mila beni culturali. Tra questi ci sono quasi duemila reperti archeologici e paleontologici, più di mille monete antiche e 51 dipinti.
Soltanto quest’anno i carabinieri hanno restituito a una biblioteca statale della provincia di Padova un volume del 1597 rubato nel diciannovesimo secolo e poi riapparso su «una nota piattaforma di e-commerce». Un altro libro del 1535 è stato restituito a maggio alla Civica Biblioteca Glemonense di Gemona, in Friuli: anche questo era in vendita su un sito di e-commerce.
Ogni volta che individuano un’opera sospetta, i carabinieri la inseriscono in una banca dati che oggi contiene informazioni su oltre un milione di opere rubate o esportate illegalmente. Online, però, sbucano fuori in continuazione oggetti che non si trovano nella banca dati.
Il fatto che beni di valore storico e culturale ottenuti in modo illecito vengano venduti online non è una novità. Paolo Befera, comandante del reparto operativo dedicato alla tutela del patrimonio culturale, ricorda che nei primi anni dell’e-commerce, all’inizio degli anni Duemila, «ci fu una serie di persone non molto coscienti di ciò che facevano e che magari erano venute in possesso di monete, anfore o altri oggetti archeologici romani, greci ed etruschi da parenti. E avevano deciso di venderle online». Magari in maniera superficiale, o comunque senza informarsi sulle possibili conseguenze legali.
Secondo la legge italiana i detentori di beni culturali devono essere capaci di dimostrare di esserne entrati in possesso in maniera legittima, con documenti che mostrino chiaramente non solo da chi e dove è stato acquistato l’oggetto ma anche, in principio, come e quando è stato ottenuto. In particolare è illegale tenere per sé qualsiasi reperto ottenuto da uno scavo su suolo italiano dopo il 1909, anno in cui entrò in vigore la prima legge che stabiliva esplicitamente che qualsiasi reperto trovato appartenesse allo Stato. Si può tenere in casa un reperto archeologico soltanto se si riesce a provare che era già nella collezione di famiglia o disponibile sul mercato prima del 1909.
Oggi di «persone sprovvedute» di questo tipo, inconsapevoli delle stringenti leggi italiane sulla compravendita di reperti archeologici, ce ne sono ancora. Molti altri, però, sanno bene quello che fanno.
Già nel 2017 Neil Brodie, ricercatore dell’Università di Oxford che si occupava di tracciare reperti archeologici in zone a rischio, stimò che ogni giorno venivano caricati su piattaforme di e-commerce e social media circa 100mila nuovi annunci relativi alla vendita di oggetti antichi. Secondo i suoi studi, nell’80 per cento dei casi questi annunci non citavano la provenienza dell’oggetto, che poteva quindi essere considerato, con grande probabilità, «trafugato o falso». Anche vendere oggetti falsi spacciandoli per reperti autentici, naturalmente, è illegale.
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Da allora, le piattaforme hanno cominciato a preoccuparsene un po’ di più. Nel 2020 Facebook vietò del tutto la vendita di «qualsiasi tipo di reperto storico», dopo che varie inchieste avevano mostrato come il sito fosse usato da tempo per rivendere grandi quantità di reperti trafugati dallo Stato Islamico in Siria e in Iraq. Col tempo quasi tutti i principali siti di e-commerce e aste hanno introdotto regole simili.
Le norme interne di eBay, per esempio, prevedono che «gli annunci relativi a oggetti antichi devono includere la provenienza o la storia della proprietà dell’oggetto e, ove possibile, una foto o un’immagine scannerizzata di un documento ufficiale che includa sia il paese di origine dell’oggetto, sia i dettagli legali della vendita». Catawiki, uno dei principali siti di aste internazionali online, spiega che sul sito vige una politica di «tolleranza zero» nei confronti del commercio illecito e che impiega centinaia di esperti qualificati che controllano ogni oggetto prima che venga messo all’asta.
Nella pratica, però, online si continuano a trovare moltissimi beni culturali di dubbia provenienza. Un po’ perché è difficile gestire la gigantesca mole di oggetti che viene venduta su queste piattaforme ogni giorno. Un po’ perché la definizione di «provenienza lecita di un oggetto» cambia molto di paese in paese.
