Cosa provi se il tuo nome finisce in un’inchiesta
«Dalla mattina di ottobre in cui sono finita sui giornali come complice di una rete di dossieraggio internazionale, ho vissuto immersa in una nebulosa mentale, impegnata in un refresh ossessivo su Google News alla ricerca di risposte. Il problema era che si pretendeva che le risposte le dessi io»

Una mattina di ottobre del 2024 mi sono svegliata e ho scoperto di essere a capo di una centrale operativa di spie. Mentre sorseggiavo il mio tè – la prima cosa da fare la mattina in Inghilterra – un amico giornalista mi ha detto che il mio nome era emerso in una clamorosa inchiesta giudiziaria. A quanto pareva, dicevano alcuni giornali, Anna Sergi, professoressa italiana di criminologia presso un ateneo inglese, era a capo di una rete di dossieraggio internazionale.
La vita può riservare sorprese, ma il ruolo che quei quotidiani mi attribuivano sembrava sbucare da un universo parallelo, magari quello di cui fantasticavo da bambina quando sognavo di diventare Harriet, la spia. Che non fossi finita in un’indagine qualunque, lo diceva anche il nome: “Equalize”.
L’inchiesta era partita dalla procura di Milano. Il mio nome però non compariva, nemmeno per semplice menzione, nell’ordinanza di custodia cautelare che coinvolgeva 51 persone. Insomma, non ero e non sono mai stata indagata, e non sono neppure mai stata “persona di interesse”, espressione con cui si indica chi può essere rilevante per un’indagine. Ne ho avuto conferma esercitando il mio diritto ex articolo 335 del codice di procedura penale che consente di ricevere comunicazione circa l’iscrizione del proprio nome nel registro delle notizie di reato in qualità di indagato o di persona offesa. È un diritto che, per inciso, ho esercitato due volte perché, in caso di indagini complesse, il PM può decidere di opporre il segreto istruttorio alla prima richiesta (per una volta soltanto) e decidere di non rivelare nulla.
E allora di cosa si trattava? Semplice: quando l’ordinanza di custodia cautelare è stata emessa, i giornali hanno deciso di pubblicare stralci dell’informativa dei carabinieri che aveva ispirato la richiesta del pubblico ministero, che di quell’informativa, peraltro, era quasi copia conforme. Peccato che i due documenti, in teoria, avrebbero dovuto rimanere segreti, essendo ancora in corso l’indagine.
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E così in quella mattina di ottobre fui costretta a contattare affannosamente amici giornalisti a Milano, cercando di scoprire com’era possibile che il mio nome fosse finito in un elenco di “complici” di tale Nunzio Samuele Calamucci, di mestiere “cyber specialista”, che non conoscevo e di cui non avevo mai sentito parlare. Insieme ad altri, tra cui l’ex poliziotto Carmine Gallo, Calamucci era accusato di accessi abusivi a banche dati istituzionali per fini di dossieraggio su persone del mondo della politica e dell’economia, tramite l’agenzia investigativa Equalize, di cui proprio Gallo era amministratore delegato.
Calamucci aveva tirato in ballo il mio nome in una conversazione intercettata, trascritta nell’informativa dei carabinieri e copia-incollata nella richiesta dei PM: «Guarda cosa ha pubblicato Anna Sergi… e m’ha fatto tutta l’analisi …!». «Questa è la figlia di Sergi quello di giù!». «Lei lavora su a Londra perché lui ha la scorta giù e non può uscire di casa e l’hanno minacciato di morte più volte!». Il riferimento era a mio padre, ex giornalista, oggi pensionato, che si è occupato di temi scomodi ma non ha mai voluto la scorta, e oggi esce di casa con la stessa tranquillità con cui io faccio la spesa al supermercato.
In un’altra intercettazione, trascritta nell’informativa e dal PM, Calamucci aggiunge: «E poi si integrerà con noi l’Anna Sergi, googlala, la trovi subito, una figa della madonna!». «Sì, lei… lei è … la più esperta di ’ndrangheta […] … ci aiuterà per tutta la parte dei database dei Tribunali… conta che pubblica come una pazza, è bravissima…». È molto strano ricevere apprezzamenti da uno sconosciuto che si vanta di averti a servizio. Non sai come reagire, se essere più imbarazzata, preoccupata o spaventata. In quei momenti reagii con rabbia.
