Mi chiamo Viola e ho un problema con le boygenius

«Un’ossessione non si nutre mai di solo riconoscimento della bravura di qualcuno. C’è sempre un gancio personale profondo, qualcosa di intangibile che risponde alla necessità inespressa di essere vista. Di riconoscere in qualcun altro un’esperienza condivisa, un modo simile di scandagliare l’esistenza. Nel caso delle boygenius, al di là dell’ammirazione per tre ragazze abbastanza spudorate da paragonarsi ai Beatles, a Crosby, Stills & Nash o ai Nirvana, ho capito che per me la ragione è la loro amicizia, l’assoluta priorità che – intervista dopo intervista, canzone dopo canzone, concerto dopo concerto – Bridgers, Dacus e Baker danno al loro rapporto, identificato ancora e ancora come un’ancora di salvezza, per riuscire dopo tanta solitudine a sentirsi davvero accettati e protetti»

Phoebe Bridgers, Lucy Dacus e Julien Baker: le boygenius al Coachella Valley Music and Arts Festival. Indio, California, 22 aprile 2023 (Frazer Harrison/Getty Images for Coachella)
Phoebe Bridgers, Lucy Dacus e Julien Baker: le boygenius al Coachella Valley Music and Arts Festival. Indio, California, 22 aprile 2023 (Frazer Harrison/Getty Images for Coachella)

So riconoscere benissimo un’ossessione quando la vedo. E pure un rapporto parasociale, quell’illusione assurda di avere un legame con qualcuno che non hai mai conosciuto, sviluppata in solitudine dopo anni e anni passati a informarti e appassionarti alla carriera di qualcuno, arrivando a confondere ciò che è mostrato al pubblico con la realtà di quello che possono vedere le persone amiche.

Ci ho a lungo sguazzato: alle medie passavo le giornate sui forum di Harry Potter in cui fingevamo di essere studenti qualunque che si spostavano di lezione in lezione a Hogwarts; al liceo avevo non uno, non due, ma tre blog su Tumblr per discutere maniacalmente delle serie tv che amavo; mi sono vestita da Dalek di Doctor Who e da torre di Barad-dûr di Tolkien tra migliaia di altre persone in cosplay al Lucca Comics & Games. Ma pensavo di essermi in larga parte emancipata dagli eccessi della mia adolescenza. Poi sono arrivate le boygenius.

Ero andata a trovare una delle mie più care amiche a Londra. Lei lavorava lì da quasi cinque anni e stava pensando di tornare in Italia, malsopportando una città dove le sembrava ancora difficilissimo costruire rapporti significativi. Io scrollavo pigramente su Twitter in autobus, e mi ero accorta che all’improvviso tantissimi profili che seguivo parlavano di un solo album appena uscito: the record delle boygenius, un gruppo formato da tre giovani cantautrici statunitensi indipendenti, tra le più promettenti di allora, Phoebe Bridgers, Lucy Dacus e Julien Baker.

Il loro primo EP era uscito nel 2018, e me l’ero completamente perso. Conoscevo qualcuna delle loro canzoni da soliste, sapevo un po’ troppe cose sulla vita personale di Bridgers per colpa di un meme che prometteva di mappare tutti i collegamenti tra lei, Taylor Swift, l’autrice irlandese Sally Rooney e la serie tv Fleabag, ma non ero una particolare fan di nessuna di loro. Avevo letto da qualche parte che il nome lo avevano scelto per fare un commento sarcastico sui classici “maschi geniali” dell’arte, a cui viene concessa qualsiasi cosa in virtù del loro folle genio, e questa cosa mi era piaciuta, ma non abbastanza da andare a cercarmi la loro musica. In ogni caso il disco aveva l’aria di intonarsi alla perfezione alla malinconia delle mezze stagioni a Londra, e mi dicevo da tempo che avrei dovuto ricominciare ad ascoltare cose nuove, e non avevo molto di meglio da fare.

