Che forma ha il progresso alle isole Gili, Indonesia
«Come si misura l’arretratezza di un posto? Qui sembra impossibile. Perché basta lasciare la strada che cinge l’isola e addentrarsi nei sentieri sconnessi e fangosi che penetrano verso l’interno per scoprire come l’estasi fatiscente di hotel, ristoranti e centri massaggi del lungomare sia un fondale fantasmagorico che copre uno sprofondo di miseria vera»

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Alle sei del pomeriggio, quando buona parte dei bagnanti ha già iniziato a sciamare in bicicletta verso l’altro capo dell’isola per godersi il tramonto («The best Indonesian sunset beach», recitano i cartelli), la voce del muezzin si sovrappone alla musica ipnotica del lounge bar dove stiamo stravaccati a bere un calice di vino: un’interferenza a cui comunque nessuno sembra dare gran peso. Di certo non questo belloccio francese, sulla quarantina, che scopriremo essere il proprietario del “La Cala Club”, e che da un po’ conversa con una donna bionda, americana, col fare da ammaliatore consumato e, forse per aumentare il suo appeal nei confronti di lei, impartisce con tono autoritario indicazioni ai suoi camerieri, ragazzetti autoctoni piuttosto impacciati nei movimenti. Uno di loro – «Only good vibes» scritto sulla polo d’ordinanza –, avvicinandosi ai nostri ombrelloni e cogliendo la nostra sorpresa, ci spiega in un inglese approssimativo che sì, «ci sono tre moschee, qui a Gili Trawangan».
Ma le altre due, più piccole, bisogna sapere andare a trovarle, inoltrandosi verso il centro dell’isola. Questa, invece, nella sua imponenza un po’ sgraziata, la sua pretenziosa architettura in disfacimento che sa quasi di abuso edilizio suditalico, sta proprio sul lungomare, in mezzo alla caciara, lo slargo d’accesso che si apre tra una vetrina di costumi e uno dei mille baldacchini che propongono gite in barca e lezioni di diving. Il minareto, esile e precario come una scultura di stuzzicadenti, a vederlo dal largo, svetta sul profilo piatto dell’isolotto come la torre di un faro. E da lassù gli altoparlanti irradiano la cantilena stentorea del muezzin, mentre qui si sorseggia Chardonnay australiano sul sottofondo di Reality di Lost Frequencies.
«A volte i turisti si lamentano, specie per il richiamo alla preghiera dell’alba, che li sveglia troppo presto», ci spiega il giovane cameriere, prima di strigliare un bambino che a pochi metri da noi, scalzo e con la maglia di Cristiano Ronaldo, alza un nuvolone di sabbia scuotendo la grande fune a cui è legato un barchino, quasi volesse salpare. Dietro di lui, un gruppo di sue coetanee, avranno nove o dieci anni, tutte col chador indosso, si rincorrono in un rettangolo di bagnasciuga recintato da alcune corde, sotto lo sguardo delle madri, intabarrate pure loro: una delle bambine, distraendosi per un attimo dal gioco, si avvicina a una coppia – bermuda lui, bikini lei – che si fa un selfie vista mare, accenna una specie di saluto canzonatorio, poi riprende a correre.
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Gli amici che sapevano, gente che c’era già stata, ci avevano avvisato: «Portatevi birre e cappelli». Perché il ponte dell’aliscafo che da Bali porta a Trawangan è quasi sempre attrezzato con cassa d’amplificazione gigante, e siccome giù in stiva l’aria condizionata va a singhiozzo, e l’odore è quel che è, tranne gli anziani si finisce un po’ tutti a bere e ballicchiare col vento in faccia e il sole in fronte, concedendosi un anticipo d’ebbrezza nel blu splendente dell’oceano Indiano.
Solo che con noi l’oceano, oggi, ha deciso di essere meno ospitale: cavalloni di cinque o sei metri, e la barca che oscilla, che salta da un’onda all’altra, restando per lunghi secondi sospesa nel vuoto, col motore che d’improvviso si tace, e poi di nuovo giù, sbatacchiata dai marosi. Per cui quei pochi temerari che tentano l’avanscoperta sul ponte se ne tornano, fradici e stravolti, sottocoperta, a ingrossare pure loro la coda dei nauseati che, privi come siamo di sacchetti d’emergenza, stanno in fila davanti a un secchio da straccio messo accanto alla cabina del comandante: si va lì, si attende sperando di resistere fino al proprio turno, ci si regge a una ringhiera, braccia larghe, busto inclinato, si vomita nel secchio dove altri hanno appena vomitato, ci si asciuga con un fazzoletto, si torna a sedere. Dura quasi due ore, il viaggio. Lo strazio parrebbe concluso solo quando, finalmente, si entra nella rada di Gili Trawangan.
