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  • Venerdì 29 agosto 2025

Capire l’afantasia

Ovvero la condizione per cui non ci si "raffigurano" mentalmente pensieri e ricordi

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Il libro di Sadie Dingfelder Ci siamo già visti? inizia come uno studio dell’autrice sulla propria difficoltà nel ricordare e riconoscere le facce, ma diventa nel corso della sua ricerca una scoperta di una serie di “neurodivergenze” che riguardano lei o altri. Una di queste si chiama “afantasia”, ovvero la condizione per cui alcune persone non visualizzano le cose e i ricordi nei loro pensieri, non se li “raffigurano” (il suo opposto che tende invece a trasformare tutto in immagini mentali si chiama “iperfantasia”). Come altre condizioni di cui parla il libro, lo studio dell’afantasia è stato sempre complicato dalla difficoltà dei suoi protagonisti di concepire la differenza della loro condizione.

Dingfelder è una giornalista scientifica americana che in Ci siamo già visti? associa un racconto autobiografico di grande candore e condivisione a una indagine giornalistica e scientifica accurata, portando chi legge a riflessioni generali sulle differenze di percezione e di reazione alla realtà tra le diverse persone. Ci siamo già visti? è pubblicato da Altrecose, il progetto di divulgazione giornalistica attraverso i libri creato dal Post assieme all’editore Iperborea. Questa è una parte del dodicesimo capitolo.

Puoi acquistare “Ci siamo già visti?” in libreria o sul sito del Post, con spedizione gratuita.

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La mia cara amica Miriam è una delle prime a venirmi a trovare nel West Virginia. Minuta ed energica, fa la ballerina di burlesque part time e di solito è un vero e proprio raggio di sole. Oggi però è una nuvola grigia e minacciosa, carica di pioggia.
«Cosa c’è?» le chiedo.
«Penso ancora a Thad», risponde.
La stringo in un abbraccio, nascondendo il mio disappunto. Perché è ancora ossessionata da quel tipo? Innanzitutto non era niente di speciale, e poi si sono lasciati più di un anno fa.
Le ho già dato il mio consiglio brevettato in tre passaggi: 1) nascondi le foto del tuo ex; 2) bloccalo sui social; 3) stagli alla larga nella vita reale. Miriam giura che sta seguendo i miei suggerimenti alla lettera, ma non funzionano.
Sono confusa: il mio metodo del taglio netto è sempre stato infallibile. Non è solo efficace, ma anche rapido. Una volta, appena un mese dopo una rottura abbastanza drammatica, ho incrociato il mio ex convivente per strada e non ho provato niente. Mi sono fermata a fare due chiacchiere e sono rimasta imperturbabile, mentre lui aveva un palese attacco di panico. Non sarebbe potuta andare meglio di così.

Ho imparato a mie spese che le persone non vogliono consigli; vogliono essere ascoltate e commiserate. Perciò mi adeguo. Mentre ascolto, mi accorgo che Miriam descrive i suoi pensieri ossessivi in termini decisamente cinematografici.
«Ma quando pensi che potresti incontrare Thad, lo visualizzi?» le chiedo.
«Sì, è tutto molto visivo. Anzi, di più: è immersivo, come la realtà virtuale», mi spiega.
Le chiedo più dettagli, e Miriam mi presenta la scena come una regista.
«Ci incontriamo in un bar ben preciso, quello sotto il ristorante afghano nel quartiere di Adams Morgan. Nella realtà non ha i séparé, ma io ce li metto, e noi siamo seduti lì. L’ingresso a vetri del piano di sopra fa entrare la luce del pomeriggio, così il bar nel seminterrato è avvolto da un bagliore caldo. Vedo Thad dietro una fila di abat-jour, di quelle che si usavano una volta. Indossa una maglietta a maniche corte che gli mette in risalto le braccia e profuma di terra e foglie secche…» La specificità, i dettagli sensoriali: se avessi un’immaginazione di quel tipo, non uscirei mai di casa! Be’, non c’è da stupirsi se Miriam fa fatica a superare le rotture. È impossibile evitare di vedere qualcuno, se hai in testa il suo modello 3D a grandezza naturale.
«Mi sa che hai l’iperfantasia», dico. «Io penso di avere la cosa opposta, l’afantasia. Non riesco a visualizzare un bel niente».

