Quanto dovrebbe costare un caffè al bar?

In Italia pensiamo di saperla lunga su una bevanda che in realtà consumiamo generalmente male e paghiamo troppo poco

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Ad aprile il ministero delle Imprese e del Made in Italy ha divulgato alcuni dati che mostrano quanto il prezzo di un caffè al bar sia aumentato nei capoluoghi di regione italiani negli ultimi tre anni. Nel 2021 un caffè costava mediamente 1 euro e 3 centesimi. In diverse città costava meno di un euro e in nessuna città più di un euro e 20: quello più costoso era a Bolzano, mediamente venduto a 1,18 euro. Nel 2024 il costo del caffè è aumentato parecchio e 1,18 euro è diventato il prezzo medio, con diverse città in cui si supera l’euro e 20, come Bolzano, Trento, Trieste, Pescara, Bologna, Torino e Venezia. Oggi l’unico capoluogo in cui si spende meno di 1 euro per il caffè è Catanzaro, dove la media è comunque di 99 centesimi.

«Questo significa», ha scritto Assoutenti, associazione di consumatori che ha elaborato i dati del ministero, «un aumento del 14,9% per quella che è una tradizione quotidiana irrinunciabile per milioni di cittadini». Il caffè espresso al bar è effettivamente una delle tradizioni più radicate in Italia, e altrettanto radicata è l’idea che il suo prezzo non dovrebbe discostarsi più di tanto da un euro. È una convinzione però totalmente irrealistica – e da ben prima del 2021 – giustificata da un approccio poco consapevole a questa bevanda, e dal modo piuttosto unico e bizzarro che abbiamo di consumarla noi italiani.

L’aumento del prezzo del caffè avvenuto negli ultimi anni è dovuto a diversi fattori: un generale aumento del costo dei trasporti che ha riguardato tutto il commercio mondiale, ma anche un aumento del costo della materia prima che va avanti da alcuni anni e che si prevede che continuerà.

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In generale il caffè è da sempre un prodotto costoso, perché viene da una pianta particolarmente delicata coltivata in specifiche condizioni ambientali in alcune regioni di America Latina, Asia e Africa, e potrà diventarlo ancora di più per via degli effetti del surriscaldamento globale. Nelle ultime settimane, per esempio, le quotazioni in borsa del caffè Robusta sono aumentate per via del clima eccezionalmente arido in Vietnam e lo stesso è successo per quelle del caffè Arabica, il più popolare in commercio, che viene prodotto in parte in Brasile, dove quest’anno il meteo è stato particolarmente altalenante con conseguenze sulla produzione.

Oltre a richiedere particolari condizioni climatiche, il caffè ha una filiera lunga dal punto di vista geografico (sicuramente per chi lo beve in Italia), ma anche da quello dei processi e dei tempi di produzione: «dalla fioritura e dalla maturazione del frutto, passando dal raccolto, il processamento, il trasporto, la tostatura, fino al bar, passano minimo 14 mesi» spiega Andrej Godina, esperto di caffè e autore di libri e documentari sul tema tra cui l’ultimo, Guida dei caffè e delle torrefazioni d’Italia.

Il costo di questa lunga filiera è una cosa di cui abbiamo esperienza quando vediamo il prezzo del caffè al supermercato, ma che facciamo generalmente fatica ad accettare quando lo beviamo al bar, che come attività ha tra l’altro tutta una serie di costi di cui deve rientrare, dall’affitto, ai consumi, al costo del lavoro.

«Il problema è che in Italia si è affermato un sistema per cui i bar vendono il caffè sottocosto per “attrarre” clienti, ma il vero profitto lo fanno sulle altre cose che poi questi clienti consumano», dice Godina. «In sostanza, non esiste un bar che si regga economicamente sulla sola vendita del caffè: se vendessero solo quello perderebbero dei soldi. Quindi a prescindere da tutto servirebbe aumentare il costo della tazzina di caffè anche solo per renderlo profittevole: indicativamente, in un bar medio il prezzo minimo per guadagnarci qualcosa è attorno a un euro e 50»: decisamente sopra la media italiana. Questa dei bar è una strategia che funziona e che teoricamente non ha nulla di sbagliato, ma che ha contribuito a diffondere una percezione del tutto errata del valore del caffè in chi lo beve tutti i giorni.

