Come fa a esistere il baseball per ciechi?

«Quando ho conosciuto Giuseppe, mi sono chiesta: come è possibile per un cieco giocare a uno sport in cui bisogna colpire al volo una pallina con una mazza? Per farla breve, adesso sono una tifosa dei Thurpos di Cagliari e non mi perdo una partita. Ho cominciato a entusiasmarmi al primo allenamento»

I Thurpos a Iglesias il 14 giugno 2025 prima di sconfiggere la Fiorentina. (foto Gabriella Saba)
I Thurpos a Iglesias il 14 giugno 2025 prima di sconfiggere la Fiorentina. (foto Gabriella Saba)
Gabriella Saba
Gabriella Saba

È una giornalista specializzata in America Latina, su cui ha anche scritto qualche libro. Collabora con il Venerdì di Repubblica, Millennium e giornali stranieri. Ha vissuto in Cile e a Cuba.

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Per molti anni da bambina ho sognato di diventare cieca. Entravo in una stanza illuminata che all’improvviso, chiudendo gli occhi, diventava buia, oppure camminavo in mezzo a paesaggi che mi erano invisibili, spostandomi a tentoni. A volte erano sogni più movimentati: per esempio cercavo di costruire una casa da sola, senza vedere. Raramente erano incubi, oscillavo tra lo stupore, la sfida e il gioco.

Quando mi svegliavo pensavo molto a quei sogni. Avevo pianto vedendo Anna dei miracoli (ancora oggi ricordo nei dettagli la scena in cui la sedicenne sordo-cieca Helen Keller, interpretata da Patty Duke, avanzava con gli occhi vuoti e le braccia protese verso la sua educatrice, Anne Sullivan, la donna dei miracoli) e cercavo in giro bambini non vedenti da conoscere.

Da adulta ho smesso di sognare di essere cieca, il mio rapporto con la cecità si è spostato su un piano più teorico, ho letto molti libri sul tema senza mai aver conosciuto un non vedente. Il primo è stato Giuseppe Tocco. Me lo ha presentato la nostra comune amica Francesca, dicendo «lui è il presidente e attaccante cieco della squadra sarda di baseball per ciechi»… baseball per ciechi? Come poteva un cieco giocare a uno sport in cui bisogna colpire al volo una pallina con una mazza? E come era possibile che esistesse una squadra in cui perfino il presidente non vedeva?

Sono domande a cui ho risposto grazie a Tocco dopo essermi avvicinata ai Thurpos di Cagliari (dove “thurpos” è un modo ironico dello slang sardo per definire chi non vede, qualcosa tipo “orbo”), squadra iscritta al campionato nazionale di baseball per non vedenti, con una rosa di venti giocatori tra i 28 e i 72 anni tra cui due donne. Nel 2017 alcuni fuorusciti dei Tigers, la prima squadra di baseball sarda per ciechi, si erano messi insieme per fondare il primo team in Italia composto e diretto soltanto da non vedenti: Andrea Spiga e Daniela Romano, che sono fidanzati e, appunto, Giuseppe Tocco, soprannominato “Wikipresi” dai giocatori a causa della sua cultura.

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La prima volta non avrei detto che Tocco non vedesse, non fosse stato per lo sguardo assente che ogni tanto si posava sulle cose. Mi ero preparata all’incontro con la disposizione tipica dei normodotati, ma quella impalcatura mista di curiosità e comprensione si è sgretolata quando mi ha raccontato la sua storia e quella della squadra: la progressiva perdita della vista diventata definitiva vent’anni fa, ma a cui si era preparato per tempo senza autocommiserarsi, grazie a una madre che, racconta, anziché trattarlo come “il povero cieco”, lo aveva spinto a reagire.

Per farla breve, adesso sono una tifosa dei Thurpos e non mi perdo una partita. Ho cominciato a entusiasmarmi al primo allenamento nel campo di calcio a Sant’Elia, il quartiere popolare di Cagliari dove la squadra si allena, nella distesa rossa e ardente in cui le grida di incitamento e gli sfottò si mescolavano all’adrenalina: «Non sei nessuno!», gridava di continuo Giovanni, un giovane uomo ben piantato, al battitore.

Prima c’è la preparazione atletica, che i giocatori affrontano con energia nonostante il caldo torrido, e uno potrebbe dire cosa c’è di strano? Sono ciechi mica paraplegici. Però ci metti un po’ per accettare fino in fondo quello che il filosofo John Hull scrive nel suo straordinario memoir sulla sua cecità, Il dono oscuro: «Devo forse pensare a me stesso non come a una persona menomata da un difetto ma come a una persona arricchita da una nuova qualità». Facevo fatica ad applicare quel concetto al piano pratico sportivo, a vederlo come un metodo grazie al quale la menomazione si trasforma in concentrazione su sé stessi per riorganizzare le proprie funzioni. Mi sembrava impossibile che un vedente potesse sintonizzarsi su chi non vede senza trattarlo come un adulto ridimensionato.

