Un baretto tutto per sé
«È un rito che ripeto ogni anno in vacanza: scegliermi un posto semplice e riempirlo giorno dopo giorno con poco o niente, oltre ad aiutarmi a sbrigare qui e là qualche faccenda pratica, mi regala la sciocca ma anche impagabile illusione di sentirmi una del posto: una turista, certo, ma almeno una turista habituée»

In Cantabria non ero mai stata. È una specie di Bretagna spagnola: tanta pioggia e tanta natura, oceano e falesie affacciate sul mare, boschi fitti che arrivano fin quasi alla spiaggia, e nella stessa giornata possono avvicendarsi due o tre stagioni, anche se la temperatura rimane sempre uguale (tra i 19 e i 22 gradi). In Cantabria è pieno di ortensie, di muretti a secco e di mucche libere nei campi. Ci sono invece, tutto sommato, meno acciughe di quante pensassi. Le spiagge pullulano di bagnini solerti, surfisti più o meno esperti, famiglie con parecchi figli che indossano costumi tutti uguali. Quest’ultime, in realtà, mi è stato detto dagli amici madrileni che ci ospitano, più che della regione in sé sono una particolarità di Comillas, che è la cittadina più vicina alla casa in cui siamo stati. Ma comunque.
In Cantabria quest’anno ci ho passato due settimane e, come in ogni posto in cui vado d’estate, al mio arrivo mi sono messa alla ricerca del baretto. Per qualunque soggiorno lontano da casa più lungo di un un paio di giorni, è diventata negli anni un’attività di prima necessità, come il sondaggio sul miglior alimentari, l’individuazione della farmacia o l’elezione dello scoglio preferito da cui tuffarsi.
La “ricerca del baretto” potrebbe sembrare un’attività estemporanea ed edonista, finalizzata all’incontro sociale e al consumo di bevande alcoliche. Si tratta del perfetto contrario: nasce dalla volontà di passare ogni giorno dei brevi momenti in solitudine, di ritagliarsi uno spazio isolato nel corso della vacanza.
La ricerca del baretto è difatti indipendente dalla grandezza della casa in cui si soggiorna, dal numero di persone con le quali si è in vacanza e dalla gradevolezza della compagnia. Non è il mio caso, quest’anno e nella vita, ma cercherei baretti anche se mi trovassi a trascorrere le vacanze in una mansion con venticinque stanze. Questo perché il baretto è un posto “altro”, non solo fisico ma anche mentale, e in quanto tale deve essere obbligatoriamente distaccato dal luogo in cui si trascorre la notte.
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La scelta del posto è importante. I criteri in genere sono: assenza di pretese ma piacevolezza dell’ambiente, scarso affollamento, musica a volume contenuto, clientela il più possibile “locale”. Un fruttivendolo con piatti pronti nella campagna aretina, un’erboristeria nel centro di Astypalea, la sala colazioni di un alberghetto sul porto di Marsiglia, un bar tabacchi in provincia di Messina, la buvette di una spiaggia infestata di meduse in Corsica sono solo gli ultimi in ordine di tempo.
La ricerca ha tradizionalmente luogo a metà mattina, momento in cui ci si stacca dal gruppo più o meno nutrito di villeggianti di cui si è parte, e ci si avventura nei dintorni alla caccia del luogo adatto. Una volta identificato, ci si torna ogni giorno preferibilmente alla stessa ora, fino alla fine del soggiorno, per un ammontare di tempo stabilito ove possibile in armonia e pieno accordo con il resto del nucleo familiare. A far che? Difficile dirlo.
La ricerca del baretto diventa indispensabile se come, nel mio caso, si è in viaggio con una bambina di due anni e mezzo e per lavoro si scrive, ma non è per forza una roba da scrittori. Cerco baretti da sempre, credo di aver cominciato a vent’anni, quando preparavo esami da dare a settembre, scarabocchiavo pensieri e disegni maldestri su album in carta Fedrigoni. E ho continuato ogni anno da allora, a prescindere dal mio stato sentimentale, dalle urgenze lavorative, dalle configurazioni vacanziere o dai progetti in corso.
Negli ultimi anni ho passato seduta ai tavolini sopracitati pochissimo tempo a scrivere, tantissimo invece a parlare su Google Meet con medici specialisti per mio papà, a pagare arretrati condominiali o F24 dall’app della banca, a sfogliare giornali locali o a risolvere “senza schema” della Settimana Enigmistica, a perdere tempo sui social o a sbadigliare mentre, in attesa di una mail, di una telefonata o di una chiamata su Zoom, disiscrivevo il mio indirizzo mail da una dozzina di newsletter. Niente di che, insomma, eppure senza quelle tarde mattinate seduta al tavolino le vacanze degli ultimi vent’anni sarebbero state senza dubbio peggiori.