E invece occorrerà ancora un’ora buona di travaglio, sull’unico molo d’attracco, perché per qualche motivo non facilmente intuibile – pare ci sia stato un errore nell’ordine di arrivo degli aliscafi in partenza, con conseguente trambusto di gente da trasbordare da una barca all’altra, o forse no, forse boh, vai a sapere – c’è una ressa da Malebolge, e turisti impantanati quasi tutti indemoniati, con le loro ascelle pezzate, e un pandemonio di trolley e zaini, e madri che richiamano all’ordine i figli spazientiti che frignano, e i membri dell’equipaggio delle varie navi che si sbracciano come possono per canalizzare il traffico di carne e d’ossa.
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Insomma si capisce subito che se l’idea era di godersi tre giorni di mare in tranquillità, dopo cinque giorni di intenso girovagare balinese, scarpinate e sudate tra templi e giungle e risaie e ancora templi e ancora templi, allora le aspettative vanno ritarate alla luce della baraonda che ci accoglie. Perfino il traffico, impensabilmente, per quanto così diverso da quello di Ubud e dintorni, è allo stesso modo molesto: ché i padroni della strada, qui, i guidatori di questi calessi malandati – cidomo li chiamano – si limitano a suonare le loro folkloristiche trombette per ricordare ai turisti intenti a passeggiare beatamente, o magari a trascinare i loro valigioni, che se si lasciano travolgere dai cavalli, eh be’, non è che poi possano lamentarsi.

Donne in preghiera nel tempio di Gunung Lebah, a Bali (Valerio Valentini/Il Post)
Ma del resto qui a Gili Trawangan – la più grande di queste tre striminzite isole a nord ovest di Lombok, dove più grande significa tre chilometri di lunghezza per due di larghezza, una superficie che è poco più della metà di Ponza – ci si muove così: su dei carretti trainati da cavalli imbellettati con una ricca bardatura variopinta, tipo quelli siciliani ma assai meno raffinati, con corredo di campanelli e campanacci a segnalarne il transito. Cercando su internet informazioni generali sulle Gili, il ricorso esclusivo a questo traffico equino è una delle curiosità in cui più facilmente ci s’imbatte: e, siccome i tempi lo impongono, il progressista mondo del web è pieno di travel influencer e travel vlogger che, da bravi travèt del pol. corr. digitale, pubblicano questi video in cui si mostrano, appena sbarcati a Trawangan, preoccupati per le condizioni degli animali, e se ne accertano coi proprietari prima di acconsentire a lasciarsi portare in giro per l’isola. E va detto che qualcosa, questa nuova sensibilità animalista l’ha ottenuta: pare cioè che davvero, rispetto a una decina d’anni fa, il trattamento riservato a questi infaticabili trasportatori di turisti e valigie sia di gran lunga migliorato, e quelle foto «raccapriccianti di cavalli scheletrici, visibilmente sottopeso e con le costole in vista» — così si legge su Tripadvisor, ed era il 2014 — siano testimonianza di una barbarie dismessa. Evidentemente i locali hanno capito che alle ansie dei turisti occidentali più zelanti bisognava iniziare a badare, per evitare di perdere clientela.

I carri trainati dai cavalli in attesa di caricare i turisti, davanti al molo (Valerio Valentini/Il Post)
Quanto alle condizioni dei vetturini local, in rete c’è meno letteratura. E forse un poco loro questo disinteresse che li investe devono percepirlo, se ripagano i clienti della stessa moneta: scarsissima confidenza, tratti bruschi fino quasi a essere scortesi, si coordinano tra loro con delle radioline in perenne fibrillazione per gestire l’andirivieni di calessi intorno al molo con l’aria immancabilmente infastidita di chi vorrebbe essere altrove. Il nostro autista avrà forse vent’anni e non parla inglese, premette: questa precisazione, detta quasi più come un avvertimento che una giustificazione, è l’unica cosa che ci riesce di strappargli nei dieci minuti che impieghiamo per raggiungere il nostro residence. Perfino quando gli lasciamo 20 mila rupie di mancia, cioè un euro e qualche cosa, oltre alle 150 mila che sono il prezzo della corsa, le prende con noncuranza, e riparte senza salutare. Il che risalta in modo così stridente rispetto ai sorrisi sempre smisurati, quella cortesia dispensata a piene braccia e quasi invadente, quasi urticante, che abbiamo dovuto gestire per cinque giorni a Ubud, tutto quel profluvio di «Thank you sir», e «Of course sir», e «Suksma», e inchini e salamelecchi.
