Il mistero dei saloni per unghie

«Ci vogliono ore e ore di manicure e momenti di silenzio condivisi perché sorga qualche piccola confidenza o un saluto più affettuoso degli altri con le ragazze cinesi che ci lavorano. Ma tra i due mondi rimane una distanza incolmabile. Anche se le pelli si toccano, le persone non si toccano mai per davvero. Un giorno però ho un colpo di fortuna inaspettato. Sara è impegnata. Mi farà le unghie Elena. Una ragazza nuova. Scopro che parla perfettamente l’italiano. E scopro anche, quasi subito, che il mistero è apparente, e scompare se appena guardiamo»

(Annice Lyn/Getty Images)
(Annice Lyn/Getty Images)

«Vorrei farle con Giorgia»
«Giorgia oggi non c’è»
«Ah, sta ancora male?»
«No, ma oggi è a casa»
«A casa qua, o in Cina?»
Silenzio. E poi Giorgia non tornerà più. La scena si ripete con Sara, con la ragazza dai capelli lunghi fino al sedere e con quella con ciocche bianche e nere. Le ragazze cinesi che fanno le unghie sembrano essere lì da sempre e poi, all’improvviso, scompaiono.

Da quando l’agenzia di Banca Intesa sotto casa ha lasciato il posto a uno dei tanti saloni per unghie di Milano, condivido il cortile con le ragazze che ci lavorano dentro. La mattina presto, un paio di loro aspetta fuori dal portone che arrivi la collega che ha le chiavi. Non vogliono aspettare dentro, come se non ne avessero il diritto. Sorridono quando mi vedono, mi chiedono di mio marito e di mio figlio. Scambio con Camilla qualche parola in italiano. È da un po’ che lo studia e vuole farmi sentire i progressi. Lilli, l’unica che lo parla abbastanza bene, sembra più alta delle altre, anche se non lo è. La sera verso le nove la scena si ripete al contrario. La ragazza con le chiavi è l’ultima ad andare via. Mi saluta con la mano mentre esco con il cane. Lo accarezza e gli parla in inglese.

Su un divano grigio, una signora con gli occhi socchiusi accarezza un cane che sembra finto. Una donna inclinata in avanti si toglie le calze, rimbocca i pantaloni e mette a bagno i piedi in una vasca. Un’altra sembra che rida da sola ma è al telefono con le cuffie, perché le sue mani sono dentro due asciugaunghie illuminati da lampadine blu. Per qualche ora questo gruppo eterogeneo di donne si intreccia con quello delle ragazze cinesi, che però rimane compatto. Ci vogliono ore e ore di unghie e momenti di silenzio condivisi perché sorga qualche piccola confidenza o un saluto più affettuoso degli altri. Tra i due mondi rimane una distanza incolmabile. Anche se le pelli si toccano, le persone non si toccano mai per davvero.

Ormai sono quasi due anni che ci vado, ma quello che so di loro, pur avendo cercato ogni volta di approfondire, è poco o niente. Fare domande dirette non pare la strada giusta. Ogni volta che chiedo qualcosa fuori dai soliti come stai, come va, rispondono a monosillabi. Sembrano impaurite, quasi che non credessero di poter essere interessanti senza un altro fine. Sembra, anche, che non vogliano contaminarsi. Le domande incontrano poche risposte. Mi sembra che ci sia un mistero. C’è un muro tra i due universi, ma costruito da chi?

So che scelgono il loro nome in base al gusto. Nomi occidentali perché i clienti possano ricordarli. C’è chi resiste e si tiene quello cinese. Ne ho conosciuta solo una, poi sparita. Le avevo detto fai benissimo a tenerti il tuo nome vero e un secondo dopo, però, non lo ricordavo più. E so che hanno un solo giorno di riposo, il lunedì, e che gli altri lavorano 12 ore. Battono sempre lo scontrino. Non c’è mai un fidanzato che aspetta alla porta né bimbi in giro. Mai visto un uomo salvo il proprietario del salone (anche lui cinese) che ogni tanto parcheggia un po’ defilato il suo suv tedesco e le osserva.

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Camminano come pattinando. Pelle bianca, capelli neri lisci, alcune indossano la mascherina. Imparano a fare le unghie guardandosi. Si aiutano, quando una di loro non capisce una telefonata ne arriva subito un’altra. Segna su un’agenda: mani e piedi semipermanente, alle tre. Ripetono gesti con grande precisione: puliscono i tappi degli smalti con l’acetone perché non si asciughino; sfregano talloni con una lima per rimuovere la pelle morta; ricostruiscono unghie rotte, danno loro forma quadrata, rotonda. La ragazza che risponde al telefono è quella che parla meno l’italiano. Si chiama Francesca è l’ultima arrivata e ancora non sa fare niente, ma presto sembrerà qui da sempre, poi non tornerà più.

In un angolo una ragazza in abiti civili fa pratica. Prima era lei che rispondeva al telefono. Un giorno si ritroverà con l’uniforme, come le altre, e lascerà lo spazio a una nuova ragazza che farà pratica dopo essere stata al telefono.
Sono precise nei movimenti e sanno esattamente cosa fare. Sono a fuoco, sembrano riuscire a vivere nel presente. Mi ricordano il protagonista di Perfect Days, Hirayama, l’uomo che pulisce i bagni di Tokyo. Ognuna di loro è un film a sé.