(foto Eleonora Marangoni)
Potrebbe sembrare asociale, questa storia del baretto, a chi non la pratica, ma dipende da che lato la si guarda: ritagliarsi momenti in solitaria quando ci si trova in un posto in cui si è andati apposta per trascorrere molto tempo insieme ad altri può rivelarsi anche un segreto del vivere armonioso. Dopo un paio d’ore al baretto, per quanto mi riguarda, mi dedico con più energia ai giochi con mia figlia, alla vita di coppia, alle spese comunitarie e a qualunque soi disant attività, chiacchiera, esplorazione di gruppo. Credo, in questo senso, di frequentare baretti come altri fanno ginnastica, vanno a messa, praticano la meditazione o sport più o meno estremi, si iscrivono a visite guidate, a corsi di cucina o artigianato locale.
Da diversi anni ormai (di sicuro dalla fine del Covid, ma anche prima) quelli che possono permetterselo hanno imparato a lavorare un po’ ovunque sempre, in qualunque stagione, in qualunque posto. Bastano un portatile o un tablet (li abbiamo in tanti, ormai, casomai quello che non abbiamo più è il computer fisso) ed eccoci pronti a scrivere, leggere, comprare e vendere, chiedere e rispondere, col cappotto o con il costume da bagno, abbarbicati su uno scoglio o in cima a un monte. Se a lavorare dappertutto siamo sempre più bravi, è a staccare da tutto che siamo sempre meno capaci. Il baretto, paradossalmente, serve proprio a questo: a ritagliarsi uno spazio di niente nel quale inventarsi una vita altra, a costruirsi, grazie a un esercizio provvisorio ma quotidiano di fedeltà, una sorta di esistenza parallela.
Non è quindi la retorica del “work remotely” il lato irresistibile del baretto, anzi forse è proprio l’esatto contrario, una specie di “live locally” di poche pretese e sicuro effetto.
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È un rito che ripeto come già detto ormai da anni, ma solo adesso che mi fermo a pensarci mi rendo conto che questo fatto di scegliermi ogni volta un posto semplice in cui tornare e riempirlo giorno dopo giorno con poco o niente, oltre ad aiutarmi a sbrigare qui e là qualche faccenda pratica, mi regala la sciocca ma anche impagabile illusione di sentirmi una del posto: una turista, certo, ma almeno una turista habituée, col suo tavolino e la sua ordinazione possibilmente sempre uguale. Al baretto, credo, mi sento una turista meno frettolosa, meno invasiva, meno superficiale. Merito anche della frugalità del luogo e del contesto: al baretto si chiede poco e lui chiede poco a te: sei a metà mattina, non si beve e non si mangia davvero, un caffè tutt’al più, e un po’ di tempo per guardarsi dentro e guardare il mondo che ci sta intorno.
Tutto qui. I patti sono chiari dall’inizio: tu non ti aspetti molto da lui, e lui non se lo aspetta da te. Capita sempre meno, nella vita di ogni giorno, a pensarci bene, sia con le persone che con i posti, i ristoranti, i brand, i libri, perfino. Grandi recensioni, grandi aspettative, tanti cuoricini, ma poi molto spesso si stringono le mani e poco resta. Il baretto, lui non mi deluderà, perché niente mi ha promesso.
Poi, naturalmente, c’è il tragitto da e verso il baretto. Sempre lo stesso, due volte al giorno, sempre uguale, sempre da soli. In Cantabria, quest’anno, per spostarsi si doveva per forza prendere la macchina. Nella vita di tutti i giorni tendo a far coincidere la vita amena e spirituale con l’assenza di automobile, quando c’è di mezzo il baretto ecco che arriva l’eccezione, si produce una specie di incantesimo: mentre guidavo mettevo su Spotify e mi ritrovavo a cantare a squarciagola canzoni che non ascoltavo da un po’ ma che conoscevo con tutta me stessa, e a un tratto sentivo la mancanza di tutti o volevo bene a chiunque o comunque perdonavo con più facilità, pensavo cose che normalmente non mi sarebbe venuto spontaneo pensare e mi decidevo finalmente a chiamare persone che da mesi non trovavo mai il tempo, il momento, la voglia di chiamare.

