Quell’enorme déjà vu che è “The Pitt”
Dopo mesi di attesa e ottime recensioni è uscita in Italia la serie tv che sembra una copia di “ER - Medici in prima linea”

L’ufficio che cura i diritti delle opere di Michael Crichton, sceneggiatore americano morto nel 2008, ha definito la nuova serie tv intitolata The Pitt «un reboot non autorizzato» di ER – Medici in prima linea. Crichton era stato il creatore di ER, che andò in onda tra il 1994 e il 2009.
Le somiglianze tra quella vecchia serie tv ambientata in un pronto soccorso di Chicago e questa nuova di HBO Max, disponibile in Italia da questa settimana su Sky e Now, sono in effetti molte. A partire dal fatto che Noah Wyle, attore che interpreta il capo del pronto soccorso in The Pitt, era il protagonista di ER (o almeno quello delle prime stagioni) John Carter. Non è un caso: il creatore di The Pitt, John Wells, era stato sceneggiatore di ER fin dalla prima stagione per poi diventare una delle persone più importanti del team creativo della serie.
The Pitt non è davvero un reboot di ER, cioè non riprende la sua storia e i suoi personaggi, ma ci va vicino. C’è la stessa idea dietro entrambe le serie: raccontare la concitazione del lavoro in un pronto soccorso, seguire più casi contemporaneamente alternando tra alcuni di grande tensione, altri più quieti e altri ancora più divertenti o curiosi, fermandosi poi per pochi minuti ogni tanto per seguire le trame che riguardano le vite dei medici e degli infermieri.
ER ebbe un grandissimo successo alla fine degli anni ’90, proprio per il suo ritmo, e chi la seguì all’epoca può riconoscere in The Pitt lo stesso tipo di storie, personaggi e interazioni oltre alla stessa atmosfera. L’unica differenza rilevante è che ogni stagione di The Pitt racconta una sola giornata, un’ora per puntata.
Il ritorno di una serie fatta come si facevano trent’anni fa non è un caso isolato. E non lo è neanche il fatto che abbia vinto cinque Emmy e raggiunto un grande successo di pubblico. Si spiega coi cambiamenti attraversati dalle piattaforme degli ultimi anni, ma anche con una stanchezza generale nei confronti delle serie piene di antieroi e mondi cupi – che hanno dominato a partire da I Soprano nel 1999 – e nel ritorno a contenuti più positivi.
The Pitt non è solo andata bene mentre andava in onda: dopo l’assegnazione degli Emmy, la serie ha stabilito un record di spettatori raggiunti a fine stagione, con un aumento dell’80 per cento.
Se questo tipo di serie era stato abbandonato è perché le piattaforme di streaming, nella prima fase della loro esistenza, non dovevano generare profitto. Netflix, la prima in assoluto, è nata nel 2007 ed è rimasta per quattordici anni in quella fase di startup in cui era finanziata da investitori. Solo nel 2021 per la prima volta i ricavi dell’azienda sono stati superiori alle spese. In tutta quella prima fase, sia Netflix che le piattaforme arrivate dopo hanno puntato su serie “prestigiose”, cioè quelle che vincevano premi e piacevano a una nicchia di appassionati. Erano così sofisticate e audaci da finire sulle copertine dei giornali e far parlare di sé, di fatto promuovendo le piattaforme che le possedevano.
Da quando invece le piattaforme hanno raggiunto il grosso dei loro clienti potenziali, quindi specialmente dopo l’aumento di abbonati durante la pandemia, è finita la fase in cui spendere in libertà senza interesse per il profitto. Questo ha cambiato anche le priorità riguardo alla programmazione: ora la cosa importante è trattenere gli abbonati più che conquistarne di nuovi. E poi contenere i costi. Quindi più che serie di prestigio o miniserie da otto puntate e basta, servono serie lunghe che vadano avanti per tante stagioni, come succedeva prima del 2010. Alcune tra queste sono ancora oggi le più richieste e guardate, come The Office, Suits o Friends. Serie che possono essere viste molte volte, con poca attenzione, anche in sottofondo.
Come ha spiegato a The Ankler un agente di Hollywood di grande esperienza rimasto anonimo: «Il numero di miniserie è molto aumentato quando sono nate le piattaforme, e tutte volevano delle star, perché si riteneva che fosse importante per gli spettatori». Sono nate così True Detective, Fargo, Ripley, Beef o American Horror Story, Feud e via dicendo. Ora invece una serie che ha tante stagioni e può essere rivista più volte costituisce una proprietà di valore molto maggiore che, a differenza di quel che accadeva prima, può generare anche un secondo guadagno venendo noleggiata dalle piattaforme rivali o dai canali televisivi.
Un’altra ragione per cui le piattaforme prediligono le serie come The Pitt, simili cioè a quelle di vent’anni fa, è che con l’arrivo della pubblicità è ancora più importante tenere avvinti gli spettatori. Quindi più che avere un prodotto di otto puntate e poi un altro nuovo per attirare nuovi abbonati, preferiscono avere serie più lunghe e ricorrenti, più amate e che garantiscono dati e ascolti stabili per gli inserzionisti.
The Pitt ha tutte queste caratteristiche: è una serie con 15 episodi, cosa molto rara negli ultimi anni in cui le stagioni tendono ad avere meno di 10 episodi. Pur raccontando storie di emergenze e malattie, non è eccessivamente drammatica e comunque alleggerisce di continuo i suoi momenti più cupi. È una serie replicabile potenzialmente all’infinito, proprio perché ogni stagione è una giornata. Non ha star e ha costi molto contenuti (circa 4 milioni a episodio). Anche la cadenza sarà poco meno che annuale: la seconda stagione si prevede possa uscire già a gennaio, otto mesi dopo la fine della trasmissione della prima negli Stati Uniti.
«L’obiettivo finale è creare una rendita perpetua grazie a cataloghi ampi di serie, che possono essere noleggiate continuamente anche per decenni» ha spiegato un professionista degli studios rimasto anonimo sempre a The Ankler. E The Pitt non è l’unica, anzi. Netflix ha Pulse, anch’essa una serie con medici dai tratti simili, Prime Video ha Reacher e Paramount+ ha le serie di Taylor Sheridan nate da Yellowstone.
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