Perché ci piace il lusso
«È un concetto sfuggente che si colloca tra utile e superfluo, etica ed estetica, visibilità e interiorità. Ma a partire dal Settecento, c'è qualche spiraglio e qualche punto fermo. Pesci, vestaglie e api ci vengono in aiuto. Iniziamo dalle api»

Tre anni fa, mio figlio – oggi felicemente laureato – ha annunciato con entusiasmo che voleva specializzarsi in luxury marketing. Da filosofa, non riuscivo a immaginare un mondo più lontano dal mio. Anche per questo, l’anno successivo ho preso parte a un prestigioso progetto PNRR-MUSA (Multilayered Urban Sustainability Action), collaborando in particolare allo Spoke 5, intitolato Sustainable Fashion, Luxury and Design, un laboratorio universitario che si proponeva di mettere in dialogo il sapere umanistico con l’innovazione tecnologica applicata al settore del lusso. È stato allora che mi sono detta: se il lusso continua a interpellarmi, forse è il caso di prenderlo sul serio.
La filosofia e in particolare l’estetica, per ragioni che affondano tanto nella sua storia quanto nella sua struttura etico-teoretica e nelle sue predilezioni, esplicite o implicite, ha sempre trattato il tema del lusso con cautela, quando non con sospetto. Se il lusso è oggetto di innumerevoli elaborazioni teoriche in ambiti come la sociologia, l’economia, il marketing o i cultural studies, le riflessioni filosofiche sono sporadiche e spesso confinate ai margini di considerazioni morali o di economia politica. Fare filosofia del lusso significa prima di tutto partire dalla domanda fondamentale: che cosa è il lusso? Noi tutti pensiamo di saperlo, eppure ci sfugge. Non basta cavarsela scrivendo, come voleva Voltaire, che è una parola cui non corrisponde un’idea precisa. La prima domanda da farsi è proprio perché al concetto di lusso non si accompagni una definizione esauriente.
L’elusività del lusso deriva dalla sua natura intrinsecamente ambivalente, che si colloca su soglie instabili tra utile e superfluo, tra etica ed estetica, tra visibilità e interiorità. È una costellazione di pratiche, valori, simboli e desideri in continua negoziazione. Da un lato il lusso si configura come linguaggio sociale, un sistema di segni che costruisce e comunica distinzione, esclusività ma anche appartenenza: è una grammatica precisa di oggetti, gesti, materiali e rituali.
Dall’altro si definisce soggettivamente come un diverso rapporto con il tempo: è tempo sottratto alla funzionalità e alla produzione, tempo rallentato, contemplativo, performativo. In questo senso il lusso si avvicina all’esperienza artistica: non si esaurisce nel possesso, ma vive nella percezione intensificata. Non si può dimenticare neppure che il lusso ha un portato storico carico di tensioni morali e ideologiche: è stato condannato come vizio e celebrato come virtù, visto come spreco oppure come dono, come forma di alienazione o come espressione di libertà.
Oggi, poi, il lusso ha assunto forme inedite. Sempre meno legato esclusivamente all’oggetto, si manifesta anche come esperienza vissuta ed emozione esclusiva, perfino in assenza di una materialità tangibile, cioè di beni e consumi. La sua natura è sempre meno legata al solo oggetto materiale e sempre più a una costruzione culturale, percettiva e relazionale, resa possibile da trasformazioni profondissime nei modi di produrre, comunicare e desiderare: intelligenza artificiale, design digitale, artigianato assistito da software, realtà aumentata, NFT portano il lusso verso una personalizzazione estrema. Il lusso, cioè, oggi può anche trovarsi all’incrocio tra estetica, tecnologia, globalizzazione e digitalizzazione.
– Leggi anche: Ora non ci si vergogna più di indossare prodotti falsi
Infine, il lusso è legato all’immaginario e le piattaforme social hanno reso infinitamente visibile, replicabile e soprattutto desiderabile ciò che prima appariva esclusivo, qualcosa a cui, quindi, non si poteva neppure aspirare. Il lusso diventa così anche narrazione digitale, contenuto estetico da condividere, algoritmo che seleziona e influenza i gusti. Esistono oggi forme di lusso completamente immateriali: un’esperienza esclusiva su un’app, l’accesso a una community, un evento in streaming a numero chiuso, ecc.
In questa confusione, però, a partire dal Settecento si vede qualche spiraglio e qualche punto fermo.
Pesci, vestaglie e api ci vengono in aiuto.
