Quanto costa? È complicato

Per massimizzare i profitti le aziende rendono sempre più difficile sapere con certezza e in anticipo i prezzi di servizi e prodotti, e potrebbe andare peggio

(Daniel Berehulak/Getty Images)
(Daniel Berehulak/Getty Images)
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Le compagnie aeree ci hanno abituati al fatto che quando rimandiamo l’acquisto di un volo per andare da qualche parte accettiamo il rischio di pagarlo di più. I siti su cui si comprano i biglietti aerei sono infatti da tempo regolati da un algoritmo che calcola i prezzi sulla base di quanto le persone sono statisticamente disposte a pagarli, cifra che aumenta più il viaggio si avvicina e più diminuiscono i posti disponibili. È un sistema che si chiama dynamic pricing e che secondo un lungo articolo del giornalista statunitense Christopher Beam uscito sull’Atlantic sarà sempre più la norma anche in altri settori commerciali.

Ma non c’è solo questo: secondo l’approfondimento di Beam negli Stati Uniti (ma molte delle cose che descrive stanno accadendo anche in altri paesi, tra cui l’Italia) sarà in generale sempre più difficile per i consumatori capire chiaramente quanto costa quello che vogliono comprare. Secondo l’articolo in futuro i prezzi saranno, oltre che variabili, anche sempre meno trasparenti, e non è da escludere che un giorno saranno calcolati in modo personalizzato sulla base del singolo cliente.

«Siamo abituati a pensare ai prezzi come statici e universali» scrive Beam. «Certo, possono aumentare con l’inflazione o calare durante i saldi, ma in generale il prezzo è il prezzo, ed è lo stesso per tutti. E ci piace così. Rende i nostri bilanci personali prevedibili e, cosa forse più importante, ci dà un’idea di giustizia. Ma questo assetto è sotto attacco da due direzioni. Il primo è l’offuscamento: la scomposizione dei prezzi in parti e l’accumulazione di tasse. Il secondo è la differenziazione: cioè l’imposizione di prezzi diversi a clienti diversi in momenti diversi».

In realtà, come dicevamo, l’abitudine ad avere a che fare con prezzi variabili è già più diffusa di quanto sembri. Il dynamic pricing, che fa salire o scendere il prezzo dei voli in base a quanto le persone sono disposte a pagare, cominciò a essere sfruttato negli anni Sessanta (quando si cominciò ad alzare i prezzi degli ultimi posti disponibili sui voli sapendo che sarebbero stati comprati all’ultimo momento da persone in viaggio per lavoro disposte a pagarli anche molto) e si diffuse fino a diventare appunto una cosa scontata, che fu poi adottata da altri, per esempio nel turismo e nelle telecomunicazioni.

Con la diffusione di internet è diventato molto più facile per le aziende applicarlo. Il sistema di dynamic pricing più discusso negli ultimi anni è stato quello applicato sui biglietti per i concerti negli Stati Uniti. Ticketmaster, la piattaforma largamente più usata per la vendita di biglietti, aveva infatti introdotto un sofisticato sistema di dynamic pricing che ha portato in molti casi a far salire i prezzi dei biglietti a cifre mai viste prima, fino a migliaia di dollari, con grande scontento da parte dei fan. In Italia il sistema non è stato ancora introdotto in questo settore, ma diversi addetti ai lavori dicono che è soltanto questione di tempo.

Meccanismi meno sofisticati e automatizzati di questi, ma che di fatto funzionano nello stesso modo, sono quelli che fanno salire i prezzi di camere d’albergo e appartamenti in affitto nei periodi in cui per qualche motivo una certa località è molto visitata. Un altro caso di dynamic pricing a cui siamo abituati è quello di Amazon, dove i prezzi variano spesso da un giorno all’altro e non sempre di poco. Secondo Beam è probabile che questo approccio ai prezzi verrà presto esteso anche ad altri settori. Negli Stati Uniti il dynamic pricing esiste già anche nelle catene di ristoranti e fast food, dove i prezzi variano in base alla domanda in determinate ore del giorno e giorni della settimana, o per Uber, la app che offre un servizio a metà tra i taxi e il noleggio di auto con autista, che alza i prezzi delle corse nelle fasce orarie con maggiore richiesta.

Alla variazione dei prezzi dovuta al dynamic pricing si aggiunge quello che Beam chiama “offuscamento” del prezzo finale. Quando si fanno certi acquisti online è diventata sempre più frequente l’esperienza di veder aumentare la cifra man mano che si procede verso il pagamento: vale per gli e-commerce che aggiungono all’ultimo le spese di spedizione, per le compagnie aeree che introducono man mano servizi che un tempo erano inclusi fin dall’inizio, ma anche per i rivenditori di auto con tasse aggiuntive o le piattaforme come Airbnb con le spese di pulizia. Il risultato è che per i consumatori diventa molto difficile, o quantomeno macchinoso, comparare i prezzi di venditori diversi per decidere quale sia il più vantaggioso.