Secondo un’ipotesi bizzarra formulata dai carabinieri, e sposata dalla procura in prima battuta, a catapultarmi in questa mischia giudiziaria sarebbe stata una certa Monica, una dipendente amministrativa del mio ateneo che si è ritrovata identificata nell’informativa, e poi nella richiesta dei PM, con tanto di nome, cognome e rete di contatti, quale artefice di una fantomatica centrale di spionaggio che avrebbe avuto base nella mia università. Nell’ordinanza di custodia cautelare, però, nemmeno Monica era nominata e nemmeno lei conosceva le persone citate.
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Eppure Calamucci aveva tratteggiato la trama di un film di spionaggio in cui noi due eravamo alla guida di una squadra di 50 o 60 “analisti” (inglesi?) addestrati a esfiltrare dall’Italia dati sensibili da rivendere al miglior offerente. Stando a Calamucci, io e Monica avremmo orchestrato questa impresa titanica nella nostra università in Inghilterra dove avremmo pure organizzato un training per i servizi segreti inglesi!
Quando l’ho saputo mi è venuto da ridere. Conosco bene il livello mediocre del corpo studentesco a cui insegno da anni, dunque la cosa mi parve tanto assurda quanto ridicola. Mi sono vista in aula, circondata da studenti che a malapena ricordano la password del loro account universitario, mentre li addestro a trasformarsi in una falange di spie internazionali. Ma c’era un lato inquietante in questa storia: gli inquirenti sembravano prenderla molto sul serio.
Ricapitoliamo. Chi aveva sviluppato le indagini riteneva plausibile che in una lontana università con 15 mila studenti nel cuore dell’Inghilterra, una certa Monica a me fino ad allora sconosciuta – priva di qualsiasi competenza informatica e erroneamente qualificata nell’informativa come rettrice ma in realtà segretaria amministrativa nel rettorato – insieme a me, accademica senza alcuna esperienza particolare nel mondo IT e tanto meno di hackeraggio, stessimo congiuntamente addestrando un battaglione di “analisti” a esfiltrare dati dalle istituzioni italiane. Era però impossibile riderne del tutto: erano già stati eseguiti diversi ordini di custodia cautelare e lo scandalo era enorme.
Nelle settimane seguenti, ovviamente, avrei avuto modo di conoscere Monica. Era incredula. Continuava a chiedermi: «Ma cosa c’entro io in questa storia?». Avrei voluto dirle: «Ci sei entrata perché Calamucci parla di una certa Monica di Essex che lavora come rettrice. Basta googlare “Monica, Essex, Rettorato” e salti fuori tu, anche se non sei rettrice». Ho evitato di dirlo perché una parte di me continua a rifiutarsi di credere che le indagini si facciano googlando chiavi di ricerca a caso, per sentito dire.
I rappresentanti della mia università non ci credevano. Durante una riunione, presente anche Monica, ho provato a spiegare che in Italia può accadere che informazioni in teoria segrete siano rese pubbliche e stampate a caratteri cubitali dai giornali. «Ma allora i responsabili non sono solo quelli che hanno diffuso informazioni segrete ai giornali, ma anche i giornali che li hanno pubblicati!», mi hanno detto i rappresentanti della mia università. Certo, ho risposto, solo che in Italia è già successo tante volte: se si viene a conoscenza di informazioni riservate, a molti giornali sembra normale pubblicarle e nessuno si assume mai veramente la responsabilità di averlo fatto.
Da quella mattina di ottobre ho vissuto immersa in una nebulosa mentale, impegnata in un refresh ossessivo del mio nome su Google News alla ricerca di risposte. Il problema era che si pretendeva che le risposte le dessi io. Vedendomi sconvolta, una mia amica esperta di cose di legge mi ha suggerito di chiedere alla procura di Milano di essere ascoltata. Aveva buone intenzioni, ma non ho reagito bene, salvo poi scusarmi dei toni: «Ma stai scherzando? Non ho niente da dire! Non ho idea di chi siano questi soggetti di Equalize, non li conosco, non li ho mai visti né conosciuti».
La situazione si è fatta sempre più paradossale. Un amico giornalista mi ha chiamato per anticiparmi che il suo giornale avrebbe fatto un articolo sulla vicenda citando il mio nome: «Almeno sei informata e puoi rispondere». Con la massima serenità di cui sono stata capace ho risposto anche a lui che non avevo nulla da rispondere, se non che non conoscevo né avevo mai avuto alcun tipo di contatto con le persone citate – per inciso, una circostanza semplice da verificare anche per gli inquirenti. Intanto, però, la mia reputazione accademica, costruita in anni e anni di impegno e fatica, rischiava di essere indelebilmente macchiata.
