Istruzioni per (non) trovare un uomo online

«La mia psicologa mi diceva che usare le app è come andare in palestra, mandi dei messaggetti, un po’ di flirt, ti metti carina. Ora vivo in Grecia e se aumenti di poco il raggio della ricerca, ti si apre tutto un mondo: bulgari, turchi, albanesi, italiani in vacanza! Uomini bellissimi ed eccentrici, inguardabili e forzuti. A un certo punto ero ipnotizzata, ma non mettevo like e l’algoritmo impazzito ha cominciato a offrirmi baffuti cantanti in gilet ricamato e pantaloni alla zuava, robusti muratori dal bicipite a tronco, uno che solleva una capra nella foto profilo»

(Liliana Drew via Pexels)
(Liliana Drew via Pexels)

C’è gente che non ha mai voluto sposarsi, formare una famiglia, avere dei figli. Tra questa gente ci sono io. Non va né male né bene, semplicemente, come diceva Vonnegut, So it goes. Anche se certi familiari non apprezzano. Me ne sono sempre beatamente fregata. In ogni caso, avendo avuto vari amori belli che funzionavano finché non funzionavano e vari periodi di solitudine ho usato negli anni varie app, con obiettivi vari, i soliti. Evviva la varietà.

Sono parecchio spontanea ma sogno di essere una sciantosa avvolta dal mistero. Invece no, maledizione, sono un libro aperto. Che a volte è imbarazzante e miete vittime ignare e soprattutto indesiderate. Le app aiutano un poco, in questo senso. Ma fanno anche tanto ridere.

In ogni caso, a un certo punto della vita, dopo un anno al Cairo e uno in Israele, mi sono detta: basta, sto un po’ ferma a Milano. Ero tornata single. E così ho pensato di riprovare con le app, che avevo usato solo una volta a New York dove ero stata un po’ di mesi. Io amo molto stare da sola, forse fin troppo. Quindi mi dico: devo uscire dalla comfort zone, allenarmi, tornare sul mercato dei self partnered (meh) e giocare un po’. Ti devi un po’ costringere, scrivere il profilo ecc. All’inizio dici okay, sembra il supermercato, ma se lo prendi come un social e lo controlli ogni tanto e non cerchi il grande amore (per carità, si può incontrare, ma meglio non farsi troppe illusioni) le possibilità di incontro aumentano di certo. Mica posso stare seduta in un bar a fare gli occhi dolci a destra e a manca, pensavo.

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La mia ottima psicologa dell’epoca – che nel frattempo mi ha dato la sua benedizione – mi diceva, è come andare in palestra, mandi dei messaggetti, un po’ di flirt, ti metti carina. Ecco io detesto pensare ai vestiti e so mettermi il mascara e il rossetto e basta, ma un po’ di sforzo l’ho fatto. A ogni modo, trovo un tipo che sembra interessante – perlomeno sa sostenere una conversazione via chat – ma non c’entra niente con me – fa il social media manager per una grande azienda internazionale di gioielli e io non li metto mai i gioielli, se non qualcosa d’argento – ma mi sono spronata lo stesso: Alleniamoci, palestra! Basta con gli intellettuali, aria nuova, comunicatori, mercanti, novità!

Mentre cammino su un viale milanese per prendere la 92, inteso come filobus, sono così impaziente all’idea di quell’appuntamento che rimango rapita davanti alla vetrina di Tigotà dove campeggia una grande offerta – valida solo fino a quella sera, imperdibile! – di swiffer. Quando avevo molti libri (ora non più perché i libri con i traslochi internazionali vanno abbandonati), ogni tanto li spolveravo con gli swiffer. L’offerta era tipo 20 swiffer a metà prezzo, evviva! Ma come trasportare lo scatolozzo? Pago, estraggo i piumini, li ficco in borsa, butto il cartone e via sulla mitica circolare 92, una delle cose che mi piacevano di più di Milano, la linea più rapida e democratica, l’autobus dove vedi il mondo.

Arrivo all’appuntamento in ritardo, mi annoio all’istante, rollo molte sigarette per distrarmi, bevo un bicchiere di costosissimo vino troppo in fretta e spero invano che il tempo acceleri. Altro bicchiere di vino. Purtroppo a un certo punto mi rendo conto di aver finito i filtri. Tragedia. Inizio a ravanare nella grande borsa capiente e in un attimo di confusione misto a ebbrezza misto a noia faccio un movimento inconsulto e praticamente mi escono tutti i piumini a pioggia sul tavolo. Un’esplosione di swiffer. A me sembra uno spasso e visto che sono brilla mi viene un imbarazzante attacco di ridarella. Il tipo è basito, non ride. Evidentemente non fa per me.

Qualche anno dopo ci riprovo, sempre da Milano. Trovo un tipo che sembra molto spigliato nei messaggetti. Bell’uomo, psicanalista svizzero, plurilingue, amante della letteratura. Magnifico. Subito, visto che sono impaziente e non amo chattare, propongo di andare a mangiare qualcosa nella mini Chinatown milanese, Sarpi. Così vado sul sicuro e vedo se fa lo schizzinoso o il fighetto. Accetta volentieri e dice: Ma non vogliamo sentirci un po’ a voce, chiacchierare un po’ nel frattempo? E io, babbea, penso, oddio che imbarazzo parlare con uno sconosciuto guardandolo nel telefono. Neanche per sogno. E così una settimana dopo lo aspetto al ristorante cinese. Mi sono un po’ truccata e comunque il cinese è a due passi da casa, quindi non devo passare davanti a Tigotà e comprare gli swiffer.