In effetti è in parte anche per questo che l'”offuscamento” è nato, e cioè per confondere i comparatori di prezzi online. Anche in questo caso le compagnie aeree sono state tra le prime ad arrivarci: scorporando il costo del bagaglio e le tasse di viaggio, per esempio, i voli risultavano costare molto meno e questo li faceva comparire prima sui siti che confrontano i prezzi, anche se poi procedendo con l’acquisto la spesa finale saliva e magari superava quella di altre compagnie.

Beam scrive poi che, nella direzione di massimizzare il più possibile i guadagni per le aziende, un’evoluzione ulteriore e molto più controversa – ma anche per il momento meno concreta – sarebbe quella di personalizzare i prezzi in base al cliente.

Beam ne parla come di una tendenza che è ancora un «tabù» ma che «non significa che non stia accadendo», almeno nel mercato statunitense, che ha notoriamente regole meno rigide di quello italiano, dove adattare il prezzo di un prodotto alla persona che vuole acquistarlo è teoricamente vietato dalla legge. Nel caso degli acquisti online la personalizzazione dei prezzi si baserebbe sulla profilazione di utenti e acquirenti tramite i dati raccolti su di loro dalla navigazione sui siti e sulle app dei venditori: gli stessi dati che vengono usati anche per creare campagne pubblicitarie targettizzate, per esempio.

Beam fa ancora una volta l’esempio delle – indovinate? – compagnie aeree, citando un articolo del New York Times secondo cui queste aziende starebbero cominciando a puntare su siti che permettono di offrire agli acquirenti «tariffe personalizzate o offerte non disponibili nel sistema tradizionale», cioè non accessibili a tutti.

Sia il dynamic pricing che un’eventuale personalizzazione dei prezzi sono misure che servono per ottenere da ogni consumatore il massimo che è disposto a spendere. Nella percezione generale sono metodi considerati ingiusti nei confronti dei consumatori, anche se Beam fa notare che secondo molti economisti sarebbero in realtà il risultato di un approccio virtuoso, almeno da un punto di vista puramente teorico.

Intanto perché il risultato è che viene massimizzato il surplus – semplificando molto: il beneficio per consumatori e produttori che deriva dal fatto di fare vendite e acquisti a prezzo di mercato – che in economia è generalmente considerata una cosa positiva. E poi perché, volendola vedere da un altro punto di vista, personalizzare i prezzi significa anche tenerli bassi per le persone che possono spendere di meno.

Allo stesso tempo però altri economisti, tra cui il premio Nobel Angus Deaton, fanno notare come, quando le risorse sono limitate (per esempio perché gli autisti di Uber sono meno di quelli richiesti), razionarle alzando il prezzo (e quindi facendo sì che la domanda si riduca a chi è disposto a spendere di più) sia ingiusto da un punto di vista sociale, perché di fatto esclude chi non si può permettere i prezzi aumentati anche se avrebbe più bisogno di altri di quel servizio o prodotto (per esempio perché non può camminare). In questi casi, secondo Deaton, sarebbe più corretto razionare le risorse in base al tempo, cioè darle a chi arriva primo fino a esaurimento. Il tempo infatti è ugualmente distribuito tra tutti (almeno in teoria), mentre i soldi non lo sono.

Il problema della personalizzazione dei prezzi infatti non è tanto che prevede che ogni consumatore spenda il massimo che è disposto a spendere, ma il fatto che tutto il guadagno vada alle aziende. Questo guadagno peraltro le incentiverebbe a investire più su nuovi sistemi di definizione del prezzo che non sul migliorare il prodotto o il servizio che offrono. Beam scrive che «più i prezzi diventano complicati da calcolare e opachi, più il potere passa dall’acquirente al venditore». Allo stesso tempo però non è da escludere che questo approccio, se portato all’estremo, possa rivelarsi svantaggioso per le aziende più aggressive, perché i consumatori cominceranno a preferire quelle con politiche sui prezzi più trasparenti.

Infine va considerato che non sempre il calcolo di quanto qualcuno sia disposto a spendere corrisponde al calcolo di quanto qualcuno può effettivamente spendere. Un esempio che fa Beam è quello delle università negli Stati Uniti, che offrono aiuti economici e borse di studio agli studenti in modo personalizzato, col risultato che spesso le famiglie più benestanti riescono a condurre trattative più al ribasso rispetto a famiglie meno ricche e istruite.