All’estero, per esempio, quasi sempre la regolamentazione è meno rigida rispetto a quella italiana. A volte basta dimostrare di aver acquistato (e non rubato) un bene da una collezione privata perché l’acquisto sia considerato legittimo. «Spesso le case d’asta scrivono “provenienza: collezione privata del signor X”. Ma non è quella, la provenienza», spiega l’archeologo Tsao Cevoli, direttore di Archeomafie, rivista scientifica italiana dedicata ai crimini contro il patrimonio culturale. «Quello che voglio sapere io è: dove è stato ritrovato questo vaso? Se stava in una tomba, chi l’ha scavata, e quando? È stato un barone nel 1700? Non mi basta sapere se proveniva dal mondo greco o da quello fenicio: è stata scavata in Sicilia? In Sardegna? In quale parte della Grecia? La questione della provenienza è spesso molto ingannevole».
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Fino a qualche anno fa, per esempio, la Svizzera era uno dei principali snodi di circolazione di reperti antichi perché aveva una normativa particolarmente permissiva: i reperti e le opere d’arte rubate, quindi, venivano portate in Svizzera, vendute a mercanti che risiedevano lì e poi riacquistate in modo da ottenere un documento che attestasse che erano state acquistate da una collezione privata. Poi potevano circolare sul mercato con maggiore libertà. Negli ultimi anni, però, anche la Svizzera si è dotata di norme più restrittive, applicando varie convenzioni internazionali sulla tutela del patrimonio culturale.
Cevoli spiega però che una cosa simile continua a succedere online, dove esiste anche un grosso mercato di finte dichiarazioni di autenticità e di provenienza, vendute insieme a reperti falsi o trafugati. Alcune reti criminali mettono in vendita online reperti che hanno ottenuto tramite scavi illegali soltanto per comprarli subito dopo con un profilo diverso, in modo da dare la finta impressione che quell’oggetto sia stato acquistato legittimamente da una collezione privata.
E ancora. «Circolano molto reperti che provengono dall’Asia, dall’Africa e in generale da zone dove c’è molta povertà o corruzione, e dove le autorità sono meno incisive o fanno più fatica a esercitare il proprio controllo», dice Cevoli. «E da sempre, quando c’è una zona di crisi o di guerra, ne approfittano per saccheggiare».
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Befera, il comandante dei carabinieri, conferma che «internet ormai si può considerare la valle del falso».
Anche perché ormai è molto raro che i grossi collezionisti, quelli più informati ed esperti, si riforniscano online: le case d’asta usano i propri siti come delle vetrine, per mostrare il proprio catalogo, ma poi la vendita passa da canali ufficiali, tracciabili e legali, in modo che il reperto in questione possa poi essere rivenduto senza problemi (molte operazioni intorno alle opere d’arte o ai reperti antichi sono speculazioni di investitori disinteressati all’arte).
Sulle piattaforme di e-commerce, invece, «circolano soprattutto i reperti meno appariscenti, e quindi meno appetibili per il mercato dell’arte, e poi moltissimi falsi, anche clamorosi». A vendere questi oggetti non è quasi mai, dice Cevoli, «il singolo “tombarolo”, come si chiamavano una volta quelli che vanno a scavare le tombe in modo clandestino», bensì reti criminali ben organizzate. Da anni infatti vari gruppi internazionali della criminalità organizzata sfruttano il mercato internazionale dei beni culturali per riciclare denaro ottenuto con il contrabbando d’armi o di droghe.
Detenere illecitamente reperti archeologici, in ogni caso, è un reato per il quale in Italia si rischiano fino a tre anni di carcere, oltre a una multa e naturalmente la confisca dell’oggetto. Se proprio si vuole acquistare un oggetto antico, bisogna accertarsi di fare tutta una serie di passaggi. «La legge non ammette ignoranza», spiega Serena Epifani, archeologa e direttrice di The Journal of Cultural Heritage Crime, rivista dedicata alla tutela del patrimonio culturale.
«Chi acquista deve preoccuparsi per prima cosa della provenienza, chiedendo al momento dell’acquisto che venga fornita tutta la documentazione necessaria», spiega Epifani. «Se vuole proprio fare le cose per bene, bisognerebbe sottoporre il tutto ad avvocati esperti. D’altronde, se uno vuole una collezione privata in casa, deve poter dimostrare la liceità dell’operazione per ogni oggetto che detiene».