«C’è che qui non siamo ancora abituati», ci spiegherà Hadi, il ragazzo della hall del Palmeto Village (sei bungalow in legno in un angolo non proprio ospitale dell’isola, con un baracchino per l’accoglienza e uno, più grande, per la colazione), aperto parecchi anni addietro da una signora italiana che ha poi venduto, pare, a dei cinesi, dopo la stagione grama del Covid. Hadi ha 24 anni, viene da Lombok, l’isola di cui le Gili sono minuscoli satelliti, come quasi tutti gli stagionali impiegati qui tra aprile e settembre, e poi a dicembre per il capodanno. Racconta orgoglioso mostrandoci sullo smartphone la foto della sua bambina di otto mesi, di aver iniziato a quindici anni, in un ostello francese poco distante dove avevano già assunto il cugino più grande. E insomma ci tiene a far sapere che ha imparato, lui, a stare al mondo: per questo sorride sempre ed è, lui sì, così accomodante nei confronti di ogni richiesta. «Ma comunque le cose stanno cambiando in meglio», prosegue, e a dimostrazione di questo progredire verso nuovi orizzonti ci rassicura sul fatto che è davvero da tanto tempo, «e non saprei dire quanto, ma tanto», che gli autoctoni, un poco nauseati dallo stravolgimento della loro isoletta, non danno l’assalto ai residence degli occidentali.
Che poi forse neppure è giusto definirli assalti, che fa pensare a una carica condotta a colpi di machete: è successo piuttosto, anni fa, che nei mesi di bassa stagione, con l’isola deserta o quasi, i pochi residenti non saltuari, quattrocento persone in tutto, decidessero di vandalizzare le strutture, o magari si accanissero sui cantieri degli hotel in costruzione. Qualche incendio, si narra. Il tutto in odio all’assedio dell’overtourism, sì, ma forse c’entrano anche questioni più banali: c’entra cioè l’opporsi ad alcuni espropri disposti per allargare i sentieri, l’interferire con la compravendita dei terreni, il provare a indirizzare quella certa opera, quella certa speculazione e quel minimo che gli isolani sperano di poterci guadagnare su, dove lo si ritiene più conveniente. Hadi rinserra la testa nelle spalle: «Piano piano saremo bravi come sono a Bali coi turisti», dice soltanto.
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Come si misura l’arretratezza di un posto? Che parametro utilizzare? Mia madre, spirito pratico, di solito il problema lo risolve così: «Stanno come si stava da noi quanti anni fa?». Questa è la domanda che mia madre ogni volta si pone, quando visita paesi meno sviluppati – meno sviluppati rispetto a un da noi con cui va inteso non lo standard italiano, ma l’arrangiarsi più o meno dignitoso che vige sull’Appennino abruzzese dove lei è nata e cresciuta. Quando con mio padre sono andati a Medjugorje, di recente, è stata categorica: quarant’anni. Strade un po’ asfaltate e un po’ no, promiscuità residuale tra uomo e animale appena ci si allontanava dal recinto smaltato del santuario, insomma responso inequivocabile: «Stanno indietro di quarant’anni». Al Cairo, la sentenza l’aveva dettata la sporcizia immonda nel mercato cittadino, gli uomini che sputavano in strada, le donne velate che ancora lavavano i panni in delle grandi vasche collettive: «Come da noi cinquant’anni fa». Il che denota, certo, una fiducia commovente nella forza tranquilla del Bene che trionfa, nell’avanzamento inarrestabile del progresso che più o meno dovunque, sia pure con tempi diversi, arriva col medesimo passo di marcia. Ma forse dice anche di come il mondo che mia madre è andata scoprendo negli anni della sua maturità, che è grosso modo ciò che sta rinchiuso nel Mediterraneo e nei suoi immediati dintorni, davvero si prestava a questo calcolo a suo modo semplice ma efficace. Ma qui, come applicarlo questo principio?
