Perché andiamo al mare?

«Sarebbe bello che qualcuno creasse un museo della balnearità. Nel mio piccolo ho registrato la risacca delle spiagge in Liguria dove ho passato le mie ultime estati. Potrebbero sembrare suoni tutti uguali, ma in ognuno risuona un momento irripetibile».

Rimini, Italia (Getty Images)
Rimini, Italia (Getty Images)
Roberto Carvelli
Roberto Carvelli

Giornalista e scrittore, è soprattutto narratore di luoghi. Il suo ultimo libro è Stazioni balneari Liguria (ediciclo).

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Sere fa ho sognato una spiaggia. Come succede in questi casi, non era una spiaggia riconoscibile. Scogli frangiflutti e rena, dune e sassi. Un po’ un mischione di tutti i diversi luoghi marini dove ero stato in vita mia. A essere riconoscibile era il costume arancione che avevo addosso, nel sogno lo riconoscevo e lo rivedo ancora in una vecchia fotografia scattata ad Ardea Marina, vicino a Roma, inizio anni Ottanta, in cui sono un dodicenne magro e annoiato seduto sul bracciolo di una sedia a sdraio di legno e stoffa (allora sedevamo obliquamente e dolorosamente in posti scomodissimi senza troppa pena) sotto un ombrellone di ferro e stoffa.

Se togli quel corpo che mi trascino dietro ancora, ahimè in una forma diversa, i capelli ricci e scuri che ora sono radi, l’anca ossuta e il torace con le costole numerabili ormai invisibili, l’aria stanca e senza scopo che non ho più, tutto sembra uguale a sempre. Persino il mobilio – si fa per dire – da esterni ha ancora la stessa indecifrabile aria da stabilimento. Le stesse sdraio di stoffa monocolore con il nome dei Bagni, gli stessi ombrelloni blu o verdi o arancioni o gialli, piantati nella sabbia uguale ad allora, fatto salvo l’arretramento del bagnasciuga per l’innalzamento del mare. Quale azienda produce imperterrita le sdraio e gli ombrelloni uguali a sempre?

Di costumi così, invece, non se ne fanno più. Il mio di quello strano tessuto fitto che ricordava un tutore da bendaggio ortopedico, così rigido da segnare la pelle di righe come un cilicio. Ma di costumi da mare in tessuti improbabili ne ho in mente a bizzeffe perché popolano la mia triste infanzia marina. Ne ricordo uno a uncinetto e un altro in maglia tipo lana, e quello a mutandina che andò di moda una sola estate, con due gancetti a forma di 8 sui lati che si slacciavano continuamente.

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L’estate al mare si fonda su una complessa stratificazione di estrema immutabilità e mode passeggere che, di volta in volta, possono incarnarsi in tormentoni musicali, gelati – cornetti algida, cuccioloni e calippi – borse di paglia intrecciata di foggia sempre diversa, posacenere con la mezza noce di cocco, reti da pesca porta-giochi, Settimana enigmistica, espadrillas, zoccoli, infradito, la moda dei teli da mare dall’etnico all’optical. Simboli che ritornano ciclicamente, redivivi o revenant, persino. Un misto di sciatteria confortevole e comodità a buon prezzo. Ad accompagnarli è una lunga sequela di suoni, odori e sapori che ti riportano all’infanzia: delle creme solari, delle graffe/krapfen, del grido di battaglia coccococcobbello.

Eppure, questa apparente immutabilità ha una storicità tutto sommato recente. In un saggio uscito per Marsilio in traduzione dal francese qualche anno fa, L’invenzione del mare. L’occidente e il fascino della spiaggia (1750-1840), Alain Corbin raccontava che il mito del bagno marino è moderno e segue un ostracismo durato millenni, come dimostrano le grandi resistenze degli antichi che gli preferivano quello termale. Fu Robert Burton nel saggio L’anatomia della malinconia del 1621 a sostenere, per la prima volta, il potere curativo dei bagni in mare, ma tuffarsi continuò a essere considerato per secoli una pratica adatta a lavoratori in cerca di refrigerio invisa alle classi sociali più alte e con un maggiore senso del pulito. Insomma, sembra strano a pensarlo oggi nell’affaticata gincana tra i corpi, ma tutto era già stato scritto: anche la diffidenza per l’acqua sporca e non salubre.

