Perché la peste suina africana sta facendo scendere il prezzo della carne di maiale italiana

Gli allevatori delle zone più a rischio fanno sempre più fatica a venderla per via dei protocolli sanitari, e ormai sono disposti anche a rimetterci

Una foto di maiali da allevamento
(Lukas Schulze/Getty Images)
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Poco più di due anni fa furono rilevati i primi casi di peste suina africana in Italia, una malattia virale che colpisce i suini ed è diffusa da anni sul territorio europeo, per la quale al momento non esistono cure o vaccino. Per via della sua diffusione in Italia, soprattutto al nord, sono morti o sono stati abbattuti migliaia di suini e il settore nazionale degli allevamenti di maiali è da tempo in grave difficoltà: a questi problemi di recente se n’è aggiunto uno di mercato, perché il prezzo della carne di maiale proveniente dalle zone considerate a rischio per la peste suina è notevolmente calato.

Non ci sono ragioni scientifiche che giustifichino la diminuzione dei prezzi: la peste suina africana è altamente trasmissibile ed è letale per i maiali da allevamento e i cinghiali, ma gli esseri umani e altri animali non possono ammalarsi di peste suina africana. Le ragioni per cui la carne proveniente dalle zone a rischio viene venduta a un prezzo più basso sono invece in buona parte burocratiche: da gennaio del 2022 infatti in quelle zone sono state imposte severe regole sanitarie, che però non riguardano solo il contenimento dei contagi, ma anche la fase successiva alla vendita. Il risultato è che chi acquista la carne dalle zone a rischio ha molti più oneri e spese, e chiede quindi di comprarla a un prezzo minore. Oltre a questo però molti – addetti ai lavori ma non solo – ritengono che l’abbassamento del prezzo abbia poi alimentato una speculazione da parte di alcune aziende, che approfittano del momento per offrire prezzi sempre più bassi agli allevatori, costretti a vendere pur di liberarsi degli animali.

A fronte di una media nazionale di 2,1 euro al chilo, la carne di maiale proveniente dalle zone indicate come a rischio per la peste suina viene venduta anche a meno della metà, mandando in perdita gli allevamenti coinvolti.

In poco più di due anni si è molto svalutata e secondo molti addetti ai lavori in un modo non giustificato, perché ci sono sia severi controlli nelle zone a rischio sia l’evidenza scientifica che la carne di maiale non costituisce di per sé un pericolo per la salute di chi la mangia: non è insomma pericoloso mangiare quella proveniente da queste zone e non lo sarebbe neanche se venisse da animali effettivamente contagiati, come hanno ribadito sia le autorità europee che il ministero della Salute italiano.

Al momento ci sono comunque molti vincoli per chi alleva e vende carne di maiale. Con un regolamento approvato nel 2023 proprio per il contenimento del contagio da peste suina africana, l’Unione Europea ha imposto una serie di nuove regole che prevedono soprattutto estesi test sui suini e l’abbattimento di tutti gli animali che risultano positivi alla peste suina: in Italia dall’inizio del 2022 sono stati abbattuti 46mila maiali da allevamento, su circa 11 milioni che vengono allevati ogni anno. Nonostante sia certo che non ci sono pericoli per la salute umana, tutta la carne proveniente dalle zone soggette a restrizioni deve avere la certificazione veterinaria che attesti che la carne proviene da un animale sano e non contagiato dal virus.

Le zone in cui ci sono maiali a rischio di peste suina sono state divise a seconda della gravità della situazione epidemiologica, con regole gradualmente più severe: i luoghi inseriti nella cosiddetta “zona 3” sono quelli in cui la situazione è ritenuta più seria e in cui sono contagiati anche animali da allevamento; nella “zona 2” ci sono contagi solo tra i cinghiali selvatici; la “zona 1” invece è quella in cui non ci sono contagi, ma si ritengono comunque necessari controlli e restrizioni perché confina con le a zone più a rischio.

In Italia sono stati trovati contagi in aree che includono 883 comuni, l’11 per cento del totale, distribuiti in alcune zone di Liguria, Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Sardegna, Lazio, Campania, Calabria e Basilicata. In questi territori ci sono complessivamente quasi 500 allevamenti, che però sono concentrati soprattutto al nord. Sono coinvolti alcuni territori specializzati nella produzione di carne e salumi, come le province di Parma e di Cuneo, dove la peste suina africana è diventato un grosso guaio per l’economia locale.

Rudy Milani, allevatore e referente nazionale degli allevatori di suini aderenti a Confagricoltura, dice che «se i maiali non sono in zone di restrizione, vengono venduti a un prezzo di 2,1 euro al chilo; se vengono dalla zona di restrizione più esterna, cioè quella più più blanda, il prezzo è di 1,6/1,7 al chilo, quindi c’è una svalutazione di quaranta centesimi; se parliamo dei suini provenienti dalla zona più restrittiva invece il prezzo medio è di 90 centesimi al chilo, con la speranza che anche a 90 centesimi qualcuno compri quella carne». Secondo Milani il prezzo che in media garantisce agli allevatori di andare a pari con i costi è di 1,8/1,9 euro al chilo: sopra si ha un profitto, sotto si va in perdita.