Qui, semplicemente, sembra impossibile. Perché basta lasciare la strada più o meno lastricata che cinge l’isola nel suo perimetro ellittico – un perimetro che consiste in un susseguirsi di hotel, ristoranti, centri massaggi e agenzie per escursioni in barca – e addentrarsi nei sentieri sconnessi e fangosi che penetrano verso l’interno per scoprire come quell’estasi fatiscente che si respira sul lungomare sia un fondale fantasmagorico che copre uno sprofondo di miseria vera. Eppure anche lì, nel mezzo di enormi piantagioni di palme, con baracconi che s’intravedono qua e là, fili della corrente aggrovigliati sui rami degli alberi, spurghi maleodoranti che rigonfiano delle pozzanghere difficili da schivare in bici, specie la sera quando cala il buio, e i lampioni valli a cercare, quaggiù, anche lì, dicevo, è sembrato giusto costruire hotel a quattro o cinque stelle, e un Irish Pub e delle spa, e case vacanze e resort, non tutti davvero invitanti, ma tutti con la loro piscina, o col surrogato di una piscina (una vasca spesso non più lunga di tre o quattro metri, ma sempre in bella vista, ché evidentemente qualcuno deve avere spiegato agli architetti indonesiani che agli occidentali l’idea di avere la piscina nell’hotel eccita a prescindere, basta che ci sia, che faccia arredo).
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Nel lato ovest, quello non balneabile per via della barriera corallina – più che altro un cimitero di coralli scoloriti, in effetti – tutto si dà un tono più altezzoso, più elegante: coi chiringuiti chic e i ristoranti sulla spiaggia con la bossanova in sottofondo e i vini europei nella carta, e i larghi prati curatissimi a separare i bungalow dalla spiaggia, con l’inevitabile sconfinamento nel kitsch di resort che hanno la forma di una prua di una nave da crociera.
Dalla parte del porticciolo, invece, sulla sponda opposta, dove ci si fa il bagno, lo svacco è senza grosse velleità, se non quella di condensare in duecento metri, o poco più, tutte le possibili versioni della locura che fanno trending su TikTok: e allora le sessioni di pub crawl per eleggere il bevitore più inscalfibile, le sfide di beer pong, karaoke e musica dal vivo. E poi, ovviamente, il fantasioso scimmiottare cucine e atmosfere occidentali: c’è la boulangerie e il kebab e il gyros, e poi ovviamente gelaterie e pizzerie e ristoranti italiani come se piovessero, perfino con la pasta all’uovo tirata a mano in diretta: sembra di stare in centro a Bologna, se non fosse che il massaio in vetrina con la parannanza è un ragazzetto indonesiano.

Sul viale principale, davanti al molo, ci sono decine di posti che propongono cibo europeo: qui, un ragazzo indonesiano che tira la pasta all’uovo in un improbabile ristorante italiano (Valerio Valentini/Il Post)
Il tutto in un ciclo continuo che scandisce l’intero corso degli accidenti dall’alba al tramonto. Al mattino, sul molo, le barche che vengono da Lombok o da Bali scaricano a centinaia casse di Bintang e d’alcool che serviranno per l’happy hour e quel che seguirà, e insieme a quelle scaricano pure un’infinità di barilotti d’acqua e cubi di ghiaccio («safe mineral water», qui, è uno dei segnali più qualificanti, per bar e pub, ché l’assillo del “Bali Belly“, di batteri bastardi e insomma del cagotto, non smette mai d’accompagnare i turisti). E certo, ogni cosa andrà smaltita: «Si ricaricano tutti i vuoti sulle stesse barche che scaricano qui al mattino, e poi li portano nelle discariche a Bali», ci rassicura in buon inglese uno dei mozzi che interroghiamo. Chissà.
Quanti anni indietro, insomma, rispetto a noi? L’abilità con cui questa ragazzina – la cui vita intima si svolge dentro un baracca adibita a negozio, dietro il paravento alle sue spalle, oltre il quale s’intravede un cucinino a gas e un materassino sdrucito – mi apre lo smartphone per inserire la sim locale e la attiva smanettando con velocità impensabile, in una successione di tap e di scroll mandati a memoria e che dunque non è affatto impedita dalla lingua delle mie impostazioni, come s’inserisce tra le variabili dell’equazione temporale? Che epoca dello sviluppo umano denota, se la denota? Forse non c’è alcuna linearità necessaria, nessuna consequenzialità obbligata, nella diffusione del progresso. Nessun avanzamento risulta così indispensabile per ammettere, o escludere, il successivo: la modernità, specie nella sua dimensione di consumo, sa attecchire benissimo anche laddove sembrerebbero mancarne le premesse minime. La forza della modernità è anzitutto forza d’adattamento: abbaglia anche senza risplendere, colonizza perché non ha pretesa di conquista.
