Ritratto di “Animal Farm” a ottant’anni

«Respingevo l’idea che il Gatto, il senza nome, fosse antipatico. Stalin-Napoleone mi faceva rabbia. Compativo e sostenevo Trockij-Palla di Neve. Esultai quando lo Zar-Jones venne spodestato. Suppongo, ripensandoci, che dentro di me infuriasse una guerra di letture, una guerra di libri contro libri»

(Maeers/Getty Images)
(Maeers/Getty Images)
Gaja Cenciarelli
Gaja Cenciarelli

Vive e lavora a Roma. Sta ritraducendo tutta l'opera di Flannery O'Connor. Tiene corsi di traduzione e insegna lingua e letteratura inglese. Il suo ultimo romanzo è A scuola non si muore (Marsilio).

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Ogni anno a scuola, quando arrivo al periodo storico-letterario in cui il Novecento si scontra con la Seconda guerra mondiale, mi chiedo se far leggere La fattoria degli animali. Ogni anno ripenso a tutte le volte in cui l’ho fatto senza interrogarmi sulle possibili reazioni dei ragazzi. A quando l’avventatezza e l’entusiasmo mi hanno spinta ad assegnare il romanzo anche alle classi inferiori alla quinta liceo – in quel caso la mia delusione è stata più cocente, ma in fondo me l’ero cercata. Perché ogni anno, anche in quinta liceo, la maggior parte dei feedback delle mie studentesse e studenti oscilla tra l’insoddisfazione e la perplessità: si annoiano, il libro è troppo lungo, dal titolo credevano che si trattasse di una favola, perché una fattoria?, obsoleta l’ambientazione, carini gli animali, simpatico il gatto, ma è una lettura tutto sommato lenta e pesante.

Nonostante i necessari chiarimenti introduttivi sul contesto politico e culturale dell’epoca, in genere le studentesse e gli studenti preferiscono 1984. E anche io ammetto, con una certa dose di vergogna, che per molti anni nella mia personale costellazione dei libri di Orwell la stella di La fattoria degli animali ha brillato di una luce più opaca rispetto a quella di 1984, che aveva scavato immediatamente un solco e non aveva avuto bisogno di essere lasciato a sedimentare: in 1984 tutto mi era apparso subito molto chiaro, come se una lampadina rotta, dentro di me, avesse ricominciato a funzionare.

È curioso quanto il momento giusto sia cruciale per il percorso che un libro – e forse vale anche per le persone – farà nella nostra vita.

La fattoria degli animali, al primo tentativo, si era incagliata in un tempo sbagliato, approdando in un luogo in cui le sue parole avevano un suono inautentico.

Il tempo sbagliato erano i miei dodici anni. Alla fine dell’anno scolastico, la professoressa di italiano ci assegnò da leggere tre libri tra cui La fattoria degli animali e io ne fui entusiasta. Immaginai potesse essere un succedaneo letterario di tutti i cani e i gatti con cui mi era proibito condividere la vita e le giornate.

Ho riso molto, leggendolo per la prima volta. La professoressa ci aveva raccomandato di acquistare una versione sintetica, una sorta di Bignami del romanzo, da cui (lo scoprii in seguito) erano stati espunti tutti i nodi più complicati, le questioni politiche. «È solo una favola sugli animali», ci aveva detto.

Solo molti anni dopo venni a sapere che il titolo originale della prima edizione inglese era Animal Farm: A Fairy Story, “una fiaba”, sottotitolo che tuttavia nell’edizione statunitense scomparve, e nelle edizioni successive fu sostituito in alcuni casi da A Satire o da A Contemporary Satire. Quella prima edizione, pubblicata da Secker & Warburg in quattromila copie, aveva una copertina a dir poco spartana: una linea diagonale la tagliava in due triangoli, uno verde e l’altro grigio. Nessuna immagine minacciosa o inquietante, nulla che alludesse al contenuto. Al contrario, il sottotitolo A Fairy Story lasciava intuire che si trattasse di una storia innocua, quasi una lettura per l’infanzia. Del resto, Orwell ebbe più di un problema a far pubblicare il libro in Inghilterra: lo propose a quattro editori, tra cui Faber & Faber il cui direttore responsabile era T.S. Eliot, e tutti e quattro lo rifiutarono (qui la lettera di rifiuto di Eliot).

La prima edizione pubblicata dall’editore Secker & Warburg di Londra il 17 agosto 1945, ottant’anni fa (via Wikipedia)

Il libro fu scritto tra il 1943 e il 1944, dopo la partecipazione di Orwell alla guerra civile spagnola, ma all’autore fu immediatamente chiaro che durante, e subito dopo, la Seconda guerra mondiale avrebbe avuto molte difficoltà a proporre la lettura antistalinista contenuta nel libro, perché il Regno Unito e gli Stati Uniti temevano che avrebbe potuto mettere a rischio l’alleanza con l’Unione Sovietica. Nella prefazione Orwell spiegò da dove avesse tratto l’idea di usare gli animali per il suo romanzo: «Ho visto un ragazzino, forse di dieci anni, che guidava un enorme cavallo da tiro lungo uno stretto sentiero, frustandolo ogni volta che cercava di girare. Mi ha colpito il fatto che se solo questi animali prendessero coscienza della loro forza non dovremmo avere alcun potere su di loro e che gli uomini sfruttano gli animali più o meno allo stesso modo in cui i ricchi sfruttano il proletariato».