Da lontano è proprio un bell’uomo, vestito bene. Molto alto brizzolato jeans blu camicia di lino blu. Ci sediamo e lui apre bocca e SBAM! Accento ticinese. Appena si gira scrivo a un’amica di telefonarmi di lì a mezz’ora. Io non ho nulla contro gli accenti, tranne il ticinese e il bergamasco e il bresciano (sorry). Come non ho nulla contro quelli più bassi di me, però nell’app ho scritto: solo uomini alti più di uno e ottanta. Non è razzismo ma se io fossi un uomo e mi piacessero le tettone, mi scarterei subito. Così nessuno perde tempo. Questa cosa mi sa che agli uomini non piace tanto, ma amen. Meglio scrivere sempre la verità – non come i numerosi personaggi che scrivono sul profilo quarantacinque anni anche se si vede lontano un miglio che ne hanno sessanta. Io scrivo tutto: età altezza no tette no convivenza, ecc.

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Insomma, la mia amica mi telefona e io le dico sì sì certo arrivo tra poco. Spiego ad Accento Inascoltabile che è un’emergenza, Perdonami, ma devo proprio andar via, la mia amica ha un problema bla bla. Non ricordo più la scusa esatta ma sembrava credibile. Ci rimane male ma incassa, si alza per salutarmi e… tuffo al cuore. Ecco le scarpe in assoluto più inguardabili della terra, un modello che stranamente va molto forte in India, anche se di fattura meno pregiata: i mocassini a becco d’anatra, aka le scarpe a bara. Ecco, accento e scarpe sbagliate. Adoro essere single.

Ora vivo in Grecia ed è molto interessante usare le app perché basta che aumenti di poco la distanza accettabile, cioè il raggio della ricerca, e ti si apre tutto un mondo: bulgari, turchi, albanesi! Uomini bellissimi ed eccentrici. O inguardabili e forzuti. Siccome a un certo punto ero come ipnotizzata ma non mettevo mai nessun like, l’algoritmo deve essere impazzito – anche grazie agli amici che ti fregano il telefono e fanno pasticci – e ha cominciato a offrirmi baffuti cantanti in gilet ricamato e pantaloni alla zuava, robusti muratori dal bicipite a tronco, uno che solleva una capra nella foto profilo, uno vestito da cuoco in un tinello improbabile, uno con i baffi a manubrio e una evidente confezione di ovatta nei pantaloni, uno che brandisce la cazzuola da muratore a mo’ di spada, un altro che mangia un’anguria in canotta, e poi, il più raffinato! – un tizio che davanti a sé brandisce un enorme cetriolo. Il migliore però rimane un greco ricoperto di peperoncini photoshoppati e la scritta «I am HOT!!!». Un po’ mi sono innamorata, ma era molto più basso di me.

Sarò anche infantile, ma rido per ore. Il divertimento assoluto era fare screenshot e sbellicarsi con amici e amiche, che mi mandavano dall’Inghilterra i loro maschi Tinder con enormi pesci appena pescati o dalla Toscana con cinghiali insanguinati sulle spalle. Però ecco, ogni tanto, superati gli ostacoli – oltre alle scarpe a bara e agli accenti inascoltabili ci sono quelli in sella a moto gigantesche; panzuti al timone dello yacht (che in Grecia vanno molto forte); quelli con il gel nei capelli; le pose da palestrato anni 90; i jeans tagliati (a vent’anni vanno bene but); i baci in bocca al cane; quelli che scrivono che in una donna cercano la “sex positivity” (ma che è?); quelli che non sanno scrivere niente nel profilo se non MAN; quelli che scrivono troppo e danno istruzioni su come farli felici in un mansplaining esilarante; quelli che scrivono nella sezione scopo nella vita «dormire bene» (WTF); quelli che si vede perfino dalla foto che usano litri di dopobarba e quelli che il deodorante si vede che non lo usano proprio; quelli con le ciabatte innominabili tedesche e magari pure i bermuda – dicevo superati gli ostacoli qualcuno si trova, nelle app – e nella vita – ma questi, capirete, sono fatti miei.

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In conclusione direi che l’esperienza app è uno spasso assoluto anche se all’inizio sono una droga antropologicamente intrigante, ma dopo qualche mese perdono di fascino. Il mio consiglio è usarle poco, dimenticarsene, come succede con tante altre app nel nostro cellulare. Quello che ho capito è che ogni incontro dipende dalla fortuna e dal caso, dal trovarsi nel posto giusto al momento giusto, ma anche dalla tua disponibilità del momento e in generale. Con le app è un po’ lo stesso che con la vita, dipende, da come ti svegli al mattino o se stai guardando i profili in metro o sul divano: il grande amore – o semplicemente un amore – forse è nell’app o forse ce l’hai vicino in metro, ma non te ne accorgi perché stai smanettando sull’app. E comunque, come diceva Duras, È una meraviglia ignorare il futuro.

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Gioia Guerzoni
Gioia Guerzoni

Traduce narrativa contemporanea da quasi trent'anni, e le piace sempre molto. Tra i suoi autori, Teju Cole, Siri Hustvedt, Hanif Kureishi, Deborah Levy, Jenny Offill, Mary Ruefle. Nel tempo libero viaggia o contempla mappamondi, cammina, dirige cantieri, va a caccia di romanzi da tradurre, nuota, scrive minuscoli libri in inglese e lavora a progetti editoriali con altre persone.

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