«Ormai è un delirio, una roba senza senso», scuote la testa Alessio, istruttore di sub livornese che s’è trasferito qui in pianta stabile vent’anni fa. «Allora sì, che era un paradiso, Gili T. Non c’era quasi nulla. Ma ormai… Io quando voglio stare da solo, non incontrare anima viva per una settimana intera, mi faccio un’ora di aereo e raggiungo certe isolette che non te lo dico nemmeno, che spettacolo. Ma qui, invece, ormai è pieno di gente che c’ha bisogno della camicina, del calzino, e che magari fa tappa qui dopo essere stata a Bali o a Singapore». Al che noi, che qui a Trawangan siamo venuti per intervallare con quattro giorni di mare la visita a Bali e quella a Singapore, neghiamo, risolutamente neghiamo di sentire nostalgia dei calzini, e «certo, noi siamo qui per restarci due settimane e goderci l’isola», giuriamo. Ma Alessio ormai segue il suo copione della lagnanza, che pare abbastanza collaudato: «Ma io dico? Ma che vi dice il cervello – bercia rivolto a una ipotetica folla di ragazzi europei in cerca di movida – per farvi fare dodici ore di volo, spendere uno sfacelo di soldi e passare le serate a imbenzinarvi e le giornate a riprendervi dal coma? Ma a quel punto non è meglio andare a Ibiza?».
Be’, oddio, forse a Ibiza questo mare non c’è. Non ci sono le tartarughe giganti a bearsi a dieci metri dalla riva. Quindi forse è anche un po’ per questo che gli europei vengono qui agli antipodi. Almeno finché dura. Perché in effetti nella leggerezza con cui tutto, qui, viene offerto alla disinibita fruizione dei turisti, il fantasma del collasso non è poi così difficile immaginarselo.

Una tartaruga gigante, a poche decine di metri dalla riva, sul lato occidentale dell’isola (Valerio Valentini/Il Post)
Non, ad esempio, se si prende uno di queste decine – decine? forse centinaia – di mozzi che portano mandrie di supposti appassionati di snorkeling al largo, per godere della biodiversità del triangolo corallino, quella biodiversità su cui però è un andirivieni di flottiglie di barche sulla cui motorizzazione non so dire, ma che a giudicare dalla puzza di kerosene e dalla nuvola nerissima che si crea a ogni sgasata non deve fare bene; quella biodiversità su cui nessuno si premura di raccomandarci di non camminare allegramente con le pinne – e anzi, il sedicente istruttore che c’accompagna non fa altro che distribuire maschera e boccaglio, chiedere conferma, ma senza davvero attendere la risposta, che tutti siamo esperti nuotatori, per poi tuffarsi dalla barca gridando «Enjoyyy», tipo «Banzai».
Per non dire di come, sulla sunset beach, sull’immenso relitto di quella che fu, ci spiegano, una barriera corallina, e che in Italia sarebbe subito elevata a patrimonio naturale dell’orbe terracqueo, sia tutto uno scorrazzare di ragazzini a cavallo che irretiscono i turisti appollaiati sui pouf a bere Caipirinha e a fotografare il tramonto per una galoppata indimenticabile. Del resto, si capisce: qui l’unica cosa monetizzabile è una bellezza così apparentemente fragile che ai locali deve sembrare più saggio sfruttarla finché si può, anziché metterla sotto tutela. Scellerato, certo. Ma forse lo zelo ecologista è un po’ volgare pensare di spiegarlo a chi fino a qualche anno fa faceva la fame.
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C’è voluto un po’, infatti, prima che la cuccagna di Bali facesse cadere anche sulle Gili qualche briciola, rimbalzando pure qui un po’ degli assalitori occidentali, ma era già l’inizio degli anni Novanta. Non che fosse scontato, perché arrivarci era problematico assai, e la malaria era un rischio serio. A parte la marina giapponese durante la Seconda guerra mondiale, e i pescatori più intrepidi del Borneo e di Sulawesi, ad accorgersi davvero dell’esistenza di questi scogli e a chiedersi cosa farne fu il governatorato di Lombok, che negli anni Settanta decise di mettere su a Trawangan una piantagione di palme da cocco: e siccome anche a Lombok, dove pure non se la passavano da dio, non è che ci fosse la fila per andare a colonizzare quest’isola misconosciuta, pensarono bene di liberare qualche centinaio di galeotti – questo narra il mito fondativo locale – a patto che accettassero di farsi pionieri e coltivatori. E forse era normale che quegli onestuomini appena usciti da galere sovraffollate non puntassero solo sul know how della frutticoltura: di qui, dunque, la progressiva affermazione di un fiorente commercio di droghe e sostanze allucinogene varie, da cui dipese, pare, la prima vera fortuna turistica dell’isola.