Oggi sappiamo, quindi, che le origini del successo dei bagni di mare risalgono alla secentesca cura del mal di vivere e, infatti, le prime stazioni inglesi, come Bath o Brighton, puntavano sulla doppia aggettivazione “balneare” e “termale” che veniva servita come un medicamento inizialmente destinato alla sola aristocrazia, poi con il marketing feroce del Novecento a molti, se non a tutti quanti. Strano ma non troppo: in fondo, se andiamo al mare sotto il solleone con una lena talvolta autolesionista, è anche perché speriamo che un mese o una settimana di iodio possano curare le frustrazioni di un anno. Nonostante gli ammonimenti sui danni alla pelle provocati dal sole, se andiamo al mare è perché crediamo ancora che faccia bene alla salute.

L’altro mito su cui si innesta quello balneare è il viaggio che ha radici nel Grand Tour europeo, che all’inizio era appannaggio delle dinastie e poi trovò, come racconta in Storia delle vacanze l’etnologo svedese Orvar Löfgren, un seguito nel turismo di massa. (Ma sul tema consigliamo anche Breve storia delle vacanze di Fruttero & Lucentini, che all’argomento dedicarono anche un delizioso dialogo – IV, 2 – in La donna della domenica). Chi lo avrebbe detto che quel «territorio privo di qualità estetiche» (e insalubre come si pensava dapprima) sarebbe stato colonizzato fino a trasformare ogni centimetro cubo water front nel fulcro dell’interesse immobiliare.

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Sono lontani i primi inviti a bagnarsi nel mare raccontati da Corbin: le prime poesie francesi a tema marino e le prime tele olandesi a tema balneare, antesignani delle cartoline «Salutoni da», vera mania novecentesca che ha conosciuto negli anni vere e proprie depravazioni, come le cartoline a stampa lenticolare – quelle che a seconda dell’inclinazione dello sguardo mostrano un corpo nudo o vestito –popolate di donne nude o in costume che ammiccano da Loano o Pinarella di Cervia.

Per restare alla storia della balnearità italiana, va ricordato che il primo stabilimento fu aperto nel 1781 a Livorno, ma fu un caso isolato. Si chiamava “Bagni Baretti” dal nome del console del re di Sardegna che li aveva realizzati vicino a una caserma di cavalleggeri nel punto della costa in cui le alghe profumavano. La moda scattò solo nel secolo successivo quando nel 1823 a Viareggio venne aperto il Bagno Dori seguito nel 1843 da Rimini e nel 1857 dal Lido di Venezia che rimanda all’atmosfera pruriginosa e lugubre di La morte a Venezia di Thomas Mann.

Da allora la moda non è mai finita. Magari il mese di villeggiatura è sfumato in favore di permanenze più brevi, da turismo low cost, ma in Italia il mare e le sue coste sono sempre le stesse: Costa Adriatica, Calabria, Sardegna, isole minori, Salento… e sono sempre le stesse le spiagge che si affollano o svuotano in ragione di un passaparola modaiolo che crea ondate di prezzi ascendenti e poi cambiamenti, cadute, rinascite.

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Eppure le spiagge sono molto di più di una moda passeggera. Nell’immaginario sono spesso legate a una certa idea di libertà. Il costume da bagno, per quanto scomodo come quello del mio sogno, forse è lì a ricordarci che solo in spiaggia ci si può liberare dalle convenzioni seppure creando altre convenzioni (un caso per tutti, la fortuna/sfortuna ciclica e un po’ politica del topless nel tempo). In molte cittadine balneari, infatti, ci sono cartelli che invitano a non girare in costume e infradito, come a sottolineare che quello che è concesso in spiaggia è vietato pochi passi più in là, perché in spiaggia regna una tolleranza che s’interrompe qualche metro dopo. Nonostante il caldo, il sudore, la mancanza di spazio, i bambini che urlano o ti prendono a pallonate, i vicini che mangiano o litigano o si spruzzano di creme dagli odori improponibili e gli ombrelloni in fila come soldati, colorati quasi fossero divise militari dei bagni a cui appartengono, il mare è uno dei posti rimasti dove non ci si divide e si sembra più uguali.

Forse anche per questo sarebbe bello che qualcuno creasse un museo della balnearità, uno spazio lasciato al ricordo, ma forse pure alla pacificazione. Nel mio piccolo ho passato le mie ultime estati trascorse invariabilmente in Liguria a registrare con il mio iphone la risacca delle spiagge in cui mi trovavo a diverse ore del giorno. Potrebbero sembrare suoni tutti uguali, ma quando li riascolto non li avverto così. Nei file audio nominati rigorosamente col nome della spiaggia – Bonassola, Levanto, Calandre a Ventimiglia – risuona un momento particolare della mia vita e un istante unico e irripetibile nell’incontro tra quel tratto di costa e il mare.

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