Ho sentito parlare per la prima volta dell’afantasia quando mio fratello Saul mi ha girato il link di un articolo del New York Times del 2015 che descriveva un caso curioso risalente a dieci anni prima. Un sessantacinquenne, chiamato MX, si era fatto visitare dal neurologo Adam Zeman dopo aver accusato un problema che il suo medico non aveva mai incontrato prima (in verità nemmeno il neurologo). In un video online, MX – un uomo rubicondo con un lieve accento scozzese – ricostruiva la prima conversazione con Zeman: «Poche settimane dopo essermi sottoposto a un’angioplastica… la sera, a letto, mi sono accorto che non riuscivo a fare quello che facevo di solito prima di addormentarmi, e cioè pensare alla mia famiglia, ai miei figli e ai miei nipoti, immaginandoli. Non mi venivano proprio in mente».
E non funzionava nemmeno la sua tecnica di riserva per addormentarsi: contare alla rovescia a partire da 99 figurandosi ogni numero. Insomma, qualunque cosa cercasse di visualizzare, non ci riusciva più.
Oltre alla memoria visiva, MX aveva perso l’immaginazione visiva. Prima, quando leggeva un libro, vedeva tutti i personaggi e le ambientazioni con l’occhio della mente.
Dopo l’operazione, i libri erano solo pagine piene di parole.
Era successo qualcosa durante l’angioplastica?, voleva sapere Zeman.
Sì, rispose MX. Lì per lì non si era preoccupato, ma aveva sentito un «riverbero» in testa e poi un formicolio al braccio sinistro.
A Zeman sembrava proprio la descrizione di un piccolo ictus, ma a quanto pareva MX non ne aveva risentito.
Superò brillantemente tutti i classici test neurologici e – a parte la perdita dell’immaginazione visiva – sembrava stare benissimo.
«Non c’è stata nessuna conseguenza. La mia memoria è buona come prima», diceva MX. Non riusciva più a immaginarsi mentre andava nei suoi posti preferiti, ma era in grado di rievocare dettagli specifici di scene e edifici. «Li ricordavo, ma non riuscivo a visualizzarli».
Anche se non ci si poteva fare niente, Zeman voleva continuare a indagare su quello strano disturbo per il bene della scienza, e il paziente lo aiutò volentieri.
Zeman e colleghi sottoposero MX ad altri test, facendogli una serie di domande la cui risposta avrebbe richiesto l’uso dell’immaginazione visiva. Quali lettere dell’alfabeto scendono sotto la riga? Cosa è più verde, un avocado o l’erba? Il paziente rispose senza esitazione.
MX superò anche un test di rotazione mentale, ma con un andamento insolito del punteggio.
Provate anche voi: rispondendo il più in fretta possibile, dite se la persona nella figura tiene la bandiera nella mano sinistra o destra. Fatevi cronometrare da un amico.

Di solito ci si mette di più a rispondere quando l’immagine è ruotata rispetto alla normale posizione verticale di una persona. Perciò dovreste aver impiegato meno tempo per la persona A, che ha un orientamento prevedibile; un po’ di più per la persona B, ruotata di 99 gradi a sinistra; e ancora di più per la persona C, ruotata di 140 gradi.
Il fatto che la maggioranza delle persone impieghi più tempo per le rotazioni più ampie suggerisce che di fatto l’immagine viene girata nella mente come le lancette di un orologio.

