Ma quanto sono strazianti i vecchi filmini?

«Il nodo allo stomaco era sempre lì. Rivedevo la loro, la nostra vita scivolare muta, tutti noi nello spazio come se lo stessimo occupando in questo momento. I ricordi mi venivano addosso»

Bambini al mare in un filmino di famiglia del 2 agosto 1980, giorno della strage di Bologna. È uno dei video raccolti su
Home Movies 100 dell'Archivio Nazionale del Film di Famiglia ETS.
Bambini al mare in un filmino di famiglia del 2 agosto 1980, giorno della strage di Bologna. È uno dei video raccolti su Home Movies 100 dell'Archivio Nazionale del Film di Famiglia ETS.
Roberto Morelli
Roberto Morelli

È nato a Trieste nel 1964, si spartisce tra il giornalismo (già con il Corriere della Sera, poi con quotidiani e tv del Nordest), la saggistica (recentemente con Laterza) e il ruolo di dirigente d’azienda (illycaffè, Trieste Convention Center).

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Ho riposto tutto con cura in un cassetto: non l’aprirò più. Ho contato undici piccole videocassette per le telecamere amatoriali di vent’anni fa, un paio di cd in cui ne avevo riversato il contenuto, persino tre vecchi vhs che non saprei come rivedere. Formati diversi d’immagini erose dal tempo, spezzoni di vita mia e della famiglia, mia moglie Sandra e i nostri tre figli allora bambini. Ho allineato nastri e supporti sulla mensola con minuzia maniacale, come per ripulire il turbamento che quei frammenti di semplicità, quelle voci squillanti mi hanno di nuovo provocato. Non li riguarderò più. I vecchi video mi fanno troppo male.

Perché mi prende sempre lo stesso nodo allo stomaco? Perché interrompo bruscamente sul pc la visione dei nostri piccoli che sguazzano in vasca, cosa mi lacera in Elisa che sgambetta a Formentera nel 2003? In quale disagio mi avvolgono le vocine di Tommaso e Federico in mezzo alla neve, e l’intuire il mio stesso disagio nel silenzio di Sandra che mi è accanto?

Non è il tempo trascorso, sarebbe troppo facile e molto banale. Se così fosse non sfoglierei rapito, come invece faccio, le fotografie degli stessi anni e persino di quei medesimi istanti, sforzandomi di rincorrere e afferrare un ricordo che vola via. Mi rinnamoro degli album e mi accoccolo nella nostalgia per le foto stampate. Ne inseguo il contesto, rovisto nella memoria. Ma se solo mi si presenta il film esatto di quei momenti rovesciato in un cd, se solo subisco le azioni e le voci e i rumori nel loro preciso svolgersi, non reggo l’impatto. Non succede solo a me. Quel ch’è commovente in un’istantanea diventa doloroso e straniante in un flusso d’immagini. Non le voglio più vedere. E dunque, perché?

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La prima e immediata risposta che mi do è il movimento. Le nostre figure si muovono e agiscono nello spazio, fanno e dicono qualcosa. Riempiono la scena di vita. Sono quindi più realistiche, ci assomigliano di più. In fondo la foto non lo è affatto, poiché fissa un istante che non percepiamo nemmeno e anzi, nel solo atto di scorgerlo, è già trascorso: nella sua staticità la fotografia mi pare finzione assoluta. Eppure non è esattamente così. La figurina di Tommaso nella stampa un po’ sgranata, in posa con il secchiello in mano, è proprio la sua figurina. Il primo dentino che ha perso, finestrella nera che ne adorna il sorriso, è proprio quello che aveva. E i miei capelli un po’ più lunghi, nella foto in cima al monte, me li ricordo bene.

Ho fatto anche due prove al contrario, con uno dei video che poi ho riposto. Prima ho stoppato il filmato in un punto casuale: il fermo-immagine è immediatamente diventato una fotografia, la sua fissità un motivo di curiosità e d’indagine nella memoria. Il malessere s’è asciugato, come accantonato dal lavoro di scavo del ricordo. Poi ho fatto ripartire il video e poco dopo ho chiuso gli occhi allo scorrere delle immagini, per annullare la percezione del movimento. Ma il nodo allo stomaco non se n’è andato: impossibile che accadesse, con quelle voci che si sovrapponevano e quei rumori d’ambiente e di vita quotidiana e l’aria soffiata a tutta forza sulle candeline.