Perché poi sono arrivati altri giornalisti, anzi “giornalisti”, che hanno pubblicato le mie foto e sono andati a scavare nel mio curriculum pubblico su LinkedIn cercando tracce delle mie competenze da hacker. La mia foto e quella di Monica sono state pubblicate anche da un quotidiano che ha definito me «non certo una scappata di casa» e dipinto Monica, che non mette piede in Italia da anni e non parla italiano, come una complice e autrice di una serie di e-mail in corretto italiano al gruppo di hacker. Un altro quotidiano ha scritto che avevo rifiutato di rilasciare dichiarazioni su consiglio dei miei «abbottonatissimi avvocati», anche se aveva contattato soltanto mio padre, non me, né tanto meno i miei «abbottonatissimi avvocati».
Dopo la pubblicazione, un mortificato funzionario della polizia italiana ha dovuto comunicarmi che il mio invito a parlare come keynote speaker a un convegno europeo di forze di polizia era stato ritirato perché gli organizzatori volevano prevenire possibili manipolazioni intorno alla mia presenza. Avrei voluto – e potuto – arrabbiarmi, ma con chi? Capivo gli organizzatori, capivo lui, ma capivo anche me stessa. Non sapevo cosa fare, aspettavo.
Nel marzo 2025, finalmente, è emerso che Calamucci si era inventato tutto per fare colpo sull’ex poliziotto Carmine Gallo, che proprio a marzo era morto d’infarto. Negli stessi giorni la stampa ha pubblicato estratti dell’interrogatorio di garanzia a Calamucci (altri dati segreti…) in cui confermava di non avermi mai vista né conosciuta, ma di aver scaricato i miei articoli dal portale Academia.edu, che raccoglie saggi accademici. Per accreditarsi con Gallo, aveva perfino creato un account fittizio e si era auto-inviato e-mail da una certa Monica.
In questi mesi ho provato incredulità, imbarazzo e vergogna, senza neppure sapere bene di cosa. È stato mortificante dovermi giustificare per una storia inventata e ho fatto fatica ad accettare che l’Arma dei Carabinieri e la procura di Milano, pur avendo il dovere di indagare, abbiano creduto possibile una storia così strampalata. E poi, sì, sono stata anche arrabbiata, in certi momenti ai limiti dell’idrofobia. Il problema è che non sapevo contro chi dirigere la mia collera.
Certamente verso Calamucci, che ha usato il mio nome per inventare un personaggio adatto alle sue fantasie di spionaggio, ma anche verso chi ha condotto le indagini, lasciando che il mio nome restasse in bilico tra il fumus criminis e pura fantasia, ma soprattutto verso chi ha fatto uscire documenti coperti da segreto istruttorio. E poi, verso i “giornalisti” che mi hanno esposta al pubblico, pur sapendo di basarsi su un’informativa secretata e non verificata da nessuno.
Soprattutto, mi chiedo: quante altre persone si sono trovate sotto i riflettori a causa dell’incapacità da parte di chi ne avrebbe la responsabilità di proteggere la verità dalle bugie di un millantatore?
Quando la mia posizione si è finalmente chiarita una volta per tutte, ho capito che a rendermi appetibile è stato anche il mio mestiere: era golosa l’idea che una criminologa calabrese che insegna in Inghilterra, o per dirla in termini accademici “una sociologa della devianza specializzata nel campo della ricerca sulla mafia e del crimine organizzato”, fosse coinvolta in una rete di spionaggio internazionale. Ho sempre saputo che molta gente non sappia davvero cosa significhi “fare la criminologa” in ambito accademico, anche se qui oltre che ignoranza si aveva per lo più lavorato di fantasia. Chi se non la sottoscritta, dunque, che studia e analizza ciò che viene “costruito”, socialmente e giudizialmente, come crimine, poteva apprezzare la sottile ironia di ritrovarsi in una storia tutta “interna” ai meccanismi perversi di colpevolizzazione e “micro-linciaggio” mediatico?
Non so se c’è una morale in questa vicenda. Se esistesse, potrebbe essere: in un mondo dove la finzione si diffonde alla velocità di un post virale, provare a fare in modo che la verità emerga è ancora la cosa giusta da fare. Ma in un mondo in cui tutti vogliono essere protagonisti, cosa si può fare se si è resi protagonisti da altri, in questo modo?
È come ritrovarsi intrappolati in quella famosa frase del Macbeth di Shakespeare:
«La vita non è che un’ombra che cammina (…) è una storia raccontata da un idiota, piena di rumore e furia, che non significa nulla.»