In Italia il caffè al bar si prende spesso al bancone, quindi in piedi, prima di andare al lavoro, dopo aver portato i figli a scuola, a metà mattina per fare una pausa, o dopo pranzo con l’idea che ci terrà svegli nel pomeriggio. Anche se negli ultimi anni si sono diffusi molto anche altri modi di bere il caffè (per esempio nel bicchierone all’americana), il caffè che si beve al bar è nella maggior parte dei casi espresso, quindi molto corto e concentrato, e si beve solitamente in uno o due sorsi, cosa che rafforza la convinzione comune che non debba costare più di un euro.

Una cosa che fa notare Godina, e che conferma anche Alberto Grandi, docente dell’Università di Parma e autore del libro La cucina italiana non esiste, oltre che del podcast DOI – Denominazione di Origine Inventata, dedicato ai falsi miti della cucina italiana, è che il caffè che si beve in Italia è anche eccessivamente tostato, a volte al punto da essere bruciato. Le torrefazioni che lo lavorano infatti puntano a ottenere un prodotto standard, molto amaro, che è quello che piace ai consumatori, ma che non ha bisogno di materie prime di alta qualità perché di fatto molti aromi vengono coperti dalla tostatura. Il risultato è che, oltre a berlo velocemente e in piedi, in Italia siamo generalmente abituati a un caffè non particolarmente buono, contrariamente a quanto vuole una diffusa credenza secondo cui, al pari di altri prodotti fondativi della gastronomia italiana, sarebbe tra i migliori del mondo.

Originariamente però il caffè viene prodotto in un’amplissima varietà di miscele e qualità, e non sarebbe così assurdo trovarne di diverse nel menù di un bar, magari anche con prezzi diversi. «Faccio spesso il paragone col vino perché lo trovo molto efficace per capire come il nostro approccio al caffè potrebbe essere diverso», dice Godina. «Nei bar viene servito un solo tipo di caffè, e a nessuno verrebbe in mente di chiedere al barista che caffè offre, che ricetta (la temperatura dell’acqua, la dose di caffè) o che miscela ha scelto, se sa di cacao, panettone, frutta o ha note speziate: il barista nella maggior parte dei casi non sa cosa offre, e non sapendo raccontare il prodotto contribuisce a svalutarlo nella percezione del cliente». Nella maggior parte dei casi far pagare un caffè un euro e 50 suscita indignazione, mentre è assolutamente accettato che un bicchiere di vino possa avere prezzi diversi – e anche molto più alti – in base alla qualità.

Un’altra cosa a cui non pensiamo, dice Godina, è che «il caffè è fatto sul momento, richiede minuti di tempo del barista e una macchina, non è una bibita pronta. Il sommelier invece stappa una bevanda già confezionata: certo deve stare attento a conservarla alla giusta temperatura e scegliere il bicchiere, ma per il resto è già tutto pronto». Eppure i margini di ristoranti e vinerie sul vino sono decisamente superiori a quelli sul caffè al bar, che come dicevamo spesso non ci sono proprio.

Il modo sbrigativo di bere il caffè, spesso senza particolare attenzione al gusto ma semplicemente mandandolo giù come un rimedio per svegliarsi, che c’è in Italia «è piuttosto unico al mondo», dice Grandi. «Soprattutto se pensiamo a come viene bevuto in altri paesi: dal caffè americano, che può durare anche ore, a quello arabo, che si sorseggia con tutta una sua ritualità simile a come viene fatto col tè, o quello che si beve in Turchia, che richiede una preparazione lunga».

Nonostante tutto questo però il caffè espresso del bar è ancora considerato da moltissimi un prodotto a cui non si può rinunciare, soprattutto per via della grande tradizione che si porta dietro e della narrazione che l’ha reso nel tempo uno dei prodotti italiani per eccellenza. Nelle case, dove un tempo il caffè si faceva solo con la moka, quindi più lungo e diluito di quello del bar, si sono diffuse sempre di più le macchinette del caffè, a cialde o automatiche, il cui scopo è proprio quello di replicare il caffè espresso che si beve al bar, con costi un po’ più contenuti. In definitiva, con i costi che salgono progressivamente, e se non cambiamo abitudini, dice Grandi, non è da escludere che «da bene di prima necessità il caffè al bar possa diventare un lusso».

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