(foto Eleonora Marangoni)
Va sempre così, poco importa che uno sia a piedi, in macchina o in bicicletta: andando e venendo dal baretto, in questi anni, ho trovato titoli di libri, idee, ma anche capito di essere innamorata o di non esserlo più, ho riscoperto album che avevo dimenticato, capito di amare Bob Dylan più di quanto pensassi (Blood on the Tracks era l’unico cd disponibile in Sicilia, un paio di anni fa, il cavo per il telefono non andava e come ha scritto Flaubert «affinché una cosa sia interessante, basta guardarla a lungo»), ho deciso di cambiare città o mestiere, capito di aver sottovalutato questioni che invece erano importanti, immaginato possibili modi per risolvere o provare a risolvere questioni che prima delle vacanze mi erano sembrate semplicemente irrisolvibili.
Tutte cose, mi viene da dire, che difficilmente avrei pensato, capito, realizzato se non mi fossi staccata dagli altri e fossi rimasta dov’ero, in vacanza insieme agli altri, dentro il flusso collettivo delle cose.
Virginia Woolf voleva la sua stanza tutta per sé in cui scrivere e pensare tutto l’anno, io, sospetto, d’estate ho bisogno di andare e venire dal baretto per restare una persona con un baricentro, con una vita interiore degna di questo nome.
Qualche giorno fa, sempre in Cantabria, al primo giorno di ricerca del baretto, sono finita in un ristobar fronte strada in un posto chiamato Treceño: una via di mezzo tra una baita e un autogrill: non granché, come baretto, ma quel giorno avevo un lavoro da consegnare e il tempo stringeva. Mi sono seduta a uno dei tanti tavoli vuoti, ho chiesto un caffè un po’ lungo e un’acqua frizzante e ho aperto il computer.
Tempo dieci minuti, è arrivata una francese con una jeep, borsa di tela con dentro il computer. L’ho capito dalla targa che era francese, e da come si guardava intorno che era alla ricerca di un baretto anche lei. Mi è passata di fronte guardando il telefono, poi è tornata verso il patio e si è seduta qualche tavolo più in là dal mio, ha tirato fuori il suo Macbook Air e si è accesa una sigaretta: aveva trovato il suo baretto anche lei.
Chissà cosa ci faceva lei al ristobar di Treceño. Da dove veniva, con che tipo di persone era in vacanza, per quanto tempo, con quali premesse, pensieri, aspettative.
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«Che bello, le città sconosciute!», fa dire Céline a Bardamu in Viaggio al termine della notte quando, dopo tanto peregrinare, sbarca a Tolosa. «È il momento e il posto in cui puoi supporre che le persone che incontri sono tutte gentili. È il momento del sogno. Se ne può approfittare per andare a perder tempo ai giardini pubblici».
Tempo cinque minuti, e la francese ha cominciato una riunione su Zoom senza cuffie. Io, che di certo in un baretto di città l’avrei detestata, seduta lì al tavolino di Treceño invece le ho voluto bene, e fedele allo spirito di Bardamu ho immaginato di lei solo le migliori cose possibili.
I compagni di baretto sono come i compagni di viaggio: sul momento ci distraggono, ci disturbano perfino, ma poi finisce che ti affezioni a tutti. Il ristobar non era il massimo, ma il soggiorno in Cantabria era appena all’inizio, avevo tutto il tempo per cercarmi il posto adatto in cui tornare l’indomani e l’indomani l’altro, sempre con la stessa macchina e sempre con la stessa borsa, cantando a squarciagola per l’ennesima volta Ça plane pour moi di Plastic Bertrand o The Book of Love dei Magnetic Fields, salutando ogni mucca, ogni ortensia, ogni muretto a secco, affezionandomi a ognuno e a ognuno confessando qualcosa, perché anche a questo servono le vacanze, oltre che a riposarsi, a sparpagliare in giro pezzi di sé, e a capire dove si è finiti da un anno all’altro. Poi anche stavolta le mattinate a disposizione sarebbero finite, avrei pagato un’ultima volta i miei caffè un po’ lunghi e la mia acqua col limone, salutato il cameriere con un hasta lluego come un altro e ringraziato un’ultima volta il tavolino prescelto, sarei tornata dai miei compagni di vacanza, alle valigie e alla vita di città, un po’ diversa come ogni anno ci illudiamo che sarà la vita dopo l’estate, anche grazie a quell’andare e tornare da quel baretto lì.
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