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  • Giovedì 25 settembre 2025

Federico Aldrovandi fu ucciso dalla polizia vent’anni fa

Tre dei quattro agenti condannati tornarono in servizio dopo aver scontato la pena, tra la solidarietà dei colleghi

Tifoseria della Spal in memoria di Federico Aldrovandi, Ferrara, 25 settembre 2019 (ANSA/SERENA CAMPANINI)
Tifoseria della Spal in memoria di Federico Aldrovandi, Ferrara, 25 settembre 2019 (ANSA/SERENA CAMPANINI)
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Federico Aldrovandi venne ucciso a Ferrara la mattina del 25 settembre del 2005, vent’anni fa. Lui aveva diciotto anni. Quasi quattro anni dopo, il 6 luglio del 2009, quattro poliziotti giudicati responsabili dell’omicidio vennero condannati a tre anni e mezzo di carcere, la maggior parte dei quali coperti dall’indulto. Scontarono sei mesi di pena residua e poi tornarono in servizio tra gli applausi dei colleghi. Nel giugno del 2014 si concluse anche un secondo filone processuale, quello per i depistaggi nelle prime indagini, in cui altri tre agenti vennero condannati per favoreggiamento e omissione di atti d’ufficio.

Il caso di Federico Aldrovandi, assieme a quelli di Giuseppe Uva e Stefano Cucchi, è uno dei più noti riguardanti violenze commesse dalle forze dell’ordine nei confronti di persone arrestate.

La notte del 25 settembre 2005 Federico Aldrovandi trascorse una serata con gli amici a Bolo­gna. Abitava a Ferrara, e una volta rientrato nella sua città decise di farsi lasciare dagli amici nel parcheggio delle scuole elementari non lontano da casa, per fare l’ultimo pezzo di strada a piedi. Vicino a viale Ippodromo circolava in quel momento una pattuglia della polizia con a bordo Enzo Pontani e Luca Pollastri, che si imbatterono in Aldrovandi.

I due parlarono in seguito del ragazzo come di un «invasato violento in evidente stato di agitazione»: dissero di essere stati aggrediti e chiamarono rinforzi. Alla prima pattuglia se ne aggiunse quindi una seconda, con a bordo Paolo Forlani e Monica Segatto. Alle 6:04 la prima pattuglia contattò la centrale operativa chiedendo l’invio di un’ambulanza. Secondo i tabulati la richiesta di soccorsi da parte della centrale arrivò alle 6:10: l’ambulanza e un’auto medica arrivarono sul posto dopo qualche minuto.

I sanitari accorsi scrissero nel loro verbale che Aldrovandi era «riverso a terra, prono con le mani ammanettate dietro la schiena». Gli agenti erano ancora inginocchiati su di lui per tenerlo fermo. Non era cosciente e non rispondeva. E accanto al suo corpo c’erano due manganelli spezzati a metà.

Una foto d’archivio di Aldrovandi (STR/BENVENUTI/ANSA)

Il decesso venne con­sta­tato sul posto alle 6.16 del mattino: la famiglia venne avvisata dopo cinque ore, intorno alle 11. Come ha raccontato la madre di Federico Aldrovandi, Patrizia Moretti, da tre ore lei e il marito stavano chiamando Questura e ospe­dali per avere noti­zie del figlio che non era rientrato a casa. La stampa locale raccontò il fatto dicendo che il ragazzo era morto per un malore; poi si diffuse la notizia che aveva assunto sostanze stupefacenti e che questo avrebbe contribuito alla crisi e alla morte per overdose. Lo zio di Aldrovandi, infermiere all’ospedale di Ferrara, vide all’obitorio il corpo del nipote co­perto di ferite e «tutto storto». I genitori iniziarono a non ritenere credibile la morte per malore.

Il 2 gen­naio del 2006 Patrizia Moretti, la madre di Aldrovandi, aprì un blog dedi­cato al figlio. Iniziarono ad arri­vare migliaia di com­menti e messaggi. Il giornale di partito di Rifondazione Comunista Libe­ra­zione e il mani­fe­sto cominciarono per primi a seguire la storia, poi arrivarono anche gli altri giornali e le televisioni. Il 19 gennaio 2006 Titti De Simone, allora par­la­men­tare di Rifondazione, interrogò in parlamento l’allora mini­stro per i rapporti col parlamento Carlo Giovanardi, che sostenne la tesi degli agenti: cioè che Aldrovandi li aveva aggrediti.