Questo dipende dal fatto che chi compra la carne da questi territori deve affrontare numerose complicazioni nelle successive fasi della filiera: è per questo che chiede un prezzo più basso, dice Davide Calderone, direttore di Assica, una delle principali associazioni che include aziende in tutta la filiera delle carni e dei salumi.

Le regole sanitarie prevedono per esempio che, se la carne deve essere lavorata, quella proveniente dalle zone soggette a restrizioni lo faccia in stabilimenti appositi, in cui si deve garantire la separazione dalla carne proveniente da territori senza restrizioni e l’igienizzazione di tutti i processi, in modo da evitare un’eventuale contaminazione. Questi processi più complicati comportano un’organizzazione più onerosa e in definitiva costi aggiuntivi.

Ci sono poi problemi di natura commerciale, sia verso l’estero che in Italia. Le esportazioni europee non hanno particolari complicazioni, perché tutti gli stati membri seguono le stesse regole. Il problema c’è invece per le esportazioni verso i paesi non europei, che hanno regole diverse per le carni provenienti da territori in cui sono stati rilevati casi di peste suina africana: regole anche più stringenti di quelle europee, e che quindi rendono difficoltoso o addirittura vietato l’acquisto di carne di maiale proveniente dalle zone a rischio. Per chi vende i suoi prodotti all’estero comprare la carne in queste zone implica automaticamente rinunciare a esportare in alcuni paesi, come per esempio il Canada, il Giappone e la Cina.

Comprare questa carne impone anche obblighi di comunicazione più vincolanti lungo la filiera, per cui deve essere sempre evidente che la carne arriva da territori in cui ci sono restrizioni per la peste suina africana: un fatto che può disincentivare l’acquisto anche da parte di chi non avrebbe vincoli imposti dalle leggi nazionali, ma rinuncia ad acquistarla perché teme di avere difficoltà a venderla per via dello stigma associato all’idea della malattia. Può essere complicato, per esempio, spiegare la provenienza e la non pericolosità di quella carne al consumatore finale.

Le associazioni di categoria sostengono che questi siano solo alcuni dei problemi causati dal comprare la carne da allevamenti che si trovano nelle zone sottoposte a restrizioni. Secondo le stime di Assica ci sono state perdite considerevoli non solo per gli allevatori, ma per tutta la filiera, che ha risentito di un calo delle vendite: in base a queste stime ogni mese il settore italiano della carne perde circa 20 milioni di euro a causa della peste suina africana e delle misure di contenimento. La perdita complessiva sarebbe di circa mezzo miliardo di euro dall’inizio del 2022.

Calderone ritiene che ci siano soprattutto problemi organizzativi e commerciali di questo tipo alla base della richiesta di prezzi più bassi da parte di chi compra la carne dagli allevatori.

Molti osservatori non escludono però che possa esserci anche una certa speculazione da parte delle aziende, che cercherebbero di sfruttare la situazione di emergenza per ottenere prezzi più bassi. E gli allevatori sono abbastanza costretti ad accettare di vendere la carne a prezzi molto bassi: non si può infatti decidere di non vendere i maiali e di continuare ad allevarli, perché una volta arrivati a maturità quelli più adulti devono fare spazio ai maiali che devono nascere. «Non abbiamo alternative, e questo il mercato lo sa bene», dice Milani.

Non sono solo gli addetti ai lavori a ritenere che ci sia una speculazione. «Siamo di fronte a una distorsione del mercato», ha detto per esempio il parlamentare europeo della Lega Angelo Ciocca al Sole 24 Ore, che domenica 24 marzo ha dedicato nel giornale cartaceo una serie di approfondimenti al problema della peste suina: Ciocca ha fatto due interrogazioni alla Commissione europea per chiedere un richiamo formale ai macelli che impongono la svalutazione della carne proveniente dalle zone di restrizione.

Il ministero dell’Agricoltura ha stanziato 19 milioni di euro per rimediare almeno parzialmente ai danni del settore. La gestione della situazione epidemiologica era stata affidata a un commissario straordinario già dal governo di Mario Draghi (anche se dopo qualche mese dall’insediamento del governo di Giorgia Meloni il commissario era stato sostituito).

Il piano per il contenimento del contagio prevede da una parte l’abbattimento degli animali infetti e dall’altra l’installazione di recinzioni per delimitare le zone di restrizione, in modo che gli animali selvatici infetti non diffondano il virus all’esterno. Secondo Calderone queste recinzioni sono state fatte con un po’ di ritardo e non in modo perfettamente capillare sul territorio, e in questo modo il virus si è potuto diffondere. Secondo Milani invece il problema sta nel fatto che gli animali selvatici sono ancora troppi, e andrebbero ulteriormente ridotti in modo da ridurre le possibilità di circolazione della malattia.