Eredità che dura tuttora, in effetti. E dunque al sub livornese toccherebbe dire che, rispetto a Ibiza, qui non c’è solo la faccenda del mare cristallino e i coralli e le tartarughe giganti: qui, soprattutto, ci sono i funghetti. Vi si allude non a caso nelle decine di enigmatiche insegne appese a degli scalcagnati baldacchini sul lungomare. Rivelatori per chi sa, ovvio; invece i più ingenui ci mettono un po’ a capire che quelle scritte del tipo «To the moon and back», oppure «Ticket to Paradise» si riferiscono proprio a quello.
In ogni caso non dura troppo, il dubbio: perché camminando sulla spiaggia presto o tardi ci si imbatte in questi ambulanti che anziché vendere occhiali da sole e parei agitano bustine di plastica ben assortite, e lo fanno parlando a voce alta, senza discrezione. D’altronde, se non legale del tutto, è senz’altro del tutto sdoganato, a Trawangan, il consumo, e forse qui sta l’attrattiva: non tanto nella natura dello sballo in sé, ma nella facilità di procurarselo (con l’equivalente di 4 o 5 euro si svolta la serata) e nella tranquillità che fa da contorno al tutto. Pure sulle lavagnette dei bar, qua e là, oltre ai cocktail d’ordinanza, si propongono per l’happy hour dei frullati un po’ particolari, Magic Level Shakes, con diversi gradi di intensità – si va da Low fino a Fucking Bloody Super Strong.
È marketing anche questo, no? Più o meno ovunque, in giro per il mondo, gli isolotti remoti vengono investiti da una prosopopea che è più o meno sempre la stessa: rilassatezza, sbraco, natura incontaminata e, spesso, sballo a buon mercato. Perfino Alicudi, nelle Eolie, con la storia della segale cornuta ci campa ancora, attirando pure la curiosità dei documentaristi della BBC. E più o meno ovunque, sballo a parte, questi anfratti di mondo diventano la massima aspirazione di chi vuole rompere con le abitudini logoranti della vita media occidentale, di chi cerca l’alternativa possibile a quel che pare inevitabile.
«Da quando sto qui, ho almeno sette o otto pulsazioni in meno al minuto»: Giovanni qui ci sta da quattro anni. Aveva mollato la scuola a sedici, per iniziare a girovagare per le cucine di mezza Europa. «Londra, Barcellona: il mio sogno era diventare chef. Ma a quei ritmi, non reggi a lungo, esci di testa. Oppure inizi a pippare. Allora mi sono detto: meglio i funghetti, se proprio». Nel ristorante dove lo incontriamo – fascino fatale della lingua: a sentire voci fraterne, ci si è riconosciuti e s’è deciso di unire i tavoli – saluta tutti i camerieri per nome, li ammonisce a grigliarci l’aragosta migliore («Tanto non costa niente comunque») e a trattarci non da turisti («Questi sono amici miei»).
A fine 2019, a trent’anni, Giovanni ha salutato definitivamente la famiglia di Ascoli Piceno ed è venuto a Gili Trawangan. «L’Indonesia è uno dei posti migliori dove avere base per fare cripto», dice. Perché i soldi per trasferirsi, più che le ore sudate tra i fornelli, glieli hanno garantiti, pare, gli investimenti in Bitcoin (business al quale lui vorrebbe iniziarci, a giudicare dall’insistenza con cui torna sull’argomento con lo slancio evangelizzatore di un missionario, mentre ci accaniamo inutilmente su questa aragosta alquanto insipida). Dunque base a Bali, inizialmente. «Ma lì ormai sta diventando invivibile, e dopo il casino in Ucraina ancora di più, ché i russi hanno scelto quella come nuova frontiera, e ci stanno investendo l’ira di dio». Poi le Gili. «Ci ho fatto il Capodanno. Due mesi dopo, in Italia stavate in lockdown. Io la pandemia me la sono passata qua, sull’isola». Intanto s’è sposato con una ragazza indonesiana. «Rito locale. Mia madre quando gliel’ho detto voleva disconoscermi, ma ora sto insistendo per fare venire anche lei qui, col suo nuovo compagno, e forse la sto convincendo: con le loro pensioni se la scialerebbero proprio». Qui a Trawangan? «No, a Lombok. Che sta crescendo tantissimo, ma ancora senza esplodere. Mataram tra dieci anni sarà come Kuta, a Bali. Io faccio avanti e indietro, ci sto aprendo una Game House, gli indonesiani ci vanno in fissa e poi ci arriveranno pure i turisti. Così investo quello che mi sono guadagnato coi Bitcoin e ho un’entrata fissa. A proposito, ma sicuri che non ci volete fare un pensierino, al cripto?».