Stranamente, MX impiegava la stessa quantità di tempo a prescindere dalla rotazione, il che implicava una misteriosa tecnica non visiva.
Zeman lo mise anche in un macchinario per la scansione cerebrale, gli mostrò le facce di persone famose e poi gli chiese di visualizzarle. Mentre le guardava, la FFA di MX si attivava come previsto, ma quando cercava di immaginarle, la FFA si rifiutava di attivarsi (a differenza di quello che succedeva con i soggetti di controllo). Inoltre, la corteccia prefrontale di MX era più attiva del normale, forse perché la sua mente cosciente lavorava a pieno ritmo per cercare di spingere le aree visive a produrre un’immagine.
Nel 2010 Zeman pubblicò un articolo sull’afantasia. Da allora cominciarono a contattarlo persone che sostenevano di avere lo stesso problema di MX ma che, diversamente da lui, non avevano mai avuto la capacità di visualizzare.
Ecco la trascrizione integrale della mia reazione la prima volta che ho letto quell’articolo: «Okay».

In circostanze normali sarei stata più curiosa, ma ero nel bel mezzo del mio progetto che prevedeva di imparare sia a guidare sia a vedere in 3D, per non parlare degli scatoloni del trasloco ancora da aprire. Ma non c’era solo la mia lunga lista di cose da fare. Faticavo ad accettare l’idea che il mio mondo fosse drasticamente appiattito rispetto a quello della maggioranza delle persone. La possibilità che anche la mia immaginazione fosse gravemente impoverita era troppo.
Adesso invece sembra che io sia pronta ad affrontare il problema, e la situazione sentimentale di Miriam accende la mia curiosità. Rileggo l’articolo, che mi pone di nuovo davanti al fatto che quasi tutti a parte me sono in grado di evocare immagini di ogni tipo con l’occhio della mente.
Cose che consideravo semplici modi di dire – sognare a occhi aperti, avere un amico immaginario, spogliare qualcuno con gli occhi, contare le pecore – sono molto più reali di quel che credevo.
Perché nessuno me l’ha detto?
Ora che ci penso, di indizi ne ho avuti. Per esempio, mi hanno suggerito di gestire la paura del palcoscenico immaginando il pubblico nudo. Ero convinta che andasse bene pensare che il pubblico avrebbe potuto essere nudo. Nel frattempo, gli altri musicisti vedevano file e file di persone a torso nudo, e chissà cos’altro (gente che ballava, parti del corpo ballonzolanti… comincia a sembrarmi un pessimo consiglio).

Alzo lo sguardo e vedo Steve seduto sul divano, ad analizzare i dati delle sonde di temperatura inserite nella punta di petto che sta cucinando. Se c’è uno che vive in un mondo di pura astrazione, quello è lui.
«Ma tu riesci a farti dei film mentali?» gli chiedo.
«Sì, ma non sono vividi come quelli di Miriam», risponde.
È assurdo. Dei due, sono io quella creativa, quella che si veste con colori vivaci e intrattiene i bambini con le ombre cinesi. Com’è possibile che l’immaginazione di Steve sia migliore della mia?

Per il resto della visita di Miriam la tempesto di domande e, santo cielo, quanta roba succede in quella sua adorabile testolina! Ha sempre un paio di cronache mentali in corso, con cui pianifica quello che dirà e immagina le reazioni degli altri. Di nuovo, non avevo idea che fosse possibile. Però ha senso. Mi dicono spesso di pensare prima di parlare, e ora mi rendo conto che moltissime persone sono davvero in grado di farlo.
Mentre io riesco a pensare solo a una cosa alla volta, Miriam può partecipare al presente e intanto immaginare momenti del passato o visualizzare il futuro. Può fermare il nastro, riavvolgerlo e perfino provare linee d’azione diverse. Ogni tanto, per divertirsi, immagina di cambiare i vestiti a tutti. «È come giocare con le bambole», dice.
«Ma non ti distrai troppo?» le chiedo.
In effetti sì, tant’è che le è stato diagnosticato il disturbo da deficit di attenzione. A volte la sua ricca vita mentale le impedisce di funzionare al meglio. All’improvviso capisco perché è sempre in ritardo e mi sento molto più comprensiva.