L’edizione italiana che lessi durante le vacanze dei miei dodici anni era senza prefazione e aveva in copertina il disegno rassicurante di un paio di maiali, qualche pecora, qualche mucca, due cavalli. Era una favola, si capiva subito. Sprofondai nel racconto della loro ribellione a Jones, l’umano che li teneva in schiavitù, privandoli della dignità. Imparai che i maiali erano animali intelligenti e puliti – fino ad allora ero sempre stata convinta del contrario. Adorai il gatto, che non aveva nome. «Fu chiaro fin dall’inizio che ogniqualvolta c’era un lavoro da fare, il gatto si rendeva irreperibile». Mi pareva astuto e divertente, uno spettatore cinico della rivoluzione animalista nella fattoria. Una creatura che tutto capiva e che da tutto – dalle responsabilità? dal dolore? dalla violenza? – fuggiva. Forse lo ammiravo per questo, forse volevo essere come lui.

Rimasi ammaliata da Palla di Neve, delusa da Napoleone – che considerai l’archetipo dei traditori. A quel tempo ero, come tutti gli adolescenti, ossessionata dal concetto di amicizia tradita. La figura della saggia e amorevole cavalla Berta mi commuoveva; il destino del cavallo Gondrano, mandato subdolamente al macello da Napoleone che lo aveva sfruttato e ingannato per tutta la vita, mi struggeva e mi faceva infuriare, mi riempiva di una rabbia incomprensibile, esattamente come la fine di Gondrano. Sentivo, a un livello preconscio, nel modo particolare e infallibile in cui sentono i bambini e gli adolescenti, che qualcosa mancava, che il quadro generale era stato spezzato e riattaccato male, le parti non combaciavano.

Nel 1953, l’animatore Eddie Radage in una fattoria nell’Hertfordshire, in Inghilterra, disegna maiali per preparare il primo film animato di Animal Farm realizzato dallo studio Halas & Batchelor e proiettato nel 1954 (John Pratt/Keystone Features/Getty Images)

La fattoria degli animali fu per me sì fonte di frustrazione, ma anche di conferme. L’aspetto che mi entusiasmò maggiormente fu la ribellione degli animali allo sfruttamento umano. Mi piaceva che parlassero – era sempre stato uno dei miei sogni, che gli animali potessero parlare –, mi piaceva che scrivessero. Trovai esilaranti i Sette Comandamenti – Quattro gambe buono, due gambe cattivo – che, piano piano, imparai a memoria. Tutti gli animali sono uguali. Mi dicevo che era proprio così, era giusto che tutti gli animali – pensavo in particolare agli animali d’affezione – dovessero essere rispettati e accuditi.

Ero intimamente animalista prima di conoscere il significato della parola, forse addirittura prima che la parola esistesse. Non ricordo se, quarantacinque anni fa, parafrasando Wittgenstein e agganciandomi a uno dei temi più scabrosi di 1984, i limiti del mio mondo fossero tali per cui il mio linguaggio non includesse ancora termini come “animalista”. Gli animali e le persone morivano in molte fiabe e, in questo senso, la fine di Gondrano non doveva sorprendermi. Ciò che mi turbava era nascosto nel tempo giusto, nel percorso giusto di un romanzo come La fattoria degli animali. Un tempo che non era ancora arrivato.

– Leggi anche: Un archivio di George Orwell che rischia di andare perduto

È curioso che in un oggetto – un libro, in questo caso – si sovrappongano e si fondano così tanti piani temporali: me ne sono resa conto solo quando lo affrontai per la terza volta, all’università. La fattoria degli animali è cresciuta con me, dentro di me, insieme alla consapevolezza politica e alle scelte personali.

Prima di avere dinanzi agli occhi il quadro generale, prima di capire cosa significasse davvero il tradimento di Napoleone o meglio, prima di comprendere che esisteva un altro significato oltre l’animalismo, con qualunque nome lo si chiamasse allora, e oltre l’allegoria della rivoluzione russa, La fattoria degli animali mi aveva cercato di nuovo, e trovato, in quinta liceo. Quella volta lo lessi in inglese. Fui obbligata a inserirlo nel suo contesto socio-culturale e politico e dovetti approfondire anche la vita di Eric Arthur Blair, vero nome di Orwell.