Per me la svolta è arrivata a Iglesias, l’unica città sarda a disporre di uno stadio da baseball, durante la penultima partita del campionato BXC 2025 (Baseball per ciechi) che i bellicosi Thurpos hanno disputato il 14 giugno contro la Fiorentina. Li ho visti arrivare alla stazione ferroviaria di Cagliari con i bastoni bianchi: Daniela, il suo fidanzato Andrea, Guendalina e Giancarlo Farigu, che la vista l’ha persa cinque anni fa, a quarantasette anni, dopo essersi schiantato in auto contro un blocco di cemento per un colpo di sonno: «Mi sono svegliato dopo cinquantadue giorni. Mi avevano operato all’addome e al viso, ma la vista se n’era andata. Ero comunque vivo, ma non potevo che accettare quel mio stato».

All’inizio Giancarlo si è iscritto a corsi di degustazione di olio, poi qualcuno gli ha parlato di una squadra di baseball per ciechi e ha chiesto stupefatto: «Baseball per ciechi, ma seriamente?». Adesso è uno dei più bravi. Faccio fatica a incrociare le storie di tutti mentre mi parlano da una parte all’altra del vagone e il capotreno scandisce urlando le fermate. Andrea, per esempio, ha 34 anni e oltre a giocare suona batteria e flauto traverso a cui, dopo essere diventato cieco a causa di un’infezione non riconosciuta, ha aggiunto piano, chitarra, sassofono e altri strumenti. Da qualche anno fa parte del gruppo Miscela 5%, che si esibisce nei locali sardi e realizza mashup improbabili tra Depeche Mode e Toto Cutugno, Rammstein e Little Tony. La fidanzata Daniela, seduta accanto a lui, mi spiega che a lei è capitato di perdere la vista per una diagnosi sbagliata su una patologia rara e che a diciotto anni ha deciso di affrontare il mondo che fino a quel momento l’aveva ferita: le compagne che la emarginavano al liceo abbandonato per l’umiliazione, salvo riprendere gli studi più tardi e diplomarsi.

Sono tutti gasati per la partita, ma l’adrenalina e lo spirito combattivo montano davvero quando arriviamo allo stadio e indossano la maglia della squadra. Ognuno ha sulla schiena il numero e il nome di battaglia: Giuseppe Tocco è “Attila”, Daniela “Xena”, Andrea Spiga “Spiger Man”, Guendalina “Wendy”, Giancarlo Farigu “Robocop” perché «ho talmente tante viti in corpo che neanche un negozio di ferramenta». Alle tre di pomeriggio con un caldo da svenire l’erba dello stadio brilla sotto il sole a picco, le gradinate sono vuote per il caldo ma gli spettatori si assiepano sotto gli spalti.

Giancarlo “Robocop” e Guendalina “Wendy” davanti al campo prima della partita. (foto Gabriella Saba)

Mi aggiro nei corridoi dove i giocatori mangiano prima della partita. Dietro a ciascuno di loro c’è una storia. Giorgio Lai, soprannominato Nonno, ha 72 anni e faceva il commerciante di abbigliamento. Diventò cieco 28 anni fa per una retinite pigmentosa. Uscì dalla depressione grazie al teatro, che è ancora la sua vita. Marco, cieco dalla nascita, ha 41 anni e ha vissuto a Clermont-Ferrand, Parigi e Firenze, per poi tornare a Cagliari, dove fa il centralinista.

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Simone, che ha 39 anni, ha conosciuto la sua compagna durante una maratona, altro sport che ha scoperto da cieco. Guendalina a 28 anni è la piccola del gruppo. Scoprì di avere un tumore agli occhi a dieci anni e ancora ricorda l’angoscia di entrare in classe senza capelli per la chemioterapia. E poi ci sono gli assistenti vedenti, che accompagnano la squadra in auto e che durante la partita battono le palette per segnalare ai giocatori dove si trovi la pallina, o che accompagnano alla casa base chi deve battere: Roberto, Rosi e Gimmy, il coach. Tutti quanti, la prima volta che hanno sentito parlare dei Thurpos, hanno risposto come me: «Baseball per non vedenti?».

Oggi per un altro Giuseppe, detto Gigio o Topo Gigio, la squadra è così importante che una volta alla settimana parte da Sassari, dove vive, e si sobbarca un viaggio in treno di almeno tre ore per partecipare agli allenamenti a Cagliari: «Il baseball mi aiuta a perfezionare gli spazi interni e quelli esterni, sia in campo sia nella vita quotidiana». Ed è questo, in fondo, che mi affascina di più: l’incontro tra la cecità e uno sport che, più di altri, è fatto di geometrie precise e si basa su una profonda immaginazione dello spazio, come quando da piccola cercavo di costruire una casa a occhi chiusi.