Giovanardi parlò di Aldrovandi come di un «eroinomane», poiché dalle indagini tossicologiche su di lui vennero trovate tracce di alcool, ketamina e morfina. Qualche anno dopo, parlando con la trasmissione radiofonica La Zanzara, Giovanardi disse anche un’altra cosa. Patrizia Moretti aveva diffuso una foto di Aldrovandi con una chiazza di sangue sotto la testa, e Giovanardi disse che non era una chiazza, ma un cuscino. Per questa frase venne denunciato per diffamazione aggravata dalla famiglia Aldrovandi.

Per aver detto che Moretti aveva artefatto alcune fotografie del figlio morto venne querelato anche Franco Maccari (presidente del sindacato di polizia COISP) mentre l’agente Paolo Forlani venne denunciato per aver scritto su una pagina Facebook che Aldrovandi era stato allevato come un “cucciolo di maiale”. Nel 2015 però Moretti decise di ritirare le querele motivando con un lungo messaggio la propria decisione.

Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, con l’ex senatore Luigi Manconi il 30 aprile 2014 (ANSA/LUIGI MISTRULLI)

Il 20 febbraio del 2006 arrivarono i risultati della perizia medico legale, secondo la quale la causa della morte di Aldrovandi fu un’insufficienza cardiaca «dovuta all’aumentata richiesta di ossigeno indotta dallo stress psico-fisico» per l’agitazione e la colluttazione per resistere all’immobilizzazione. La perizia cita anche una «ipotetica depressione respiratoria secondaria alla assunzione di oppiacei» e alterazioni nella ventilazione polmonare «prodotte dalla restrizione fisica in posizione prona con le mani ammanettate dietro la schiena».

La conclusione della perizia fu però che «le sostanze rilevate dall’indagine tossicologica non erano idonee nel determinare la morte». Qualche settimana dopo venne depositata la perizia dei consulenti della famiglia. Diceva che la morte era avvenuta per «insufficiente assunzione di ossigeno produttiva di insufficienza miocardica acuta». L’evento era insomma stato causato da una restrizione fisica che aveva impedito a Aldrovandi di respirare. Per quanto riguarda l’assunzione di droghe, la quantità trovata nel corpo di Aldrovandi risultò la stessa della prima perizia e dunque non sufficiente a causare l’arresto respiratorio.

Nel marzo del 2006 si seppe che i quattro agenti presenti la notte del 25 settembre erano indagati per omicidio colposo. Il 16 giugno di quello stesso anno si tenne il primo incidente probatorio, uno strumento con cui durante le indagini preliminari si acquisisce una prova che potrebbe essere utilizzata nel corso di un processo. Nell’ordinamento italiano le prove diventano tali soltanto durante il dibattimento: in certi casi però, soprattutto per ragioni di tempo e praticità, si anticipa l’acquisizione (in gergo si dice che la prova viene “cristallizzata”).

Di fronte al giudice per le indagini preliminari una testimone oculare che risiedeva in viale Ippodromo, la camerunese Anne Marie Tsagueu, raccontò di aver visto parte di quello che era successo: lo descrisse come un pestaggio da parte dei poliziotti. Venne disposta una nuova perizia, eseguita a Torino e depositata a novembre: escluse definitivamente un legame tra la morte e l’assunzione di sostanze stupefacenti da parte di Aldrovandi. Nel gennaio del 2007 i quattro poliziotti vennero rinviati a giudizio per omicidio colposo.

La prima udienza del processo venne fissata nell’ottobre del 2007. Vi furono diverse testimonianze e vennero fatte ipotesi di depistaggio; venne mostrato un video di dodici minuti girato dalla polizia scientifica sul luogo dell’evento, prima dell’arrivo del medico legale e quando Aldrovandi era già morto disteso sull’asfalto. Nel video gli agenti si scambiavano considerazioni, ed emersero divergenze rispetto alle foto scattate dal medico legale. Furono interrogati gli agenti imputati, che dissero che Aldrovandi «stava benissimo prima dell’arrivo dei medici», e vi furono due nuove perizie.