Imparai, sentii il vero significato del termine “allegoria”. Rifiutai la definizione di “favola”, accolsi con più convinzione quella di “satira”. Fui costretta a guardare la storia da un’altra prospettiva, che entrava in collisione con i miei convincimenti politici. George Orwell era un giornalista, aveva combattuto nel POUM, il Partido Obrero de Unificación Marxista, d’ispirazione trotzkista. Ferito, era stato fatto rientrare a Barcellona dove, tuttavia, il clima era cambiato e i comunisti stalinisti – aiutati dai sovietici – avevano dichiarato fuorilegge il POUM e gli anarchici. Capii insomma che La fattoria degli animali era un’allegoria della rivoluzione russa, prima, e della degenerazione del governo stalinista, poi.

Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri: di colpo questa frase acquistò una tridimensionalità che mi disturbava, mi destabilizzava, mi metteva all’angolo, nonostante cercassi in tutti i modi di resisterle. Respingevo l’idea che il cavallo Gondrano mandato al macello dal maiale Napoleone, che avrebbe dovuto proteggerlo e che lo aveva invece ingannato, rappresentasse i lavoratori, le vittime, il popolo che il governo stalinista avrebbe dovuto far prosperare. Respingevo l’idea che il Gatto, il senza nome, fosse tutt’altro che una figura simpaticamente cinica e pigra come mi era sembrato da piccola, ma l’emblema di chi si sottrae alle proprie responsabilità.

Stalin-Napoleone mi faceva rabbia. Compativo e sostenevo Trockij-Palla di Neve. Esultai quando lo Zar-Jones venne spodestato. Suppongo, ripensandoci, che dentro di me infuriasse una guerra di letture, una guerra di libri contro libri, un conflitto che poco aveva a che fare con la vita reale e con le prove alle quali, impietosamente, la vita reale ci avrebbe sottoposto.

Fu in quel periodo che lessi per la prima volta anche 1984 che, al contrario, fu una folgorazione. Nonostante non avessi compreso appieno la portata politica insita nel tema del linguaggio, sentii subito che quel romanzo distopico era “giusto”. La fattoria degli animali, invece, suscitava in me sentimenti contrastanti e io non mi sentivo ancora a mio agio nel dubbio.

Tendo ancora oggi a dimenticarmene. Facevo parte della schiera di quelli che, tuttora, ingaggiano una battaglia silenziosa con quel libro. Oggi da insegnante mi dico che è su quella sensazione di sconforto che bisogna insistere perché è da lì che si costruisce la comprensione. Almeno, mi ripeto che per me è stato così. Lo stile piano, lineare di Orwell ha rappresentato, in tre diverse fasi della vita, una forma di comunicazione e conoscenza che veicolava una consapevolezza sempre più alta del mondo e di me stessa come persona nel mondo.

«Ogni riga di ogni lavoro serio che ho scritto dal 1936 a questa parte è stata scritta, direttamente o indirettamente, contro il totalitarismo e a favore del socialismo democratico, per come lo vedo io», dichiarava Orwell in Perché scrivo, saggio pubblicato nel 1946.

Il tempo giusto della mia vita arrivò al quarto esame di letteratura inglese all’università. Era un periodo in cui non esistevano più favole e in cui la teoria che leggevo nei libri stava lasciando il posto alla vita. Non c’era più spazio, dentro di me, per i conflitti astratti. Aggiunsi un altro piano di lettura a La fattoria degli animali che mi aiutò a rivedere definitivamente – ed entusiasticamente – la mia interpretazione del romanzo: il significato ulteriore della Fattoria degli animali, dopo l’allegoria, era la corruzione degli ideali e la degenerazione del potere intesa in senso generale. «Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.»

Nell’ultima parte del libro gli ideali rivoluzionari portati avanti da Palla di Neve sono andati in frantumi a causa della brama di potere di Napoleone. La corruzione è moneta corrente, i Sette Comandamenti  sono stati completamente stravolti. I maiali bevono whisky e giocano a poker, esattamente come facevano gli uomini quando era Jones a comandare sulla fattoria. Clarinetto – presumibilmente il capo della polizia segreta Berija – aveva convinto le pecore a modificare uno dei Sette Comandamenti in Quattro gambe buono, due gambe meglio. I maiali avevano cominciato a camminare su due zampe, in posizione eretta. Il resto degli animali, nonostante il cosiddetto “razionamento” del cibo, avevano dimenticato Jones e, malgrado vivessero una vita “aspra e misera”, erano convinti di stare meglio che in passato.

«Erano lieti di credere così. Inoltre, allora erano schiavi e ora erano liberi, e qui stava tutta la differenza.»

Mi sembra che ottant’anni dopo la prima pubblicazione viviamo ancora nel solco angusto e illusorio di quella differenza. E che di questo si debba discutere con gli studenti e le studentesse, e in ogni sede di confronto letterario e politico, perché è in questo che si sostanzia la magnifica attualità della Fattoria degli animali. Per questo per quanto mi riguarda, nonostante i miei dubbi annuali e le reazioni non proprio incoraggianti ricevute fino a oggi, continuerò a proporlo alle ragazze e ai ragazzi, perché il suo valore educativo è inestimabile: sembra una favola invece è tutt’altro, come quando si esce dai libri, dalla scuola, e si incontra la vita.

– Leggi anche: Nuove e vecchie copertine di “1984”

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