Iniziamo dalle api. Nella Favola delle api – un poemetto composto inizialmente nel 1705, poi ampliato, e che ebbe una grandissima eco – il filosofo olandese Bernard de Mandeville immagina un alveare popolato da api antropomorfe, impegnate in vari mestieri e soprattutto dedite al lusso, alla vanità, all’avidità. Proprio grazie a questi vizi, la società delle api è prospera, economicamente e culturalmente vivace. Ma la festa finisce. Le api, un bel giorno, decidono di diventare virtuose, cioè oneste, parsimoniose, altruiste. L’economia si blocca, la produzione si arresta, l’alveare si spopola.
Voltaire si entusiasma dell’idea di Mandeville e la sostiene in Francia e la diffonde in Europa: i comportamenti viziosi dei singoli generano benefici per la collettività perché creano lavoro, stimolano la produzione, alimentano il progresso. Scardinata qualsiasi recriminazione morale, il lusso è un motore essenziale della vita sociale ed economica.
Le vestaglie. Circa cinquant’anni dopo Mandeville, nel breve saggio Regrets sur ma vieille robe de chambre, Diderot racconta la disperazione di aver ricevuto in regalo una nuova e lussuosissima vestaglia rossa in sostituzione della sua logora e comodissima. La nuova vestaglia gli sta benissimo, è piacevole al tatto e di un colore splendido, ma è completamente in disarmonia con il suo studio: la scrivania, la sedia, la tappezzeria, ecc. Nel tentativo di ristabilire un nuovo equilibrio, nuovi rapporti e un nuovo stile, Diderot inizia a sostituire ogni oggetto del suo studio con elementi più eleganti e soprattutto più costosi, finendo presto per indebitarsi, sentirsi infelice e perdere la propria autenticità.
Il lusso può essere una trappola, una coercizione. Al contrario di quanto oggi si tende a pensare – ovvero che il lusso sia libertà o, almeno, “prendersi la libertà di…” – il principio di Diderot, ripreso anche da alcuni sociologi contemporanei, vede il lusso come un consumo compulsivo che non dà mai soddisfazione, perché costringe a diventare altro da ciò che siamo. Mostra il conflitto tra autenticità e rappresentazione, sottile dilemma alla nascita di quella sensibilità borghese, descritta da Diderot, che arriva fino a noi.
– Leggi anche: Cos’è il Dubai chocolate, che sta facendo finire il pistacchio
Veniamo a Pesci o, meglio, al sig. Pesci. Si tratta di un ricordo personale. Siamo negli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso. Il sig. Pesci, che abitava e lavorava a Como come commesso, spendeva ogni anno un mese del suo stipendio (senza farne partecipi moglie e figli) per trascorrere una notte e un giorno in una delle suite di Villa d’Este, lussuoso resort sul lago di Como che peraltro vedeva ogni giorno andando al lavoro. Pesci, senza saperlo, incarnava un esempio di lusso descritto da Lambert Wiesing nel suo saggio Luxus del 2015.
Il lusso, in questo contesto, è un’esperienza sensibile potenziata, che eccede il necessario e produce un piacere superfluo ma estremamente significativo per il soggetto. Al contrario della coercizione del lusso individuata nel meccanismo indotto dalla vestaglia di Diderot, il sig. Pesci viveva una nuova modalità di costituire la sua relazione con il mondo, lontana da un consumo solo utile o funzionale.
Si tratta, in generale, di un’esperienza estetica autonoma, svincolata da considerazioni sociali come prestigio o status. Il lusso non è definito dall’oggetto in sé, ma dalla modalità con cui il soggetto si relaziona a esso. È un possesso che trascende l’utilità, offrendo una forma di consapevolezza e libertà individuale. In sintesi, il lusso sfida la logica utilitaristica.
Api e Pesci non vanno dunque d’accordo: se per Mandeville il lusso è simbolo di abbondanza e floridità ed è utile al benessere della società, per Wiesing il lusso è o, meglio, deve essere, profondamente inutile, superfluo, irrazionale, tanto da permettere al soggetto di affermare la propria umanità e libertà, opponendosi alla razionalità funzionale della vita quotidiana. Il lusso, allora, non è più un indicatore di uno status sociale, come lo era per la nascente borghesia alla quale si rivolgeva Diderot, ma un’esperienza solo e unicamente soggettiva, e infatti ciò che per un individuo costituisce un’esperienza di lusso può non esserlo per un altro.