È una coazione a ripetere? Questo perverso meccanismo per cui, messi in fuga dalle dissennatezze dell’Occidente, si va in cerca di rifugi dove coltivare le stesse ambizioni, assecondare le stesse paranoie, non denota un’incapacità a concepirsi come altro dall’homo postmodernus che siamo? Il Manuel Fantoni francese che ha aperto qui il suo bar e ora qui tiranneggia i suoi camerieri autoctoni, il sub livornese che cercava il suo altrove paradisiaco e adesso contribuisce al traffico infernale di barche e barchine in coda per l’immersione («Mattina lezione in piscina pomeriggio in mare, mattina in piscina pomeriggio in mare, piscina mare, mattina pomeriggio, ogni giorno ogni giorno ogni giorno: ogni tanto per staccare e capire in che mese dell’anno siamo vado a Giacarta»), e pure Giovanni, con la sua Game House su tre piani e con cinque dipendenti a Mataram, hanno davvero più le sembianze degli esuli che non dei colonizzatori? Non sono, a loro modo, i migliori profeti in partibus infidelium del credo capitalistico?
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A metà degli anni Cinquanta dell’Ottocento il naturalista inglese Alfred Russel Wallace, il principale concorrente di Darwin sulla strada della teorizzazione della selezione naturale, notò che tra Bali e Lombok esisteva una differenza di fauna e flora troppo clamorosa per potere essere giustificata dai miseri 35 chilometri di mare che le separano. Alfred Wegener, che avrebbe formulato la teoria della deriva dei continenti, doveva ancora nascere, per cui Wallace non poteva ipotizzare che Lombok e Bali appartenevano a due placche in passato assai lontane. E così s’arrangiò come poté e provò a convincere i suoi contemporanei che a impedire a tigri ed elefanti di superare la frontiera orientale, anche nelle ere in cui i livelli degli oceani erano più bassi, così come ai draghi di Komodo e ai marsupiali vari di puntare verso l’Asia, fossero state delle correnti marine. E lo stesso le piante. E lo stesso gli uccelli. Sta di fatto che a modo suo colse nel segno: e nel 1859, tracciando quella che sarà chiamata la “linea di Wallace” proprio lungo lo stretto di Lombok, segnò di fatto la nascita della biogeografia.

Un bambino segue suo padre al lavoro nelle risaie di Jatiluwih, a Bali (Valerio Valentini/Il Post)
E quella linea di faglia, per quanto immaginaria, è più reale che mai, perfino agli occhi ignari di chi arriva qui per la prima volta. Il verde di Bali è sempre vivido, saturo dei colori e dell’umidità di una giungla che s’espande ovunque. Lombok è invece brulla, quasi arida: domina il marrone, un giallo che sa di secchezza inospitale. E sarà la suggestione, ma pare evidente che questo confine segna una distanza anche sull’umanità che ne è virtualmente separata: non solo nella lingua o nei tratti somatici, ma soprattutto nell’attitudine allo stare al mondo, nel relazionarsi allo straniero che arriva, e insomma nell’arrendersi o nel resistere al presente.
Nel loro perenne, gratuito stato di giovialità, a Ubud, cioè a Bali, sembrano riuscire quasi sempre ad attutire anche l’impatto di un assedio ormai asfissiante. Assorbiti come sono nel culto totalizzante di una religione così invasiva e però giocosa, così paciosamente dispotica, è come se riuscissero a ricomprendere in quella, nelle sue leggi clementi e imperiture, pure ciò che sembrerebbe destinato a entrarvi in conflitto, a sovvertire l’ordine del mondo che quella fede ha disposto. O forse ci sta, più banalmente, che hanno imparato a monetizzare la loro tradizione, e mettono sul mercato anche la loro religiosità, come noi facciamo con la pizza e il cappuccino e tutto il resto. Questo ha significato rinnegare sé stessi quel tanto che abbisognava per arrivare con meno tribolazioni a fine mese? Può darsi. Sta di fatto che, se pure questa abiura c’è stata, se davvero dalla tentazione placida del benessere – di quel poco, pochissimo di benessere che iniziano a intravedere – si sono lasciati vincere, tutto deve essere avvenuto senza grossi traumi.
