Diciannove canzoni dei Divine Comedy

Che sono Neil Hannon, fanno canzoni pop peculiari ed ebbero molto successo 30 anni fa

(Jim Dyson/Getty Images)
(Jim Dyson/Getty Images)
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I Divine Comedy sono la band di Neil Hannon, ovvero una di quelle band fatte da una persona sola: lui è di Derry in Irlanda del Nord e ha costruito un grande successo britannico negli anni Novanta e una solida ammirazione per la sua creatività e umorismo nello scrivere testi di canzoni spesso orchestrate in maniere molto ricche e originali. Queste sono le canzoni dei Divine Comedy scelte da Luca Sofri, peraltro direttore del Post, nel suo libro Playlist, aggiornate e completate per il Post.

Divine Comedy (1989, Londonderry, Irlanda del Nord)
Questa non è mia, l’ho trovata su un sito internet: i «Divine Comedy sono lo pseudonimo di Neil Hannon, un cantautore pop irlandese con l’ambizione di diventare la sintesi new wave di Scott Walker, Morrissey e l’Electric Light Orchestra». Messa così fa un po’ ridere, ma non ci va lontanissimo. I tratti peculiarissimi dei Divine Comedy sono infatti i versi ispirati e ironici alla Smiths, degli arrangiamenti da show televisivo degli anni Settanta, e dotte citazioni qua e là. Il tutto facendo canzonette pop.

Tonight we fly
(Promenade, 1994)
Al galoppo! E vai con archi e archetti. Neil Hannon stesso raccontò che a questo punto era molto condizionato dalle cose di Michael Nyman. “Tonight we fly” chiudeva il concept album dedicato alla giornata di due innamorati, e loro se ne volano via, o forse vanno felicemente a morire, “e se il paradiso non esiste, saremo davvero delusi o tristi? Cosa ci saremo persi? Questa vita è la migliore che abbiamo mai avuto”. La canzone preferita di Neil Hannon, tra le sue.

Songs of love
(Casanova, 1996)
Chitarre e corde, suono settecentesco e andamento filastrocco, ma molto più sobria delle altre cose dello stesso disco. Parla di sociologia sessuale, con questo tono aulico ed etereo: di giovani arrapati che si rincorrono per strada mentre io me ne sto qui a perseguire lo stesso obiettivo scrivendo canzoni d’amore. I controcanti sono fantastici.

There is a light that never goes out
(The Smiths is dead, 1996)
Chiesero a Hannon di partecipare a un disco di canzoni degli Smiths. Lui scelse la più bella canzone degli Smiths. Non era facile farla all’altezza dell’originale. Eppure.

Everybody knows (except you)
(A short album about love, 1997)
L’ha detto a tutti, l’ha spiegato ai suoi, ha fermato i passanti per dirglielo, lo sa chiunque, tranne lei. Che l’ama. Ha rincoglionito così tutti i suoi amici, con questa storia che l’ama, che non lo sopportano più e non ha più amici. E anzi, l’unica amica che ha è lei: che non lo sa o non ci vuole credere, che lui l’ama. Ci sta diventando scemo, insomma lei non può non saperlo, magari lo ama anche lei, ma non ne vuole sapere di saperlo. Pa-rapà-pappararapà…

Make it easy on yourself
(A short album about love, 1997)
Gran pezzo del 1962 di Burt Bacharach e Hal David, che aveva avuto un gran successo nel primo disco dei Walker Brothers nel 1965 ed era già pronto e fatto apposta per l’enfasi teatrale, struggente e orchestrale dei Divine Comedy.

National express
(Fin de siècle, 1998)
Capolavoro. Una delle canzoni più spiritose degli ultimi vent’anni. Se vi danno uno show televisivo, usatela assolutamente. Sembra la sigla di una cosa tipo Milleluci, quelle robe là. O Broadway in pieno splendore. Non si può cantarla e basta, come minimo bisogna attraversare le stanze a grandi falcate tenendo il tempo e mulinando le braccia, se non togliendo e rimettendo il cilindro. Il coro è sensazionale, le parole tessono le lodi di una linea di autobus (e c’è l’equivalente britannico dell’espressione “ha un culo che fa provincia”).

Generation sex
(Fin de siècle, 1998)
Un altro fantastico arrangiamento, su un testo che prende in giro il rapporto squinternato dei tempi con il sesso, dalle abiezioni dei media alle strampalatezze di ognuno, ai moralismi ipocriti. Grandi scioglilingua, evoluzioni orchestrali e tricchebballacche.