Ecco allora la risposta, mi sono detto: le voci. Quelle dei bambini non hanno più a che fare con loro tre oggi, giovani adulti in giro per il mondo. Persino quella di mia moglie e dei nostri amici Michele e Fabiana non è esattamente la stessa: riascolto i loro toni vibranti, oggi sono più pastosi e posati. Suona tutto un po’ strano, mi sento a disagio. Le foto invece stanno zitte e non hanno voce, non possono turbarmi.

Purtroppo neanche questo spiegava tutto. Ho fatto un’altra prova togliendo l’audio al video che scorre. Ma il nodo allo stomaco era sempre lì. Rivedevo la loro, la nostra vita scivolare muta, tutti noi nello spazio come se lo stessimo occupando in questo momento. E di nuovo mi sono sentito a disagio. I ricordi mi venivano addosso.

Quelli siamo e non siamo noi, irrompiamo nel presente, sembriamo provenire da una macchina del tempo e tracciamo, nel nostro stesso agire, uno scenario disturbante. Io sono fermo adesso, sono in silenzio, e ci sto osservando mentre ci muoviamo e ridiamo. Incrocio due realtà, quella di questo momento e quella che osservo, e tra le due il tempo si annulla. Il problema non è quanto ne sia passato. È che quel tempo trascorso, in questo preciso istante, è scomparso. Mi sembra di avere due tempi presenti, quello che vivo e quello che osservo. E questa comunanza non mi è data, è spaesante e non la so elaborare. È semplicemente un’esperienza impossibile.

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Comprendo così che il mio malessere non viene dal movimento, o dalle voci, o dal contesto, o dal tempo che non è più; ma dal fondersi di tutto in uno spezzone di vita completa, che osservo proprio mentre sto vivendo il mio tempo attuale. Il video restituisce dal passato un trascorso integrale che non possiamo ricondurre al presente. Non lascia spazio all’immaginazione, è conclusivo e definitivo, ha persino una sua mortalità perché le persone di quel momento, i noi di allora, così come agivano, non ci sono più.

La fotografia mi pare l’esatto opposto. La sua staticità apre spazio all’immaginazione, carezza il ricordo, invita a frugare nella memoria. Non ha la pretesa del video di dire tutto. Schiude qualcosa, costringe a elaborare, mentre il video nella sua compiutezza preclude ogni possibilità. Il filmato chiude: la foto apre. La foto è discreta e non rivendica un diverso presente. Ma soprattutto sta confinata nel passato, sta lì come traccia, distinta nel tempo da me che la guardo. Il video, con questa rivendicazione, dà le vertigini.

Del carico emotivo indotto dalle immagini in movimento si sono occupate anche le neuroscienze. Molti studi suggeriscono che l’emozione – e quindi, ipotizzo, anche il mio malessere – derivi dall’interazione e dalla sinergia di due parti del cervello situate nel sistema limbico, che ne è una delle strutture più complesse e profonde: l’amigdala, che regola sia l’elaborazione delle emozioni sia la cosiddetta memoria emotiva, così influenzando il comportamento; e l’ippocampo, che guida la formazione della memoria sia episodica (la volta che mio figlio ha perso il dentino), sia contestuale (me lo ricordo bene con il secchiello sulla spiaggia), sia a lungo termine (la memoria diventa parte del vissuto con la mia famiglia).

In uno studio del 2004 per la Duke University con altri colleghi, il ricercatore Florin Dolcos, oggi docente di psicologia e neuroscienze all’Università dell’Illinois, sottopose un gruppo di persone alla visione di vari audiovisivi (con immagini positive, negative o neutre) e analizzò poi la loro attività cerebrale con tecniche di risonanza magnetica. Dimostrò così che gli audiovisivi a forte impatto evocativo – come ovviamente quelli legati alla proprie esperienze familiari – attivano maggiormente queste aree cerebrali, determinando una più forte e indelebile risposta emotiva.