Il limite di questo approccio è l’estensione del concetto di lusso, che può spingersi fino al paradosso. La mia libertà potrebbe spingermi a intendere per lusso un anticonformismo e un antiutilitarismo assoluti, tanto da scegliere di non avvalermi di nessuna risorsa economica per la mia sopravvivenza, chiedendo l’elemosina solo per poter nutrirmi e coprirmi. Se il lusso, almeno nell’immaginario comune, s’identifica non tanto con il benessere quanto con il dispendio legato al benessere – dalle feste di Gatsby alla crociera extralusso ai Caraibi raccontata da David Foster Wallace – la vita di un senzatetto rappresenta l’esatto opposto. Eppure, portando alle estreme conseguenze l’ipotesi di Lambert Wiesing, può trasformarsi in lusso.
Non esiste un’esperienza soggettiva isolata. È inevitabile che ogni esperienza sia intrecciata con l’immaginario collettivo e anche con l’immagine che pensiamo gli altri abbiano di noi. Togliere questi elementi dal concetto di lusso può essere un errore, trasformandolo in altro. Indossando la sua vestaglia rossa, Diderot aveva interiorizzato uno sguardo esterno, un osservatore sociale immaginario, che lo spingeva a spendere tutto il suo patrimonio pur di adeguarsi e conformarsi a un’idea di lusso ormai assimilata e fatta propria.
Per questo Theodor Adorno, un altro filosofo, affermava esplicitamente che l’apparire davanti agli altri è essenziale per comprendere il valore del lusso. Il lusso rivela una dialettica tra egoismo e altruismo: il desiderio di mostrare la propria felicità contiene in sé il riconoscimento che la felicità individuale è connessa a quella collettiva.
– Leggi anche: Quanto detesto gli yacht eco-friendly
Proviamo ora a confrontare il lusso con alcuni assunti dati per scontati dall’immaginario comune.
Primo: lusso e confort. Il lusso non è necessariamente confort. Il confort è sensorialmente piacevole mentre il lusso potrebbe addirittura essere scomodo (dagli alti stivali di vernice che non si adattano alla gamba ai sandali gioiello che il piede può sopportare per non più di dieci minuti…).
Secondo: lusso e prestigio. Il lusso non è necessariamente prestigio, ma necessita di riconoscimento interno ed esterno, perché si fonda su una dinamica sociale e simbolica che esige legittimazione. Vero è che una casa costosa può elevare il prestigio di chi la possiede, ma non è automaticamente lussuosa. Eppure, il lusso implica una forma di dipendenza dallo sguardo, dove tale sguardo è anche quello dello stesso soggetto.
Terzo: opulenza e ostentazione. Non sono necessariamente sinonimi di lusso, ma il lusso li adotta. L’esperienza del sig. Pesci, sebbene silenziosa (se la moglie lo avesse saputo, il poveretto avrebbe passato dei brutti momenti), portava con sé il segno dell’opulenza, almeno per un giorno. Lo sfarzo può esserci, ma bisogna capire se è condizione sufficiente e necessaria. Concluderei che è una componente.
Se, per esempio, togliessimo al lusso tutti gli elementi che ne fanno un elemento immediatamente riconoscibile (emulazione, prestigio, scopo performativo, opulenza, ecc.) e ne facessimo solo un eccesso fine a sé stesso, un’esperienza prettamente soggettiva che non serve a nulla, rischieremmo di snaturarlo. Sicuramente ci risulterebbe molto più ‘simpatico’, avendolo escluso da qualsiasi componente morale o anche solo giudicativa. Tuttavia, quello che è certo è che la società di oggi ci indirizza verso un lusso che non è solo possesso, ma piuttosto una disponibilità esperienziale eccessiva e/o estremamente dispendiosa.
Possiamo allora chiederci se l’espressione “prendersi il lusso” (di sbagliare, di rallentare, di dire no, di sparire) possa essere sinonimo di lusso in senso stretto. Se il lusso è un atto performativo, legato a uno sforzo irrazionale, un gesto gratuito e una pausa dal ritmo funzionale della vita, un’autoaffermazione giustificata solo dal desiderio personale, allora ‘prendersi il lusso’ può essere considerato parte del lusso stesso. Tuttavia, il lusso non ha per sua natura una valenza etico-politica profondamente trasformativa; piuttosto, è pienamente inserito nel suo tempo. È difficile intendere il lusso come resistenza al dominio dello status quo, rivendicando un uso del tempo, del corpo o della parola non solo differente, ma del tutto originale e innovativo rispetto a quello interiorizzato nella società in cui si vive. Parlare di un lusso rivoluzionario è quindi molto difficile.