Qualche giorno dopo, chiamo mio fratello per parlare dell’articolo sull’afantasia che mi ha mandato tanti anni fa.
Concordiamo subito sul fatto che né io né lui abbiamo la capacità di visualizzare, mentre tutti gli altri sembrano in grado di farlo, ma poi ci troviamo a bisticciare su un piccolo dettaglio.
«Quando mi hai mandato l’articolo…» inizio.
«Non te l’ho mandato, tu l’hai mandato a me».
«Impossibile. Me l’hai mandato tu».
Cerchiamo invano tra le nostre vecchie email. Interviene sua moglie Katharine, che ha la risposta: Saul aveva sentito parlare dell’afantasia in un podcast e me ne aveva accennato, e poi io gli avevo girato l’articolo.

Quello stesso giorno parlo con Zeman al telefono, e quando gli racconto l’episodio lui si mette a ridere. A quanto pare, non ricordare la propria vita e dover consultare il partner al riguardo è una classica mossa da afantasici.
«Tra le persone con afantasia, circa un terzo presenta anche scarsa memoria autobiografica. Ma il rapporto tra memoria e afantasia è complesso: alcuni afantasici ci dicono di essere le persone con più memoria di tutta la loro famiglia».
«L’afantasia tende alla familiarità?» chiedo. Ho cominciato a sondare i miei parenti, ma non ho trovato altri afantasici, a parte me e mio fratello.
«Sì», risponde Zeman, «ma probabilmente i geni coinvolti sono molti, e nessuno è ancora stato scoperto».
Gli elenco tutte le mie altre stranezze neurologiche, e dice che circa un terzo degli afantasici soffre anche di prosopagnosia. Tuttavia il rapporto tra i due disturbi non è chiaro, dato che molti afantasici hanno capacità normali o perfino eccellenti nel riconoscimento dei volti.
«Uno è mio fratello», dico.
«Gli afantasici devono avere delle rappresentazioni visive interiori di qualche tipo, solo che non sembrano in grado di usarle per generare immagini», dice Zeman.
«Forse esistono più tipi di afantasici», ipotizzo. «Forse alcuni di noi non hanno nessuna capacità di visualizzazione, mentre altri visualizzano senza rendersene conto, perché tutto avviene sotto il livello della consapevolezza».
Zeman non sa dirlo con certezza, ma è probabile che esistano dei sottogruppi. In effetti ne sono già emersi alcuni. All’inizio il termine «afantasia», da lui coniato, doveva descrivere le persone prive di immaginazione visiva, ma in seguito è stato applicato anche a quelle prive di immaginazione uditiva. Un individuo che non è in grado di avere esperienze mentali in nessuna modalità sensoriale è un «afantasico assoluto», la categoria a cui appartiene mio fratello. Io invece ho quasi sempre una canzone in testa.
All’improvviso il concetto di immaginario mentale mi sembra molto più sensato. La vista interiore è come l’udito interiore! Le immagini non sono vivide e i suoni non sono forti come quelli veri, ma abbastanza reali da infastidire, distrarre o perfino intrattenere.

Ho mille altre domande per Zeman. Quante sono le persone in grado di immaginare anche gli odori e i sapori?
Visualizzare è più facile con gli occhi aperti o chiusi? Le terapie e i programmi di allenamento basati sulla visualizzazione funzionano per gli afantasici? Quali potrebbero essere le alternative?
Zeman mi interrompe. «Nessuno lo sa. Le ricerche sono appena cominciate. Sono passati secoli dai tempi di Galton, ma da allora non si sono fatti molti progressi».
Perché? Forse è stato John Marshall, l’amico di Galton, a dirlo meglio di tutti: «Non ripongo la benché minima fiducia in ciò che una persona può affermare riguardo alla sua capacità di vedere le cose con l’occhio della mente. Le prove sono contaminate alla fonte».
Studiare la soggettività in modo oggettivo è difficile, dice Zeman, ma non impossibile. Grazie anche alla sua scoperta dell’afantasia e all’ondata di interesse che ha suscitato, gli scienziati stanno elaborando nuovi metodi ingegnosi per confermare i racconti dei pazienti: o osservando direttamente l’attività cerebrale o misurando certe risposte fisiologiche che non possono essere controllate a livello cosciente.
Altro che lo spazio. A quanto pare, l’ultima frontiera è lo spazio interiore.

Sadie Dingfelder, Ci siamo già visti?
Traduzione di Francesca Pe’
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