The certainty of chance
(Fin de siècle, 1998)
Inizia con la citazione del famoso battito di farfalla da una parte del mondo che genera un tifone da un’altra parte del mondo, ma già dal titolo è un saggio sulla certezza che le cose avvengano per rapporti di causa ed effetto imprevedibili e spesso difficili da districare anche quando sono avvenuti. Con una precoce intuizione sui disastri che certe sbadatezze possono generare nel mondo digitale, e una speranza finale che la stessa cosa capiti anche con gli amori non risolti. Non ancora risolti.
A schoolboy yawns, sits back and hits returnWhile round the world computers crash and burnI know that it will happen‘Cause I believe in the certainty of chance

I’ve been to a marvellous party
(A secret history, 1999)
Neil Hannon la inventò per un tributo a Noël Coward, attore, drammaturgo e autore di canzoni di lustro nazionale e internazionale. Non la si può raccontare. Ma ci provo. C’è prima una parte che pare un programma radiofonico degli anni Trenta con uno speaker impostatissimo che racconta aneddoti surreali sulle celebrità presenti a una festa del jet set (sembra Franca Valeri quando prendeva in giro i ricchi rampolli in riviera): è un testo di Coward rielaborato. Dopo di che lo stesso racconto si trasforma in un pezzo techno (ma techno techno) devastante, che all’improvviso rientra nei ranghi precedenti con un pianoforte da cabaret. E poi di nuovo techno, fino alla straordinaria apertura liberatoria del coro nel finale.

Gin soaked boy
(A secret history, 1999)
Neil Hannon in crisi di identità elenca le mille cose che lo descrivono (“sono questo”, “sono quello”), in un crescendo di arrangiamenti e di “pappà-pappa-parara”. Alcune battute sono fulminanti: “sono la bella nella bestia”, “sono il perché no nel perché”, “sono Jeff Goldblum nella Mosca”.
Il titolo cita una canzone di Tom Waits, ma nel testo ci sono anche “I’m the ruby in the dust” (da “Cowgirl in the sand” di Neil Young), “I’m the ghost in the machine” (il disco dei Police) e “I’m the catcher in the rye” (il titolo originale del Giovane Holden).

Too young to die
(A secret history, 1999)
Non posso continuare a fare ’sta parte tutta la vita, dice qui. Ho ventotto anni e continuo a comportarmi come un ragazzino con tutte queste balle di sogni e romanticismo. Devo lasciarmi alle spalle questa parte di me che privilegia l’arte sull’umanità. Forse è ora di cambiare. Chissà cosa gli era preso.

Perfect lovesong
(Regeneration, 2001)
Ancora teoria di scrittura di canzoni e sentimenti: “scriverò la canzone d’amore perfetta, con una linea di basso dei Beatles e un suono tipo vecchi Beach Boys”.

Sticks and stones
(Absent friends, 2004)
A questo punto Hannon era rimasto solo, senza il resto della band. Non aveva un successo britannico da anni (men che mai nel resto del mondo), malgrado la rinnovata stima della critica. Non lo ebbe neanche questa volta, e la critica lo lodò ancora. Ci mise un sacco di archi, gli tornò il debole per Nyman, e in questa canzone usò un refrain enfatico e trascinante come ai vecchi tempi.

Our mutual friend
(Absent friends, 2004)
Questa poteva essere buona per la colonna sonora di Barry Lyndon. Un’escalation di archi dal ritmo formidabile e la voce di Hannon appassionata come mai a raccontare dell’innamoramento di una sera culminato in una delusione, con citazioni di “vecchi 45 giri”: “It’s not unusual” di Tom Jones e “True” degli Spandau Ballet. Il “frieeeend” finale è disperato, melodrammatico e stupendo, con l’orchestra che se ne va via lontano.

The happy goth
(Absent friends, 2004)
Ritratto ironico e affezionato di quella ragazzina nel periodo dark, che “si sente diversa dagli altri solo se sta da sola” e porta “Doctor Martens e una croce al collo”. Hannon cerca di confortare i genitori preoccupati: è una fase, e lei è contenta, tranquilli. E tutto il solito repertorio di grandi invenzioni melodiche.

A lady of a certain age
(Victory for the comic muse, 2006)
Sta nel solco di Like a rolling stone e di tante storie di fasti passati e declini e vecchiaie, col carico di malinconia spiritosa che ci sa mettere Hannon. Molto bello quel giro che sta sotto al refrain. Francesco Bianconi dei Baustelle ne fece una cover in italiano.

To the rescue
(Foreverland, 2016)
Bellissima canzone d’amore per quanto sei capace di soccorrere me e di soccorrere il mondo intero, con una rotazione di archi che se ne andrebbe via per ore.

Norman and Norma
(Office Politics, 2019)
Sta nel grande solco di canzoni su una coppia (Brenda and Eddie di Billy Joel, Romeo and Juliet, Johnny and Mary, Zak and Sara di Ben Folds) ma con delle invenzioni di versi, rime e suoni delle parole in cui Hannon dà il suo meglio.

The best mistakes
(Charmed life, 2022)
L’ultima canzone nuova, prima di dedicarsi a quelle del film Wonka (2023), Hannon la registrò per una raccolta: è una sorta di My way (“And I don’t regret a single day”), che rivendica tutti gli errori fatti, visto che lo hanno portato fin qui.