Le spa per unghie in Italia sono relativamente recenti. Il boom è cominciato intorno al 2007. Il capitalismo inventa bisogni che prima non esistevano, modellando i nostri corpi, gusti e abitudini. Lo aveva già fatto, per esempio, con il “Milady Décolleté”, il rasoio lanciato nel 1915 dalla Gillette per convincere le donne a rasarsi le ascelle come in effetti avrebbero fatto in massa, dopo decenni di pubblicità, dal dopoguerra.

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Roberto Papa, segretario nazionale di Confestetica, mi assicura al telefono che le ragazze cinesi, secondo il contratto collettivo nazionale di lavoro per il settore acconciature ed estetica, dovrebbero guadagnare tra i 1.200 e i 1.500 euro al mese, a seconda del livello, per 40 ore a settimana. Molte, però, non sono regolari, alcune hanno contratti brevi (per questo spariscono), altre guadagnano una parte del loro stipendio in nero. Papa ammette anche che molti gestori cercano con l’aiuto del commercialista dei sotterfugi per aggirare la normativa. Ma non è un fatto specifico, accade spesso in Italia.

Le ragazze girano tra i diversi centri estetici, non solo di unghie ma anche di massaggi. Quando chiedo a Papa come mai ci siano così tanti saloni, mi risponde che basterebbe fare un calcolo matematico semplice: vedere quante donne di età compresa tra i 16 (o anche di meno) e i 70 anni (o anche di più) hanno le unghie fatte (secondo Confestetica sono il 70 per cento della popolazione femminile); e paragonare questo dato alla cifra totale di donne che vivono in Italia, in quella fascia di età. In più c’è tutta la parte che non si vede, la ceretta, i massaggi, e la fetta, anche se ridotta, di popolazione maschile che frequenta centri come quello sotto casa mia.

Quando ci torno, decido di dire la verità: vorrei sapere tutto di loro, ma vorrei saperlo da loro. Scendo e questa volta sono io ad avere paura. Mi sento in soggezione. «Vorrei fare mani e piedi con Sara», dico senza pensare. Ho però un colpo di fortuna inaspettato. Sara è impegnata. Mi farà le unghie Elena. Una ragazza nuova. Scopro che parla perfettamente l’italiano (la seconda dopo Lilli). E scopro anche, quasi subito, che il mistero è apparente, e scompare se appena guardiamo.

Elena mi racconta che è separata e ha due figli. Uno vive con l’ex marito e l’altro con lei. È nata in Italia e dice di tornare spesso nel suo paese anche se sono passati già due anni dall’ultima volta (anche io sono tornata nel mio paese dopo due anni…). Dice anche che non tornerebbe mai in Cina, perché le piace il modo di vivere qua. Mi racconta che non vivono insieme, non sono amiche (siamo colleghe) e non si vedono fuori dal salone. Quando le chiedo se frequenta qualche comunità cinese, sorride e risponde certo che no. Nel vederle così affiatate e apparentemente omogenee ci si fa un’idea sbagliata. C’è chi ha il marito, chi vive ancora con la famiglia, chi non crede nell’amore. «Ma perché cambiate così spesso?», le chiedo e lei sorride ancora: «Ognuna avrà le sue ragioni». Francesca è arrivata tre mesi fa e Sara, quella con maggiore anzianità, sei. Quando le chiedo quanto guadagna, che tipo di contratto ha, abbassa lo sguardo. «No, quello non posso», dice con imbarazzo.

Quel giorno la mia fortuna è doppia. Mentre parlo con Elena, ho accanto a me Nico, la più aperta del gruppo. È a Milano da quattro anni ma in questo centro è arrivata da poco. Parla inglese e pochissimo italiano (infatti appena arrivata rispondeva al telefono). Fa le mani a un signore seduto vicino a me. Anche l’uomo parla inglese ed è curioso di sapere di lei. Mi fa da spalla e riesco ad avvicinarmi ora come non mai. In un dialogo incrociato, il signore racconta che è separato e che ha ritrovato l’amore da poco, da grande. «E tu hai il fidanzato?» Nico risponde che non le interessa e che il matrimonio è sopravvalutato. «A me basta il mio lavoro, mi piace lavorare». Iniziano a parlare delle usanze cinesi e finiscono con i numeri. Nico spiega che in Cina il 4 porta sfortuna perché il suo suono è uguale a quello della parola “morte”. «Infatti in Cina non c’è mai il 4, è tutto 3b o 5-. Neanche il quarto piano c’è», e continua a ridere mentre aggiunge qualcosa in mandarino rivolto a una collega che sta facendo la pedicure a una signora.

L’uomo dice che parla cinque lingue e che gli piacerebbe imparare il mandarino. «Chissà di cosa parlano quando parlano tra di loro», mi chiede girandosi dalla mia parte. Di me, di te, di noi, delle loro cose? Non ho idea. Come dice una tiktoker spagnola, @clara.mmc, che ha registrato un video su un centro estetico di Valencia, in Spagna, visualizzato 500mila volte, «se qualche volta hai pensato che le ragazze cinesi che ti fanno le unghie parlino di te, la risposta più sicura è sì. Stanno parlando di te». E anche in questo caso, nessun mistero.

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Dolores Alvarez
Dolores Alvarez

È laureata in Scienze politiche all'Universidad de Buenos Aires e ha un Master in Relazioni internazionali all'Università di Bologna. Ha lavorato per Diario, Ansa Latina (sito dell'Ansa in spagnolo) e Pagina 12 ed è stata inviata in Italia dei quotidiani di Buenos Aires Crítica de la Argentina e Tiempo Argentino. Da quasi vent’anni vive in Italia.

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