La neuropsicologa neozelandese Donna Rose Addis dell’Università di Toronto sostiene, invece, che la memoria autobiografica (per esempio stimolata da un audiovisivo) è cruciale anche per la capacità d’immaginare il futuro: per proiettarsi nel domani è necessario recuperare le esperienze pregresse. È come se lo spaesamento indotto dal rivedersi nel passato fosse più facilmente elaborabile in chiave futura: i nostri figli continueranno a crescere, e noi e i nostri amici diventeremo un po’ più vecchi.

Il nesso tra immagini e memoria, non solo emotiva, è al centro di alcuni dei libri più importanti del Novecento. In L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, saggio scritto tra il 1935 e il 1939, mentre era esule a Parigi in fuga dal nazismo, il filosofo ebreo tedesco Walter Benjamin si soffermò sull’effetto “qui e ora” delle immagini in movimento capaci di annullare la distanza temporale (e di essere sfruttate dai totalitarismi). Nel 1973, in Sulla fotografia, la scrittrice e filosofa americana Susan Sontag esplorò il ruolo delle immagini nella capacità d’influenzare la memoria, negandone la neutralità. E il critico francese Roland Barthes, nel saggio La camera chiara del 1980, distingue nettamente tra la fruizione razionale e quella emotiva dell’immagine riprodotta.

In anni più recenti lo scrittore inglese Geoff Dyer – che peraltro ha curato un altro classico sul tema: Capire una fotografia di John Berger – ha indagato la storia della fotografia nel libro L’infinito istante del 2005 e la suggestione quasi ossessiva indotta dalle immagini cinematografiche, in particolare nel romanzo Zona interamente dedicato alla visione del film di fantascienza Stalker di Andrej Tarkowskij.

Il rapporto tra vista e memoria volontaria e involontaria è un tema cruciale nella letteratura del Novecento, anche a causa della proliferazione prima industriale, poi digitale delle immagini (la loro “riproducibilità tecnica”, appunto). Se a suscitare la memoria involontaria è, soprattutto, il senso dell’odorato, il riemergere del passato si àncora sempre alla vista, che è il senso della memoria volontaria. Scrive Marcel Proust, nel primo volume di Alla ricerca del tempo perduto, dopo aver ritrovato “il tempo perduto” nella petite madeleine con cui accompagna il tè: «Ciò che palpita così in fondo a me dev’essere l’immagine, il ricordo visivo, che, legato a quel sapore, tenta di seguirlo fino a me».

E i video e le foto di oggi? Con quali occhi riguarderemo, tra dieci o vent’anni, quel che oggi filmiamo e fissiamo con lo smartphone? Come apparirà quello che ogni giorno mettiamo su Instagram (sempre che Zuckerberg non decida un giorno di cancellarlo)? Il telefonino ha trasformato foto e video, un tempo prodotti di attività saltuarie e programmate, in pratiche di ogni giorno, da condividere sui social e perlopiù dimenticare un attimo dopo, quando saremo già passati ad altro.

La gran parte delle fotografie e dei video che realizziamo, non la riguardiamo neppure: ci limitiamo a postarla, ma prima ancora a fissarla, quasi che il postare sia un’estensione del riprendere, del catturare l’immagine. Poi spariscono, inghiottiti nella memoria dello smartphone e della rete. Un immenso archivio in cui tutto, in qualche modo, diventa presente. Anche le immagini vivono così in un “presente assoluto”, una disponibilità perpetua che le attualizza costantemente al qui e ora, comprimendone la proiezione dal passato ma anche la realizzabilità futura, da cui ci separa un solo tocco dell’indice.

Chissà se i video, a distanza di tempo, manterranno l’impatto straniante che, oggi, hanno i filmini. In fondo per quelli è cambiato poco, solo l’immediata disponibilità del mezzo e la velocità con cui possiamo archiviare la realtà che ci scorre davanti. La loro casualità accrescerà la sorpresa nel rivederli e proveremo disagio nel ritrovare noi stessi in piccoli brani di vita che avremo nel frattempo dimenticato? E le fotografie conserveranno la loro potenza evocativa? Solleciteranno l’ippocampo a memorie più rassicuranti? Magari saremo tornati ogni tanto a stamparle, come sembra suggerire la rinascente nicchia di mercato per i rullini e le immagini analogiche. Forse le maneggeremo con ritrovato piacere tattile e un rito caloroso, come qualcuno sceglie di fare nella musica con il vinile.

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