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È bastata qualche ora per farmi scrivere al mio migliore amico di ascoltare True Blue – «And it feels good to be known so well / I can’t hide from you like I hide from myself» – perché lui non poteva saperlo, ma era la nostra canzone. Dopo un paio di mesi organizzavo le vacanze estive per riuscire a vederle due volte nell’arco di due settimane, a Berlino e Parigi, perché in Italia non sono mai veramente arrivate. Alla fine dell’anno nella top 5 degli artisti più ascoltati su Spotify c’erano Taylor Swift in uno scontato primo posto, che avrebbe mantenuto fino a oggi. Di seguito: boygenius, e poi in ordine Lucy Dacus, Phoebe Bridgers, Julien Baker. È passato un anno e sto ancora flirtando con l’idea di farmi un tatuaggio ispirato a una loro canzone, oppure tre. Quando nel febbraio scorso hanno annunciato il loro scioglimento (temporaneo o meno, non si è capito) mi sono arrivati messaggi preoccupati anche da amici che, a quanto ne sapevo, non le avevano mai ascoltate. The record è stato acclamato dalla critica come pochi altri album degli ultimi anni, e le boygenius sono state il gruppo più premiato agli ultimi Grammy Awards, se qualcuno tiene conto di questo genere di cose. La cosa che più ha colpito me, però, è l’intensità emotiva del fandom che si è formato attorno a loro, un gruppo di ragazze queer di poco meno di trent’anni.

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Non tutti hanno sviluppato un’ossessione paragonabile alla mia. Ci sono tantissime persone che le amano profondamente senza sapere nulla delle loro vite personali. Conosco qualcuno che per settimane si è rifiutato di ascoltare qualsivoglia altro musicista, ma che non saprebbe nemmeno dire i loro nomi di battesimo. Io stessa sono rimasta folgorata in primis dalla loro musica, prima che gli algoritmi cominciassero a propormi quotidianamente una marea di contenuti sulle loro vite, i loro rapporti, le analisi delle canzoni, tutti i minuscoli dettagli che a una fan interesserebbero, a un semplice ascoltatore molto meno.

Nella mia esperienza, un’ossessione non si nutre mai di solo riconoscimento della bravura di qualcuno. C’è sempre un gancio personale profondo, qualcosa di intangibile che risponde in un modo o nell’altro alla necessità inespressa di essere vista. Di riconoscere in qualcun altro un’esperienza condivisa, un modo simile di scandagliare l’esistenza. Nel caso delle boygenius, al di là del fatto che trovo fighissimo che tre ragazze della mia età siano spudorate abbastanza da paragonarsi ai Beatles, a Crosby, Stills & Nash o ai Nirvana, ho capito che per me la ragione è la loro amicizia, l’assoluta priorità che – intervista dopo intervista, canzone dopo canzone, concerto dopo concerto – Bridgers, Dacus e Baker danno al loro rapporto, identificato ancora e ancora come un’ancora di salvezza. Una dimostrazione che mi pare genuina, concreta e profonda di cosa voglia dire trovare le proprie persone, riuscire dopo tanta solitudine a sentirsi davvero accettati e protetti.

La cover di Rolling Stone dedicata ai Nirvana nel gennaio del 1994 e quella dedicata alle boygenius nel gennaio del 2023

Come molte altre cantautrici (e cantautori) indie, le boygenius hanno fama di fare musica triste, «da persone depresse», soprattutto come singole artiste. È indubbio che tutte e tre portino nella propria musica un vissuto complesso: Phoebe Bridgers, senza dubbio la più famosa, è nata nel 1994 a Pasadena, in California, e scrive canzoni che riescono a parlare di temi durissimi – le relazioni abusanti con uomini più vecchi, il difficile rapporto con il padre, il senso di angoscia che viene dall’avere vent’anni su un pianeta che sembra costantemente bruciare – spesso con un pungente senso dell’umorismo. È bisessuale, e ha più volte raccontato che questo ha causato per un periodo un certo allontanamento tra lei e la madre.

Lucy Dacus è nata invece nel maggio del 1995 ed è stata adottata quando era molto piccola da una famiglia molto credente dei sobborghi di Richmond, in Virginia. Si definisce “queer”, e i suoi testi sono i più poetici e intellettuali, colmi di riferimenti letterari e sentimenti irrisolti verso la religione e verso il fatto di essere cresciuta in un corpo che non corrisponde esattamente ai canoni di bellezza tradizionali. Troppo alta, troppo goffa, non abbastanza magra, il genere di ragazza che crescendo viene chiamata molto più «intellettualoide» che «carina», come canta in Brando.

E poi c’è Julien Baker, che molti considerano la vera anima del gruppo. Nata nel settembre del 1995 in Illinois, è cresciuta in una famiglia ancora più religiosa, e ha passato l’adolescenza a reprimere la propria omosessualità per paura che i genitori la allontanassero da casa o la mandassero a fare una “terapia di conversione”, come era successo a diversi suoi amici. Ha avuto a lungo problemi di dipendenza dagli oppiacei: oggi non consuma nessun tipo di sostanza, ma le sue canzoni sono profondamente tinte dal suo rapporto estremamente complesso con la religione e con sé stessa.