E invece di qua dalla linea, alle Gili, il conflitto sembra in atto, l’astio dei pochi autoctoni è scolpito nei loro sguardi biliosi, sempre sospettosi. Sia sul lungomare, dove le donne velate vedono i turisti quasi tutti ritrarsi davanti ai loro padelloni di intrugli fumanti e preferire gli hamburger o il sushi express; sia, e con una rabbia malcelata che è incapacità di mostrarsi anche solo vagamente concilianti, ed è straziante, tra i capanni e le baracche dell’interno, dove i ragazzi seduti a bordo strada, o sulle impalcature malferme dei cantieri dei nuovi resort in costruzione, fissano i viandanti con disprezzo e subito parlottano e commentano tra di loro. E non che l’esito dello scontro sia incerto: vincerà la cagnara, vinceranno le agenzie di viaggio, trionferà il Grande Leviatano del turismo internazionale. L’assedio fiaccherà anche le resistenze più impenitenti. E non solo per una questione numerica, che pure conta: ogni giorno al molo di Trawangan sbarcano tra le 1.500 e le 2.000 persone, quattro o cinque volte il numero di chi qui c’è cresciuto: e semmai questa sproporzione contribuisce a spiegare l’insofferenza dei nativi. C’è che in fondo, a ben vedere, qual è l’alternativa?

La calca davanti al molo d’attracco dei battelli che arrivano da Bali o Lombok (Valerio Valentini/Il Post)
I due anni di Covid, cioè di sostanziale assenza di stranieri, qui sono stati un lungo strazio: la natura s’è ripresa i suoi spazi – e qui davvero, fagocitando per intero hotel e bar e ristoranti – e la quiete è finalmente tornata a sedare il delirio. Ma per tutti, autoctoni delle Gili o espatriati stabili di Lombok, quella pace ritrovata è equivalsa alla necessità di contingentare i pochi soldi e il poco cibo: nessuna pesca libera in acque finalmente disinfestate dalla torma degli snorkler ha potuto sopperire alla mancanza degli affari, per quanto grami, messi in piedi negli anni della festa generale. Del resto tutto ciò che si discopre alla vista, negli anfratti più inaccessibili dell’isola, è un tormento fatto di stentata sussistenza, e pure quella – i capanni e le baracche che vendono bibite, i bambini che gironzolano su bici arrugginite sperando di incontrare bagnanti disorientati in cerca di indicazioni per la spiaggia, e poi chiedono la mancia – in qualche modo garantita solo dai turisti.
La religione, certo, forse anche quella conta. Bali, di là dal confine, è l’eccezione induista nell’Indonesia a stragrande maggioranza islamica, ed è, il loro, un induismo anomalo, sereno e accomodante verso ciò che è altro. Qui evidentemente è diverso. Qui il Corano impone diffidenza verso lo straniero, è un metadone che rende più sano, più integro, il proprio male, e dunque sopportabile, e più facilmente istiga a repellere le tentazioni del benessere degli occidentali. Ma davvero può l’Islam, da solo, indurre questa gente a resistere? Se è vero che la cultura dello sbraco è l’unico vero pensiero forte che l’Occidente ha saputo elaborare negli ultimi trent’anni, la sola realmente attraente alternativa al rigore moralistico della Sharia o dei regimi autoritari, pensare che proprio qui si possa resistere alla colonizzazione, qui dove l’uomo euroatlantico altro non è che la sua bella faccia da vacanza e i suoi soldi dispensati con mani generose, è forse una pretesa assurda.
E perché dunque meravigliarsi che anche a Gili Trawangan continuino ad arrendersi? Questa folla di uomini che raggiunge in bicicletta la moschea al momento del richiamo, e che con uguale fretta s’affanna a tornare a presidiare i baldacchini dove si vendono gelati o gite in barca, a ossequiare i turisti, potrà al massimo solo coltivare un inutile senso di colpa nell’accettare l’inevitabile. La persistenza della nenia del muezzin, la sera, mentre infuria l’estasi dell’happy hour, pare solamente imporre un aggravio della pena.
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