L’accusa chiese una condanna a tre anni e otto mesi per i poliziotti che avevano ecceduto nel loro intervento, che non avevano raccolto le richieste di aiuto del ragazzo e che avevano infierito su di lui con i manganelli, spezzandoli.

La sentenza accolse infine la tesi del professor Gaetano Thiene, cardiopatologo dell’Università di Padova, secondo cui la morte fu dovuta ad asfissia per compressione toracica. La pressione esercitata sul tronco di Aldrovandi dagli agenti, mentre era ammanettato, determinò lo schiacciamento del cuore. Il 6 luglio 2009 il giudice del tribunale di Ferrara condannò per omicidio colposo a tre anni e sei mesi di reclusione i quattro indagati, riconoscendo un «eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi».

Nella sentenza scrisse che se anche «il ragazzo fosse stato effettivamente molto agitato, la mancanza di senso della funzione sociale della polizia, l’inaffidabilità degli imputati, la loro oggettiva pericolosità per la manifesta inadeguatezza nell’autodisciplinarsi nell’esercizio delle delicatissime funzioni e nell’autocontrollo nell’uso dello straordinario potere di esercizio autorizzato della forza, giocano nel senso di attribuire al fatto un’obbiettiva elevata gravità». La Corte d’Appello di Bologna confermò la pena e nel giugno del 2012 la Cassazione rese definitiva la sentenza.

I poliziotti condannati in via definitiva beneficiarono dell’indulto, che copriva 36 dei 42 mesi di carcerazione previsti. Il 29 gennaio del 2013 il Tribunale di sorveglianza di Bologna stabilì il carcere per la pena residua di quei 6 mesi.

«Rimanemmo impressionati dalla sentenza di primo grado», ricordò in seguito l’allora presidente del Tribunale di sorveglianza. «Erano meritevoli di una misura alternativa alla detenzione? Non ne riscontrammo le condizioni per la mancata comprensione della gravità delle condotta, la mancata autocritica, nemmeno un gesto simbolico nei confronti della vittima e dei familiari, semmai pessime esternazioni su Facebook».

Nel gennaio del 2014, tre dei quattro poliziotti ritornarono in servizio occupandosi in ufficio di cose amministrative per la polizia, in sedi lontane da Ferrara.

Dopo la prima sentenza, i sindacati della polizia fecero una campagna per confutare la decisione del tribunale di primo grado e chiedere la revisione del processo. Nel marzo del 2013 il COISP organizzò un sit-in di solidarietà con i colleghi condannati sotto l’ufficio di Patrizia Moretti, madre di Aldrovandi, che commentò dicendo: «Non ho parole». Nell’aprile del 2014 avvenne poi un episodio molto discusso: durante una delle sessioni del congresso del Sindacato autonomo di polizia (SAP) al Grand Hotel di Rimini, i delegati dell’organizzazione dedicarono un applauso di diversi minuti ai tre agenti condannati rientrati in servizio due mesi prima.

Il portavoce del SAP, Massimo Montebove, giustificò il lungo applauso dicendo che «rispettiamo le sentenze, ma abbiamo voluto esprimere solidarietà a questi ragazzi e a tutti coloro che fanno questo lavoro». Disse anche di non avere provato «nessun imbarazzo». Gianni Tonelli, che del SAP era segretario generale, disse che i suoi colleghi erano stati «ingiustamente condannati» e che avevano «patito un danno infinito»: «C’è un ragazzo morto? Tutti i giorni muoiono persone giovani sulle strade ma non per questo la colpa è delle strade».

Il 9 ottobre del 2010 venne stabilito un risarcimento di circa due milioni di euro a favore della famiglia di Federico Aldrovandi, in cambio dell’impegno a non costituirsi parte civile nei procedimenti ancora aperti. La Corte dei Conti fece richiesta che la somma venisse pagata dai poliziotti e dispose il sequestro del quinto degli stipendi e di altri beni per i quattro agenti.

– Leggi anche: “E’ stato morto un ragazzo”, il documentario sulla morte di Federico Aldrovandi