La nobilitazione del kebab
Alcuni imprenditori italiani e i video di un ristoratore libanese stanno popolarizzando approcci più “gourmet” a un piatto a lungo snobbato

Da un paio di mesi un ristorante di kebab di San Donato Milanese, un comune dell’hinterland del capoluogo lombardo, è diventato famosissimo. Si chiama Habibi, e serve una versione del kebab particolarmente studiata, preparata con più cura del normale e con ingredienti più pregiati. Ma non è tanto questo ad averlo fatto conoscere anche a chi vive a centinaia di chilometri da Milano, quanto i video che il proprietario, il libanese Abbas Ahmad, ha iniziato a pubblicare sul suo profilo TikTok e Instagram: «Habibi, yalla», amore andiamo, dice in ciascuno prima di entrare in un ristorante come il suo.
Ahmad infatti sta girando per le grandi città italiane per recensire i locali dei suoi colleghi e stabilire con fare molto sentenzioso quali siano all’altezza del suo kebab, un piatto diffuso in varie tradizioni gastronomiche mediorientali, dove si chiama shawarma. Il carisma e la perentorietà dei giudizi di Ahmad sono ciò che fa funzionare i suoi video, che però non spuntano fuori dal nulla: è infatti un po’ di tempo che in Italia il kebab sta attraversando una fase di rinnovato successo e di nobilitazione, dopo che tra gli anni Novanta e Duemila nelle città avevano iniziato ad aprire i primi ristoranti che lo servivano.
Se a lungo però i ristoranti di kebab non hanno puntato particolarmente sul distinguersi gli uni dagli altri, ora sempre più ristoratori offrono una versione speciale e gourmet di un piatto che per un paio di decenni in Italia è stato sinonimo di cena economica, abbondante e soddisfacente, ma poco di più.
Ahmad ha 127mila follower su Instagram ed è diventato famoso soprattutto dopo che a maggio aveva vinto una puntata di Foodish, un programma di Sky condotto da Joe Bastianich. In più occasioni ha detto di aver deciso di esporsi così tanto sui social non soltanto per far conoscere il suo ristorante, ma anche per nobilitare la cucina mediorientale e cambiare il modo in cui viene percepita in Italia.
Con i suoi video Ahmad ha dato visibilità ad altri ristoratori di origini nordafricane e mediorientali che offrono kebab e altri piatti tipici preparati con standard più alti di quelli che si trovano talvolta nei locali più alla buona, quelli con prezzi molto popolari o che attraggono clienti specialmente nelle ore notturne. Ahmad spiega spesso le differenze tra le interpretazioni del kebab dei vari paesi, e segnala i piatti più insoliti che trova nei menù.
Ma altri tentativi recenti di rilanciare l’immagine del kebab non sono arrivati da imprenditori che provengono da paesi dove è un piatto tipico, bensì da italiani che hanno visto delle potenzialità in un prodotto poco valorizzato e hanno potuto investirci molti soldi. Uno in particolare ha avuto grande successo. Nel 2021 fu fondata la catena Kebhouze, diventata popolare grazie a un marketing massiccio e ai moltissimi locali aperti rapidamente in città diverse. Ad aiutarne l’espansione è stata anche la notorietà del suo principale investitore, l’ereditiere, imprenditore e personaggio televisivo Gianluca Vacchi, che alcuni anni fa era conosciuto per i video in cui ballava a bordo piscina ripetendo “Enjoy!”.
L’ispirazione principale per Kebhouze è stata McDonald’s, il fast food più famoso al mondo, da cui in effetti ha ripreso alcune idee. Per esempio il menù per bambini, il “kebby meal”, richiama fin dal nome il celebre happy meal della catena americana. Kebhouze ha lavorato molto anche sull’immagine, creando confezioni in cartone colorate e piuttosto curate nel design, in netto contrasto con l’immaginario del «panino unto e avvolto nella stagnola», dice Edoardo Sorgoni, uno dei fondatori dell’azienda. «Rendere il prodotto esteticamente gradevole aiuta a scalfire quel pregiudizio che lo associa a scarsa igiene o bassa qualità. Anche se poi, comunque, tutto va confermato col gusto».
Un’altra strategia della catena è proporre un’offerta più ampia rispetto a quelle tradizionali. Di solito il kebab è preparato con carne di pollo o vitello, ma Kebhouze utilizza anche il manzo e opzioni plant-based, cioè vegane. Recentemente, Kebhouze ha cominciato a inserire nel suo menù alcuni piatti di Habibi, il ristorante di Abbas: lo shawarma, i falafel (polpette di ceci speziate e fritte) e la salsa tahina, un condimento a base di sesamo.
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Nel 2022, un anno dopo Kebhouze, a Milano ha aperto anche The Döner Club, un’altra catena che parte da un concetto un po’ diverso. In questo caso l’offerta è incentrata soltanto sul döner, specialità turca diffusissima soprattutto in Europa: una pietanza di carne di pollo, agnello o manzo che viene infilzata in grossi strati sovrapposti su uno spiedo verticale, cotta alla griglia facendo ruotare lo spiedo sul proprio asse, e poi tagliata longitudinalmente per ottenerne strisce sottili.
Il modo di comunicare di The Döner Club è molto simile a quello di Abbas e Kebhouze, concentrato sulla qualità degli ingredienti e della loro provenienza, e i ristoranti hanno a loro volta un’impostazione da fast food americano, un packaging molto curato e una linea di merchandising personalizzata.
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In altri paesi europei, operazioni di questo tipo non sono una novità. Per esempio in Germania, dove vive una vasta comunità di origine turca, esistono da tempo catene di kebab strutturate, come Kebap with Attitude. A Londra hanno fatto qualcosa di simile posti come Le Bab o BabaBoom, e in Francia ci sono ristoranti come Grillé propongono una versione più elegante e “francesizzata” del kebab, in ambienti simili a bistrot.