Piuttosto, mi chiedo se il lusso non sia invece immancabilmente legato al kitsch: scarpe, borse, abiti con loghi oversize, dove il marchio sostituisce completamente il gusto per l’oggetto, o un lusso “Instagram-ready”, con outfit costosissimi e usati una volta e via. Quando il lusso diventa kitsch è esclusivamente stereotipo e originalità prefabbricata, priva di elaborazione personale. Non è affatto raro, anzi. Appariscente come deve essere, il lusso-kitsch viene subito riconosciuto e spesso imitato. D’altra parte, l’emulazione è intrinseca al concetto di lusso. Il desiderio di accedere all’aura esclusiva del lusso, anche senza possederne la sostanza, sta alla base perfino delle scelte del sig. Pesci.
L’emulazione è motore di molti consumi ‘pseudo-lussuosi’, in cui si imita la forma del lusso (la bella apparenza, il prestigio sociale, il simbolo), ma non se ne comprende né se ne ricerca la qualità e il ‘valore’ (la bella techne, cioè la cura del dettaglio, il rispetto della materia, il lavoro nel tempo). Si tratta di un ‘consumo vistoso’ che spinge a emulare modelli irraggiungibili per ricchezza e dispendio. In questo caso, il lusso decade a pura apparenza.
Il lusso ovviamente è anche sperequazione e disuguaglianza. Si consideri il solo esempio del cibo: l’élite, che può “permettersi il lusso”, accede a tavola a benefici reali e inaccessibili a chi non dispone di analoghe risorse economiche. Non si tratta, in questo caso, del tartufo bianco o dell’oro commestibile – esempio di kitsch gastronomico privo di valore gustativo – bensì della possibilità di alimentarsi con materie prime di assoluta eccellenza, coniugando nutrimento e piacere, in netta opposizione alla diffusione del cibo spazzatura.
D’altra parte, il lusso necessita di essere raro e non facilmente replicabile. Paradossalmente, però, ogni oggetto o gesto di lusso, una volta esibito, può trasformarsi in un modello imitabile e perdere così la propria aura.
Non penso che il lusso possa assurgere a una tensione critica né che debba avere una vocazione esclusivamente etico-estetica. In questo senso, il lusso sfiora il kitsch, che lascia sempre le cose come stanno. Tuttavia, se il lusso lo sfiora, non può precipitare nel kitsch, trasformandosi in una caricatura decadente, priva di misura e soprattutto di consapevolezza. Il lusso non deve ridursi a cliché, a conformismo estetico o a mero strumento di riconoscimento, anche se non è facile liberarlo da queste etichette.
Il lusso, nella sua inutilità almeno apparente, dovrebbe sempre tenere insieme stile e giudizio critico.
In conclusione, se il lusso è una categoria storicamente e culturalmente variabile, se rimanda a una soggettività che ha tuttavia interiorizzato forme di gusto e stile condivisi e, infine, se eccede ogni logica funzionale proiettandosi verso l’inutile, il superfluo, l’eccesso, è evidente quanto sia complesso fornirne una definizione univoca senza tuttavia che venga meno la possibilità di inquadrarlo e descriverlo all’interno dei suoi estremi.
Concludo con un’altra nota personale. Mio padre aveva un’idea di lusso che avrebbe probabilmente messo in crisi le categorie di questo breve scritto. Mi diceva: Pensa che bello andare in giro in Cinquecento, sapendo di avere una Volvo biturbo in garage. Il lusso non coincideva con l’esibizione, ma con la consapevolezza della possibilità di. Un lusso silenzioso che si affermava più nel “sapere di” che nell’apparire. Papà non comprendeva le dinamiche del signor Pesci, molto più giovane di lui. Aveva vissuto gli anni della guerra, e per questo il vero lusso – l’unico che sentiva legittimo – era il granaio pieno: la sicurezza, più che l’apparenza. Il lusso, nella visione di mio papà, non coincideva con lo spreco o con l’ostentazione, ma con la possibilità di scegliere la sobrietà sapendo di non esserne costretti. Una libertà interiore, che sfuggiva alla logica performativa del consumo visibile.
Lambert Wiesing direbbe oggi che questo non è lusso: non è sospensione di ogni funzione, l’inutile che si afferma come tale. Eppure, io non ne sono così sicura. Quel granaio pieno contiene probabilmente una forma di lusso diversa: non ornamento, ma possibilità. Un lusso che è una sensazione di libertà interiore, silenziosa ed estremamente appagante.
* Questo testo nasce anche grazie ai saggi di Claudio Rozzoni, Alice Barale, Andrea Scanziani, Marco Franceschina e Gregorio Fiori Carones, che compongono il libro Estetica del lusso curato dall’autrice.
– Leggi anche: La brandizzazione del mare (e della terra)