Sia Dacus che Bridgers hanno scritto canzoni che parlano della bellezza e della difficoltà di stare al fianco di Baker in momenti di forte autodistruttività; spesso, durante i concerti, le cantano insieme sul palco. Non è raro che alla fine dei loro show – un momento sempre caotico, in cui le tre si inseguono, si baciano, fanno crowdsurfing, si rotolano sul palco, talvolta si levano la camicia rimanendo a petto nudo – Bridgers e Dacus si prostrino ai piedi di Baker facendo finta di venerarla mentre suona la chitarra. Dacus ha raccontato che tutte e tre hanno fatto fatica a essere davvero felici in alcuni momenti della loro vita, ma che il loro rapporto ha nettamente migliorato la loro esistenza, oltre ad aver permesso loro di esplorare uno spettro molto più ampio di emozioni negli album fatti insieme.

Baker vide Dacus per la prima volta nel backstage di un concerto in cui entrambe avrebbero suonato nel 2016. Dacus stava leggendo The Portrait of a Lady di Henry James e, dopo qualche chiacchiera, aveva strappato l’ultima pagina per scriverci il suo indirizzo email, inaugurando lunghi mesi di messaggi sulla letteratura, la religione e le loro esperienze, spesso solitarie e isolanti, come musiciste. Più tardi avrebbero entrambe raccontato di aver sviluppato una cotta per l’altra, senza dirselo. Baker e Bridgers si incontrarono un mese dopo e andarono altrettanto d’accordo. Così, quando scoprirono che nel 2018 avrebbero fatto un tour insieme, decisero di incidere un EP per promuoverlo. «Dovevamo fare una canzone, ne abbiamo fatte sei», ha detto Bridgers. «Non è stato come innamorarsi. È stato innamorarsi». A oggi circolano voci che Baker e Dacus stiano insieme, anche se non l’hanno confermato pubblicamente, mentre Bridgers sta con il comico Bo Burnham: ufficialmente, comunque, sono solo amiche. Strettissime.

Io queste persone non le ho mai incontrate, e non posso mettere la mano sul fuoco sul fatto che in realtà stiano esagerando la profondità del loro rapporto perché questo genere di narrazione funziona, attira l’attenzione. Mi stupirebbe, però: ho letto troppe interviste in cui Bridgers dice che «si piace di più quando è attorno a loro», che «sono mutualmente ossessionate l’una con l’altra», che stare con loro le ha reso la vita più tollerabile. Per il loro ultimo tour internazionale sono state anche in terapia di coppia, come ha raccontato Dacus: «Alcune amicizie che durano da anni non raggiungono mai il livello di intimità sufficiente per condividere il tipo di paure, desideri e speranze che abbiamo condiviso noi tre».

Dopo la pubblicazione del suo ultimo album, Little Oblivions nel 2021, Baker aveva letteralmente perso la voce per ragioni psicosomatiche: «Quando ho cominciato a fare le prove per le boygenius, non riuscivo a cantare», ha raccontato. «Ero estremamente silenziosa, non riuscivo a raggiungere le note. Ma man mano ho cominciato a cantare sempre più forte: queste qui mi hanno ridato la voce». Una delle loro canzoni – secondo me una delle migliori dell’album – si intitola letteralmente We’re in Love, e parla della loro amicizia. Comincia con «You could absolutely break my heart».

Le boygenius, insomma, rappresentano un’amicizia che molti possono solo sognarsi. Non sono l’unica a essere caduta vittima del fascino di questo rapporto: sul New Yorker, Rachel Syme ha scritto che ascoltare the record vuole dire «partecipare indirettamente alla gioia del loro appassionato coinvolgimento», e che le loro canzoni aiutano a provare «lo stesso tipo di intenso romanticismo che si sviluppa nei primi giorni di un’amicizia stretta tra donne, quando non sei sicura di essere innamorata dell’altra persona o di aver finalmente trovato qualcuno con cui parlare».