Per inciso, Thurpos è una realtà solida: i soldi erogati dalla Regione li arrotonda con iniziative come le cene al buio per vedenti. Oltre a questo fanno volontariato nelle scuole per combattere il bullismo e l’emarginazione nei confronti dei disabili. A Tocco preme dire anche che il movimento del Baseball per ciechi fa parte della Federazione italiana baseball e softball (FIBS), quella delle squadre di normodotati: «Spesso gli sport per non vedenti vengono seguiti da una federazione parallela chiamata FISPIC, Federazione italiana degli sport paralimpici per ipovedenti e ciechi, mentre noi come baseball facciamo parte di quella normale».

Prima del fischio di inizio, Giuseppe Tocco convoca i giocatori nello spogliatoio: «Le ultime due partite non sono andate bene perché non ci siamo divertiti! Questa volta dobbiamo divertirci e vincere. E adesso l’inno!». Scattano tutti in piedi e intonano Dimonios, il canto di battaglia della Brigata Sassari.

«China su fronte
si ses sezzidu pesa!
ch’es passende
sa Brigata tattaresa
boh! boh!
e cun sa manu sinna
sa mezzus gioventude
de Sardigna

Semus istiga
de cudd’antica zente
ch’à s’innimigu
frimmaiat su coro
boh! boh!
es nostra oe s’insigna
pro s’onore de s’Italia
e de Sardigna […]

Sa fide nostra
no la pagat dinari
ajò! dimonios!
avanti forza paris»

Giuseppe lo hanno sempre scelto come leader o presidente: della cooperativa sociale che stampava libri in braille prima e poi dell’Associazione regionale privi della vista e ipovedenti. Da un anno è anche capitano della Nazionale che ha perso nei mondiali scorsi la finale a Londra contro Cuba, una sconfitta che ancora non gli va giù.

Quanto a me, va detto che di baseball non ho mai capito niente, fino a un mese fa. Ero sicura fosse uno sport bellissimo per come ne parlava Don DeLillo in Underworld, ma come la maggior parte degli italiani non mi ero però mai preoccupata di impararne le regole né di seguire una partita intera. Ho cominciato a studiarlo solo per capire i Thurpos, anche se il baseball per non vedenti è un po’ diverso da quello standard. Per prima cosa la palla ha nel suo interno dei sonagli per aiutare i giocatori a individuarla, poi si salta la prima base e la pallina è colpita dal basso direttamente dal battitore (non c’è un lanciatore), e i difensori si buttano per terra per prenderla.

Il primo a battere è Giuseppe. Colpisce una bella palla lunga e poi corre a conquistare la seconda base dopo aver aggirato la prima. A quel punto batte un altro che a sua volta comincia a correre verso la terza base ed è così spedito che chiedo stupefatta a qualcuno accanto a me: «Ma siete sicuri di essere proprio ciechi?». I Thurpos ci mettono un po’ a ingranare, ma poi si portano in vantaggio e il loro vantaggio aumenta mano a mano. Mi sono messa a tifare come una dannata mentre alla consolle Giorgio Lai, l’attore, commentava la partita gridando, grazie ai suggerimenti della moglie Mariella: «Primo strike!», «Fine del primo inning!». Giuseppe fa un bel po’ di colpi fuori campo con la sua mazza personale, Chimera: non è un caso se quest’anno è stato il miglior battitore del campionato. A ogni punto guadagnato sugli spalti facciamo la ola. In campo sono distrutti e fradici, come faranno con quel caldo. E invece fanno e vincono, 13 a 3, dopo due ore e mezza. Abbracci con gli avversari, la foto tutti insieme e poi al bar per una birra.

Non è chiarissimo in che punto scompaia la premura un po’ paternalistica di chi vede nei confronti di chi non può farlo, ma di colpo ti dimentichi che era una partita tra ciechi e guardi solo una partita combattuta e adrenalinica. Di certo c’è che quel paternalismo si rivela in fretta una sovrastruttura culturale, un preconcetto che si affloscia a mano a mano che ti avvicini ai non vedenti e che la conoscenza diretta prende il posto della rappresentazione fumosa che ti eri costruita immaginandotelo.

Sono tornata a Cagliari in treno insieme a Giancarlo e a Manuela, la sua fidanzata. Mi hanno raccontato la loro vita, del cane guida che Giancarlo ha preso a Firenze. Io sono ancora nel mood che non li considero ciechi. Me ne sono dimenticata, gli parlo come se potessero distinguere le persone in base al loro aspetto. Dico cose assurde: «Quel ragazzo rasta che giocava nella Fiorentina, hai presente? Quello con i dreadlocks». All’arrivo mi chiedono di accompagnarli alla fermata dell’autobus. E lì ritornano alla loro realtà di non vedenti che possono giocare a baseball, ma per molte altre cose hanno bisogno degli altri. Non so se sia un dono come dice Giancarlo, o almeno un “dono oscuro” come ha scritto il filosofo John Hull. Non spetta a me deciderlo, però camminando ho chiuso gli occhi come facevo da bambina.

– Leggi anche: Storia del mio occhio di vetro, di Ludovica Barassi

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