Il fatto che siano tre donne che si identificano, in un modo o nell’altro, nella comunità LGBTQ+ non può essere ignorato. Soprattutto negli Stati Uniti, dove la destra negli ultimi anni è tornata ad attaccare sistematicamente i diritti delle persone LGBTQ+ (soprattutto quando sono trans), l’attenzione e l’impegno che le boygenius hanno più volte mostrato verso importanti questioni politiche che coinvolgono la comunità è stato molto lodato. «Anche se rifiutano l’idea che il loro genere o la loro sessualità in qualche modo prevalgano sul loro lavoro, continua a essere un momento terribile per essere una donna o una persona queer o emarginata, ed è un sollievo sapere che queste persone che fanno musica che ami sanno quanto faccia schifo», ha scritto Lex McMenamin su Them. «Sono arrabbiate pur rimanendo aperte al mondo, innamorate, gioiose e furiose in egual misura, ma anche insoddisfatte e annoiate e stanche e desideranti e tutto il resto dello spettro delle emozioni umane. Sanno cosa vuol dire non volere più esistere, e insieme hanno trovato la capacità di voler invece essere vive».

Il loro fandom riflette questa cosa. Baker ha parlato di quanto la renda felice sapere di essere un modello per i ragazzini e le ragazzine queer che vanno ai loro concerti: «Là fuori ci sono 25mila ragazzini gay che ci hanno sentito dire queste cose: sii presente nella tua vita. Presta attenzione ai tuoi amici. Vale la pena stare al mondo», ha detto una volta.

Ecco. Quello che sto per dire sembra del tutto slegato dalle boygenius e dalla mia ossessione nei loro confronti, ma fidatevi.

Uno dei miei meme preferiti viene da un articolo del New York Times. Il pezzo si intitola “So cosa pensi di me”, l’ha scritto il saggista Tim Kreider nel 2013, e parla del fatto che rendersi vulnerabili mostrando anche parti di sé stessi di cui non si va fieri sia uno dei requisiti necessari per poter stringere rapporti umani autentici. Il meme è tratto dall’ultima frase dell’articolo, talmente poetica da sembrare fuori luogo: «If we want the rewards of being loved, we have to submit to the mortifying ordeal of being known» («Se desideriamo la ricompensa di essere amati, dobbiamo sottoporci al mortificante travaglio di essere conosciuti»).

Uno dei meme in questione

Per una di quelle casualità tipiche di internet la citazione di Kreider, ovviamente decontestualizzata, cominciò a circolare su Tumblr nell’estate del 2018. All’improvviso un’ammissione di inadeguatezza, a tratti di terrore, verso l’idea di dover abbassare la guardia e allentare il controllo per scampare a una condizione di solitudine ancora peggiore cominciò a essere giustapposta a screenshot di film Marvel e foto di Teletubbies gettati nell’immondizia, scene di My Little Pony e gattini scoraggiati dall’idea di dover mostrare i lati peggiori di sé per poter essere davvero amati. A posteriori sembra ridicolo ma per me – che allora avevo ventitré anni, mi sentivo tremendamente sola ma non avevo fino a quel momento avuto alcuna intenzione di mostrarmi per quella che ero davanti a chicchessia – quei meme erano il modo meno doloroso di approcciare quell’idea.

Sono passati anni, e le mie persone alla fine le ho trovate. Ma le boygenius sono entrate in qualche modo in possesso della chiave che apre la porta dietro cui ho nascosto quella ventitreenne. E quindi sentire qualcuno cantare, con un tono di stupefatta meraviglia, «I never thought you’d happen to me» («Non avrei mai pensato che tu mi saresti capitata») continua a toccare delle corde molto intime. Leggere le loro interviste, conoscere il modo in cui le loro solitudini personali si sono intrecciate e riconosciute a vicenda mi ricorda quanto raro e prezioso sia, in effetti, trovare qualcuno davanti a cui il mortificante travaglio di essere conosciuti non sembra così spaventoso (o, se vogliamo scomodare Italo Calvino e Le città invisibili, «saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio»). In un momento storico come questo, in cui la difficoltà di instaurare relazioni genuine e profonde con gli altri è estremamente comune, a me è bastato questo per sviluppare un’ossessione.

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Viola Stefanello
Viola Stefanello

È nata in provincia di Padova e ha vissuto a Gorizia, Parigi e Roma prima di cedere a Milano. Ha studiato Scienze internazionali e diplomatiche prima, Giornalismo e diritti umani poi, ma scrive spesso di “cose da nerd”. Prima del Post ha scritto su Repubblica, Internazionale e altre testate. Passa molto tempo online.

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